Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

28 aprile 2011

Dalla Sinistra comunista alla «comunizzazione»

di Gilles Dauvé (2009)


[Il testo che segue è stato pubblicato nel volume Gilles Dauvé [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010]

Un buon modo di approcciare i testi raccolti in questo volume è quello di vederli, anziché come una mera riflessione intorno a delle idee, come il prodotto di un’esperienza.
In due studi un tempo celebri, Kautsky e Lenin[1] – il secondo, riprendendo lo schema del primo – stabilivano quelle che per essi, erano le tre fonti del marxismo: l’economia politica inglese, la filosofia tedesca e il socialismo francese. L’idea centrale, comune a Kautsky e Lenin, era che il marxismo fosse nato non già dal seno della classe operaia, bensì dal genio di alcuni intellettuali di origine borghese: affinché un movimento socialista fosse possibile (si parlava poco di comunismo, prima del 1917), era necessario che la coscienza di classe venisse introdotta tra le masse lavoratrici dall’esterno, attraverso la mediazione di un partito. È soltanto sulla natura di quest’ultimo che Kautsky e Lenin divergevano.
Questa tesi è stata confutata abbastanza a fondo, e le sue implicazioni pratiche sono state sufficientemente studiate, affinché non vi si debba ritornare[2]. Ci limiteremo a sottolineare ciò che in essa vi è di fondamentalmente erroneo: inventare «il marxismo» significa ridurre una teoria a un corpo dottrinale; che questo sia poi destinato a essere volgarizzato dalla propaganda, non è che la conseguenza della separazione originariamente operata, tra le idee e la realtà sociale ad esse corrispondente.
Per coloro che, come noi, negli anni Sessanta e Settanta si sono dovuti confrontare con una situazione che li spingeva a ritornare sul passato, la difficoltà principale consisteva non tanto nel reperire informazioni e documenti riguardanti un’epoca lontana, quanto nel cogliere il movimento storico senza il quale, appunto, le teorie non sono altro che idee. Era in primo luogo necessario riappropriarci di quel passato, cioè sapere quali lotte e quali contraddizioni avevano animato gli strati proletari più radicali, negli anni intorno al 1917 e nel periodo immediatamente successivo. Poiché, a quel tempo, non si trattava affatto di teorici isolati: nel 1920, lungi dall’essere realtà gruppuscolari, la Sinistra comunista tedesca e quella «italiana» incarnavano una forza storica. Ad esempio, quali che siano stati gli errori commessi dalla KAPD (errori tradotti, sul piano teorico, da Gorter), non si può capire nulla di Pannekoek, se si recidono i legami che lo uniscono a Gorter e al suo partito. È questa, tra l’altro, una delle ragioni per cui il consiliarismo è del tutto incapace di comprendere se stesso.

Il Censier

Questo «ritornare sul passato» deve molto a quella che fu allora la nostra esperienza. Senza voler ripetere inutilmente quanto già scritto ne Le Roman de nos origines, possono essere utili alcune precisazioni riguardo al gruppo informale che è stato definito – in verità più da altri, che dai suoi stessi membri – «La Vieille Taupe» (dal nome della libreria fondata e animata, a Parigi, da Pierre Guillaume, tra il 1965 e il 1972, anno della sua chiusura). Dalla metà di maggio fino al luglio 1968, questo collettivo fu non già l’ispiratore, e tanto meno il gruppo dirigente, ma probabilmente il nucleo più coerente di un’esperienza originale, quella che si consumò tra le mura del fabbricato universitario parigino del Censier[3].
Se la maggior parte dei membri di questo gruppo erano stati espulsi da Pouvoir Ouvrier (formazione nata da una scissione di Socialisme ou Barbarie, nel momento in cui quest’ultimo aveva abbandonato le originarie posizioni marxiste), o se ne erano comunque allontanati, altri facevano parte di una galassia, che non aveva altra organizzazione se non una condivisione di amicizie – talvolta punteggiata da rotture – e di rifiuti comuni. Così, ad esempio, uno degli individui più attivi all’interno del Comitato RATP[4], all’epoca in cui la prima era stata influenzata dal secondo, era stato indeciso se aderire all’IS o a Socialisme ou Barbarie, per poi scegliere di non unirsi né al gruppo di Debord né a quello di Castoriadis-Cardan. Altro esempio è quello di Fredy Perlman, del Comitato Citroën, che sul piano teorico univa alla critica della sinistra americana e del socialismo iugoslavo, una rilettura di Marx come nemico della merce e dello Stato[5]. Anche alcuni membri del GLAT – il Groupe de Liaison pour l’Action des Travailleurs, fondato nel 1959 sulla linea della Sinistra comunista tedesca, ma autonomo tanto rispetto a Socialisme ou Barbarie quanto a Pouvoir Ouvrier e ICO – furono attivi durante le ultime settimane di occupazione del Censier. Un buon modo di definire coloro che presero parte a quell’esperienza, potrebbe essere il seguente: se alcuni si sarebbero forse proclamati «rivoluzionari», nessuno si considerava un «rivoluzionario di professione».
Benché queste filiazioni aiutino a comprendere la confluenza che si realizzò, la maggior parte di coloro che si riunivano al Censier non aveva fatto parte di alcun gruppo, foss’anche informale, prima del maggio 1968. Il loro denominatore comune, che è anche la ragione per cui si trovarono in «naturale» sintonia con una minoranza operaia radicale, era la critica della burocrazia politica e sindacale; non in quanto la si ritenesse una cattiva direzione, suscettibile di essere riformata o rimpiazzata da una direzione migliore, ma in quanto la sua stessa funzione la poneva in contraddizione con gli interessi dei proletari e con il senso stesso dell’emancipazione umana.
La critica della burocrazia faceva il paio con quella dei Paesi dell’Est, che venivano considerati niente più che una forma di capitalismo di Stato. Ciò che, a diciotto anni dalla scomparsa dell’URSS, potrà sembrare triviale, o banalmente sprovvisto di conseguenze pratiche, non lo era affatto in un’epoca, in cui la distribuzione di un volantino – anche soltanto moderatamente critico nei confronti della CGT – ai cancelli di una fabbrica, poteva costare qualche testa spaccata; e allorché la quasi totalità dei gauchistes celebrava l’esistenza del socialismo in Russia, in Cina o a Cuba, propugnava la creazione di un partito, e aspirava a prendere, a tempo debito, la testa dei sindacati.
Alla metà del maggio 1968, una minoranza operaia, poco numerosa ma risoluta, che spesso era all’origine degli scioperi, ma che si vedeva incapace di evitare le manomissioni sindacali della condotta del movimento, cercava uno spazio ove potersi riconoscere e coordinare. Date le condizioni dell’epoca, questo spazio non poteva che essere esterno ai luoghi di lavoro. Il Censier assicurò, così, un collegamento tra i «delegati» – non eletti, ma rappresentativi – di un’autonomia operaia in cerca di se stessa. L’incontro tra questi ultimi e la galassia cui abbiamo accennato, prova che nulla accade «spontaneamente» e che, al tempo stesso, a poco vale «organizzare» preliminarmente un’avanguardia.
Il Censier, certamente, non fu l’unico luogo dove i salariati refrattari all’ordine padronale e sindacale si incontravano. Molti operai, soprattutto giovani, insoddisfatti della gestione burocratica dello sciopero, nel pomeriggio lasciavano la fabbrica, per venire a trovare «gli studenti». Fu, ad esempio, il caso dei lavoratori della Hispano-Suiza, una fabbrica di motori d’aereo, situata nei pressi di Parigi. Qui, a partire dagli anni Cinquanta, un comitato che riuniva un certo numero di operai e tecnici (alcuni dei quali provenienti dal PCF), si era radicalizzato, evolvendo da un semplice rifiuto del riformismo del Partito Comunista e della CGT, verso una critica del loro ruolo di forze di conservazione dell’ordine sociale. Lo stesso dicasi della SAVIEM di Caen[6].
Si è spesso sostenuto che, nel Sessantotto, «gli studenti andarono (invano) incontro agli operai». Si potrebbe parimenti affermare che una minoranza di salariati cercò (invano), all’esterno dell’impresa, la soluzione ad un problema che a malapena poteva porre, e a maggior ragione risolvere, all’interno di essa. Mai, in effetti, le istituzioni politiche e sindacali, durante il Sessantotto, persero il controllo del mondo del lavoro. Alcune lotte, come quelle che ebbero luogo a Nantes[7], testimoniano di uno «scavalcamento» degli apparati burocratici da parte del movimento; nondimeno, esse rimasero sempre all’interno di un quadro sindacale, che non fu mai rimesso in discussione in quanto tale.
Il caso e i limiti dell’epoca fecero dunque di un edificio universitario ai margini del Quartiere Latino, uno dei pochi spazi dove ristrette minoranze operaie, provenienti da diverse imprese (alcune anche di grandi dimensioni), poterono incontrarsi, discutere e – nella misura del possibile – agire insieme, per un tempo sufficientemente lungo, affinché ne nascessero una convergenza e un abbozzo di coordinamento.
Inizialmente, questi operai esprimevano soltanto la volontà di spingere lo sciopero al massimo delle sue potenzialità: ciò che rimproveravano – giustamente – al PCF e alla CGT, era il fatto di non fare il possibile, per favorire l’estensione e il successo della lotta. Fu questo il minimo comune denominatore, e il punto di partenza, della critica degli «apparati». Vi si aggiunse, praticamente fin da subito, il rigetto dell’ipotesi di un governo di sinistra, ovvero di un «potere popolare» il cui avvento non avrebbe modificato la sostanza delle cose. Questo rifiuto era alimentato da una critica, spesso (ma non sempre) esplicita, dei regimi cosiddetti socialisti. Quanto ai gruppi trotskisti e maoisti, venivano decisamente avversati, in quanto erano percepiti come semplici apparati concorrenti delle burocrazie ufficiali. D’altra parte, i militanti gauchistes non fecero il minimo sforzo per radicarsi in un luogo dove si sentivano dei perfetti estranei: gli operai che si recavano al Censier, non erano in cerca di anime pie che si dessero per missione quella di organizzarli o di aiutarli a organizzarsi. Essi non volevano né servitori, né nuovi padroni. Desideravano, in primo luogo, agire con gli altri (operai e non) su un piede di parità.
Fatta eccezione per le fabbriche, da un punto di vista sociologico il Censier fu senza dubbio una delle realtà più «operaie» del Maggio ’68; ma anche una di quelle dove l’operaismo (che emanasse o meno dai lavoratori manuali) trovò terreno meno fertile. Chi non aveva le mani callose non si poneva al livello del proletario supposto medio: si confrontava con chi era alla sua portata.
Infine, i soli che pur essendo presenti al Censier, preferirono mantenersi in disparte, furono i membri di ICO: conformemente al loro desiderio di non imporre le posizioni di un gruppo minoritario alla classe operaia, per tutta la durata dell’occupazione giocarono un ruolo di secondo piano, nei comitati come nelle assemblee generali, preferendo riunirsi in una stanza a parte e confermando quella che un anno prima l’IS, nel numero 11 della sua rivista, aveva definito «una scelta di non esistenza».
Nelle settimane che seguirono, mentre la CGT e il PCF passavano dal ruolo di moderatori a quello di sabotatori dello sciopero, le posizioni d’insieme degli operai presenti al Censier, subirono, simmetricamente, un’evoluzione: anziché rimproverare alle burocrazie di sabotare ciò che si supponeva dovessero promuovere, si constatò che esse, in modo sempre più palese, si limitavano ad agire conformemente alla loro funzione. Di conseguenza, la menzogna più spudorata (ad esempio, l’accusa rivolta ai nostri compagni del Comitato RATP e ai salariati più combattivi all’interno dell’azienda, di avere chiamato essi stessi la polizia) non venne più percepita come qualcosa di scandaloso e aberrante.
Questa radicalizzazione si accompagnò all’avvio di una discussione, su quello che sarebbe potuto essere un mondo radicalmente diverso. Tuttavia, si commetterebbe un errore se si idealizzasse questo processo di decantazione, e si vedesse nell’esperienza del Censier una reazione coerente, completamente in controtendenza rispetto alle dinamiche che attraversavano la società.
Nella primavera del 1968, il rifiuto degli apparati e dello Stato, per quanto manifestasse uno slancio profondo, si esprimeva e si organizzava, più che altro, come un’esigenza di prendere la parola, di essere ascoltati, di vedere presa in considerazione la propria opinione, che fosse espressa individualmente o collettivamente. Tutti se ne infischiavano della «partecipazione» gollista[8] e desideravano una partecipazione reale. Il Sessantotto fu il regno dell’Assemblea Generale.
Il caso della Rhône-Poulenc[9] di Vitry-sur-Seine è esemplare: qui, la pressione della base aveva costretto padroni e sindacati a creare, all’interno della fabbrica, una struttura di discussione. Successivamente, quest’ultima arrivò a progettare la totale riorganizzazione dell’azienda, secondo un modello che oggi definiremmo di «democrazia partecipativa». L’istituzione di questa struttura fece deperire dall’interno il Comitato d’azione Rhône-Poulenc: avanzare delle rivendicazioni, anche estreme (almeno all’inizio), all’interno di un simile quadro, portò ben presto a spostare l’asse della discussione sul modo migliore, o comunque meno dannoso, di garantire la produzione. Nei mesi e negli anni che seguirono, lo stesso meccanismo indusse alcuni degli «estremisti» del Sessantotto a preferire la CFDT [10] alla CGT[11].
All’inizio, e per quasi tutta la durata dell’occupazione del Censier, la maggior parte dei partecipanti – operai e non – si sarebbe potuta collocare su una linea, i cui estremi erano rappresentati dal comunismo dei consigli e dall’anarchismo. A grandi linee, il loro fine, il loro «programma», era la gestione operaia, o l’autogestione; e il mezzo con cui realizzarlo era niente meno che la gestione diretta della lotta, dallo sciopero fino all’insurrezione, da parte della classe operaia e dei proletari nel loro complesso; non soltanto fuori dai partiti e dai sindacati, ma persino contro di essi.
Tipica, in questo senso, era l’analisi della rivoluzione russa che avevo scritto l’anno precedente (e che La Vieille Taupe aveva pubblicato all’inizio del 1968)[12], dove cercavo di dimostrare che durante il quadriennio 1917-1921, cioè prima che il partito bolscevico si arrogasse questo ruolo sostituendosi agli operai, la classe operaia russa aveva dato vita al tentativo di gestire direttamente la produzione e la società. Ciò che a quel tempo, in effetti, accomunava la maggior parte di noi, può essere riassunto in due parole: democrazia operaia (quella autentica) e autogestione (per quanto generalizzata). La riflessione critica su queste due nozioni, tra loro strettamente intrecciate, sarebbe venuta solamente più tardi.

Maturazione

I comitati d’azione che si riunivano al Censier, seppure tra i più risoluti nello scontro con l’avversario padronale, sindacale e statale, si rivelarono, tanto quanto gli altri, semplicemente adeguati a quella che era la loro funzione: contribuire a portare lo sciopero fino alle estreme conseguenze… cui «storicamente» poteva esser condotto. Il loro successivo declino, sebbene in alcuni casi consumatosi nell’arco di anni, e non senza qualche bel ritorno di fiamma, era inscritto nell’esaurirsi di questa funzione. Alcuni di noi avevano sperato nel moltiplicarsi degli organismi di base, nati dalla presa di coscienza del ruolo delle burocrazie e dalla necessità di darsi delle forme di organizzazione autonoma, certamente minoritarie, ma capaci di perdurare nel tempo e di darsi un minimo di coordinamento.
Fu un’illusione. Nei luoghi di lavoro, nessuna organizzazione permanente di salariati può «tenere» sulla sola base di un rifiuto condiviso, per quanto esso sia giustificato: ci si può organizzare durevolmente, soltanto a partire da obiettivi accessibili (o quantomeno giudicati tali).
Quando, nell’estate del 1968, il Censier tornò, insieme agli altri locali universitari, sotto il controllo dello Stato, i suoi ex occupanti presero a riunirsi in una piccola sala della Mutualité[13]. Talvolta i partecipanti a queste riunioni erano numerosi, ma più spesso ci si ritrovava in pochi. La differenza essenziale, rispetto al Censier, era tuttavia un’altra: quello che rimaneva uno spazio comune a una minoranza di salariati radicali, più che delle azioni faceva ora convergere delle idee.
Il raggruppamento costituitosi al Censier, non aveva avuto altro nome se non quello del luogo in cui si riuniva (denominazione che, d’altronde, venne utilizzata più dopo, che durante l’occupazione). Quello che gli succedette, autodefinendosi Inter-Entreprise, marcava un ripiegamento su una visione «operaista». In modo perfettamente coerente con questa inevitabile involuzione, in occasione di una delle prime riunioni alla Mutualité, Henri Simon, uno dei principali animatori di ICO, distribuì un documento, che sintetizzava le informazioni, raccolte nel corso della riunione precedente, sulle aziende che vi erano rappresentate. Questa era, del resto, la prospettiva di ICO: fare circolare delle informazioni, quasi fosse una casella postale.
Fu allora, che un certo numero di compagni, in particolare il gruppo che, in mancanza di meglio, definiremo «La Vieille Taupe», iniziò a comprendere come una tale prospettiva ragionasse ancora in termini di organizzazione (sebbene, a differenza della concezione leninista, si trattasse di un organizzazione auto-prodotta, cioè sorta dalla base). Essa tornava ad affermare che se gli operai non lottano fino in fondo – fino alla rivoluzione –, è soltanto perché ignorano che altri operai cercano di farlo o, comunque, desiderano farlo. Ci sembrava che lo sciopero generale di maggio-giugno dimostrasse tutt’altro. In un gran numero di imprese, prendendo l’iniziativa dello sciopero, i proletari avevano dimostrato di poter agire autonomamente, malgrado il monopolio sindacale e ufficiale dell’informazione (all’epoca non si usava ancora il termine «mediatico»). Se, in seguito, i salariati della Renault erano rimasti ingabbiati all’interno del quadro della trattativa, ciò non era dovuto al fatto di non sapere cosa facessero nel frattempo i salariati della Peugeot: sia gli uni che gli altri non erano andati oltre, perché complessivamente quel quadro conveniva loro. Un movimento sociale si dà innanzitutto – o esclusivamente – le informazioni di cui ha bisogno.
Dopo il maggio-giugno 1968, non c’era spazio per un’organizzazione operaia autonoma permanente, che conducesse delle lotte rivendicative sulla base di una linea di «lotta di classe». Quanto ai conflitti quotidiani, i gauchistes[14] erano infinitamente più preparati di Inter-Entreprise. La loro pratica, che consisteva nel «capitalizzare» le lotte al fine di sviluppare un’organizzazione – nella fattispecie la loro –, permetteva di aderire alle spinte provenienti dalla base, di perpetuare l’organizzazione e di reclutare militanti. Non è un caso che alcuni trotskisti siano poi diventati dirigenti sindacali, a quell’epoca nella CFDT, in seguito nella CGT e, oggi, nella SUD[15]. Ai compagni che giudicheranno la nostra analisi «fatalista», chiederemo dove e quando, dopo il 1968, un’organizzazione che si possa definire rivoluzionaria, abbia creato e conservato un gruppo di fabbrica, al di là di un periodo di profondi sommovimenti sociali (ad esempio, in Francia, dopo il quadriennio 1968-1972, in Italia, dopo gli anni Settanta etc.). Tuttavia, pensiamo che provarci non sia stato un errore.
L’esperienza di Inter-Entreprise non si esaurì nel giro di poche settimane, ma è pur vero che tutta una dinamica era andata perduta. Senza dubbio il Censier ebbe i suoi prolungamenti nell’Italia del 1969 – e anche altrove (ad esempio, nell’«assemblearismo» spagnolo dell’inizio degli anni Ottanta). Dall’America Latina alla Cina, gli anni Sessanta e Settanta furono percorsi da scioperi di massa e insurrezioni, che possedevano talvolta una carica critica altrettanto, se non più esplosiva di quella del Maggio francese. A ogni modo, il gruppo della «Vieille Taupe» non aveva la presunzione di considerare la storia mondiale, a partire da una piccola porzione d’Europa: la crisi sociale del 1968, in Francia, non ci appariva tanto come un esempio da seguire, quanto come il sintomo di una realtà universale.
Soprattutto, ciò che avevamo vissuto al Censier infirmava – se ancora ce ne fosse stato bisogno – la credenza nella necessità di una partito d’avanguardia. Allo stesso modo, spazzava via ogni timore di imporre dall’esterno, attraverso la propria attività, un’organizzazione alla spontaneità operaia.
All’inizio del 1969, François Martin scrisse quello che, discusso e rielaborato, sarebbe diventato, tre anni più tardi, il primo numero di «Le Mouvement Communiste»[16]. La sua riflessione si rifaceva, in parte, alla sua esperienza di operaio in una fabbrica di scarpe autogestita nell’Algeria del dopo-indipendenza.
Innanzitutto, l’autore del testo si proponeva di comprendere in che modo una rivoluzione comunista presupponga – ma non coincida con – un’accumulazione di lotte rivendicative autorganizzate, che si estendono quantitativamente, si trasformano qualitativamente e, rapidamente, arrivano a darsi degli obiettivi politici: prima le forze repressive dello Stato, poi i partiti e il parlamentarismo; per giungere infine ad attaccare i rapporti sociali. Benché questa espressione sia stata introdotta solo più tardi, François Martin descriveva la rivoluzione in termini di comunizzazione. L’autorganizzazione ne rappresentava la condizione necessaria, ma non per questo sufficiente.
Il testo sottolineava lo scarto profondo tra il momento di rottura costituito dall’esplodere di ogni sciopero «duro» (aggiungeremo: di ogni contestazione radicale, qualunque obiettivo essa si ponga), la spinta di fondo che lo determina, la breccia che in tal modo si offre, e la chiusura che ne rappresenta la conclusione, vittoriosa o meno.
L’autorganizzazione nata dalla rottura iniziale, talvolta soltanto di breve durata, non solo non è un fine in sé (cosa su cui chiunque può convenire), ma dipende da altro che da se stessa. Il proletariato è ciò che fa, e ciò che è dipende da ciò che fa. In tal senso, la rivoluzione ha un problema di organizzazione, non è un problema di organizzazione.
Di conseguenza, rifiutare che la distinzione maggioranza/minoranza assurga a principio esplicativo o criterio decisivo, non significa disprezzare ciò che fa o pensa la maggior parte dei partecipanti a un movimento sociale, o di coloro che se ne tengono a distanza. Nel maggio 1968, quando poche decine di giovani operai bloccavano le porte della fabbrica per spingere gli altri lavoratori a scioperare, non «forzavano» affatto la situazione, ma prendevano l’iniziativa di un movimento, che presto veniva riconosciuto dagli altri operai come proprio. Di converso, far votare quotidianamente un’assemblea operaia per la prosecuzione o l’interruzione di uno sciopero, è una tattica sperimentata per sabotarlo. Nella maggior parte dei casi, di fronte a una pratica minoritaria, non esiste alcun mezzo formale, per stabilire se la minoranza agente attui una costrizione sulla maggioranza o si limiti ad anticiparla. Il medesimo gesto (ad esempio, saldare i cancelli di una fabbrica) può assumere valenze opposte, a seconda del contesto. La nostra critica della democrazia non consisteva (e non consiste) nel dire: «non importa se pochi decidono, eventualmente anche contro la maggioranza, quel che conta è soltanto l’obiettivo finale: la distruzione dello Stato e della merce». Tale obiettivo, infatti, può essere realizzato soltanto se vi concorre quella che, nel Manifesto dei comunisti, viene definita «l’immensa maggioranza». L’estinzione del lavoro e dell’economia non si stabilisce per decreto, né si organizza dall’alto.
È altrettanto chiaro che la comunizzazione non può realizzarsi se non intrecciandosi con la distruzione dello Stato, che – occorre ribadirlo – presuppone l’azione violenta e l’uso delle armi. Questa visione è radicalmente differente da quella di un Bordiga, per il quale la dittatura del partito bolscevico sul proletariato russo era giustificata dall’obiettivo della rivoluzione mondiale – la quale, per questa sola ragione, riconosceva la propria sconfitta, in Russia come altrove.
François Martin fu tra i primi a sostenere che, durante il Maggio, praticamente tutti si erano comportati da partigiani della democrazia – inclusa l’IS, che propugnava la democrazia dei consigli. Non intendiamo confondere la democrazia diretta generalizzata, che travalica i muri della fabbrica per estendersi alla totalità della vita, con il parlamentarismo borghese; ma, in quanto principio formale, la democrazia è impotente a determinare il contenuto, che ci interessa. Viceversa, è sulla base dell’attuazione di questo contenuto che sarà possibile realizzare ciò che la democrazia pretende di portare a compimento: la circolazione delle idee, la promozione del confronto, la valorizzazione della diversità di opinioni, il controllo dei rappresentanti etc.[17]
Le stesse questioni che François Martin affrontava a partire dalla dinamica concreta della lotta di classe, il testo Contribution à la critique de l’idéologie ultra-gauche, redatto nel 1969[18], cercava di metterle a fuoco utilizzando l’apporto delle sinistre comuniste tedesca e «italiana», e confrontando questa eredità teorica con quella che era stata la nostra pratica nel maggio-giugno 1968. Questa retrospettiva includeva, per noi, anche l’IS: estendendo la gestione operaia a tutti i domini della vita, i situazionisti avevano infatti apportato gli elementi capaci di far saltare il quadro gestionario. L’autogestione generalizzata presuppone qualcosa di più di una mera «gestione».
Alcune copie di questo testo furono distribuite alla riunione nazionale di ICO che si tenne a Taverny nella primavera del 1969 e, l’estate successiva, a un incontro internazionale a Bruxelles[19]. In entrambe le occasioni, il testo non fu sottoposto a discussione.
A quarant’anni di distanza, alcuni compagni vedono, nella nostra critica di allora, un’apertura su una teoria post-operaia, o post-proletaria, della rivoluzione. Questa interpretazione è contraria all’intento del testo, che volle essere un tentativo non di rifondare, bensì di sviluppare la teoria del proletariato. Oggi, come allora, una prospettiva post-proletaria presupporrebbe l’esistenza di un post-capitalismo; eventualità che, evidentemente, non si dà. Quello che invece sostenevamo, è che la rivoluzione comunista non consiste nell’affermazione della classe operaia, in quanto polo positivo della società, nei confronti di un polo negativo borghese, di cui essa rappresenterebbe l’opposto; non consiste nell’appropriazione da parte dei lavoratori salariati, democraticamente organizzati, delle forze produttive, che per questa sola ragione cesserebbero di essere «capitale» (ecco un punto cruciale, del quale abbiamo dovuto rinunciare a discutere con gli eredi della Sinistra comunista tedesca). Conseguentemente, essa non è un parossismo della lotta di classe: è bensì la soppressione di tutte le classi (è questa la ragione, per cui gli eredi della Sinistra comunista «italiana» ci considerano sempre dei «mezzi-anarchici»).
In ogni caso, se cercare di costruire un partito, allo scopo di dirigere gli operai, non serve a nulla, incoraggiare questi ultimi ad agire per se stessi, è senz’altro più simpatico (e noi ci applicammo a questo compito), ma del tutto insufficiente, e per giunta inoperante. Ancor prima di pensare di distribuire un volantino ai cancelli di una fabbrica, o di farsi portavoce degli scioperi, occorreva domandarsi di cosa questa classe operaia fosse realmente portatrice, quale fosse il suo «programma»: impossessarsi del mondo per amministrarlo, credendo in tal modo di poterlo cambiare? Oppure mettere in atto una trasformazione più profonda? Questo obbligava a rimettere in discussione le virtù attribuite all’autonomia, e a sviluppare, conseguentemente, una critica della democrazia… differente da quella bordighista.
Quest’ultima, infatti, nel momento in cui prendeva partito per la dittatura contro la democrazia, si collocava sul terreno di una rivoluzione concepita principalmente in termini politici. A rischio di scandalizzare qualcuno, diremo che non esiste alcuna differenza di principio tra il tentativo di costruire un partito, a partire da una rete di cellule di fabbrica, e il tentativo di promuovere una «vera» assemblea generale delle maestranze di un’azienda. Poiché l’unico criterio che davvero conta, è l’atteggiamento dei salariati in relazione all’impresa, al loro lavoro e al lavoro salariato in generale.

Verso una sintesi…

una sintesi, e non la sintesi, poiché soltanto una mentalità religiosa può indurre a credere nella possibilità di un momento eccezionale in cui la storia rivelerebbe la totalità del suo senso (a una mente a sua volta eccezionalmente dotata, si intende).
Riassumendo, la Sinistra comunista tedesca (intesa in senso lato, e quindi includendo sia la Sinistra olandese, sia in generale gli eredi di questa corrente, anche quelli «ingrati» come Socialisme ou Barbarie) insiste su una concezione della rivoluzione intesa come auto-attività, cioè come auto-produzione della propria emancipazione da parte degli sfruttati. Da qui, il rifiuto di tutte le mediazioni: parlamento, sindacato e partito.
La Sinistra comunista «italiana» (che travalica i confini dell’Italia, e si sviluppa anche altrove, principalmente in Belgio) ci ricorda che il comunismo non è scindibile dalla distruzione del sistema mercantile, del lavoro salariato, dell’impresa come tale, e di ogni economia in quanto sfera separata dell’attività umana.
L’Internazionale Situazionista, infine, dimostra che, ciò che per Bordiga e i bordighisti era un programma da attuare all’indomani della distruzione del potere politico borghese, non ha alcuna possibilità di realizzazione, se non si concretizza in un deperimento immediato dello scambio mercantile, del lavoro salariato e dell’economia, attraverso un rovesciamento di tutti gli aspetti della vita quotidiana. Questo rovesciamento, certamente, non potrà compiersi nell’arco di una settimana o di un anno, ma avrà efficacia e successo, soltanto nella misura in cui inizierà a realizzarsi fin dagli esordi della rivoluzione.
Schematicamente, la Sinistra tedesca ci mostra la forma della rivoluzione, quella «italiana» il suo contenuto, l’IS il processo che, solo, può realizzare quel contenuto.
Dire che la Sinistra tedesca si fonda sull’esperienza proletaria, quella «italiana» sul futuro e l’Internazionale Situazionista sul presente, dovrebbe bastare a far capire in che cosa queste tre correnti si differenziano. Il rischio è quello di smarrirsi in un gioco di specchi, ma la convergenza di questi elementi può aiutare a far meglio comprendere il concetto di rivoluzione intesa come comunizzazione. Non si tratta né di prendere il potere, né di ignorarlo, bensì di distruggerlo, trasformando contemporaneamente l’insieme dei rapporti sociali. Ciascuno dei momenti di questo doppio processo, sostiene e rinforza l’altro.

Comunizzazione

Un monde sans argent, pubblicato nel 1975-76, dal gruppo da cui uscirà il nucleo che animerà «King Kong International» e, in seguito, «La Guerre Sociale»[20], fu il primo testo a mettere esplicitamente al centro della prospettiva rivoluzionaria il concetto di comunizzazione.
Parlare di comunizzazione, significa affermare che una futura rivoluzione non potrà avere alcun senso di emancipazione, né alcuna possibilità di successo, se non avviando, fin da subito, una trasformazione comunista della realtà a tutti i livelli – dalla produzione del cibo al modo di mangiarlo, passando per il modo di spostarsi, di abitare, di apprendere, di viaggiare, di leggere, di oziare, di amare, di non amare, di discutere e di decidere del nostro avvenire etc.
«Comunizzare» non significa rendere gratuito e disponibile per tutti ciò che già esiste, dal telefono cellulare alla centrale nucleare, dalla casa della cultura fino alla panetteria all’angolo. Se così fosse, noi conserveremmo questi mezzi e questi luoghi di produzione e di consumo, semplicemente epurandoli del loro carattere mercantile: la nostra vita sarebbe la stessa, soltanto senza il denaro, il padrone e lo sbirro.
Comunizzazione significa, al contrario, trasformazione: a cominciare, come si diceva negli anni Settanta – ben prima che l’ecologia e la «decrescita» diventassero di moda –, dalla chiusura di metà delle fabbriche[21].
Un tale processo non sostituisce, ma accompagna e rafforza, la distruzione necessariamente violenta dello Stato, e di tutte le istituzioni politiche preposte alla difesa della merce e del lavoro salariato. Questa trasformazione, su scala planetaria, si estenderà indubbiamente sull’arco di una, o più. generazioni. Ciò non implica, tuttavia, che si debbano creare preliminarmente le basi di una società futura, destinata a instaurarsi soltanto dopo una più o meno lunga fase di «transizione». La comunizzazione non prevede prima la presa (o, se si vuole, la distruzione) del potere politico, e poi il rovesciamento dei rapporti sociali; essa è l’esatto contrario di quel che esprime la formula enunciata, nel 1921, da Victor Serge, all’epoca ancora bolscevico, per cui «ogni rivoluzione è sacrificio del presente all’avvenire»[22]. Per dirla in termini positivi, come scrisse Ursula K. Le Guin ne Les Dépossédés[23], non si tratta soltanto di fare la rivoluzione, ma di essere la rivoluzione.

Ma non tutto è risolto…

Qualunque valore si voglia attribuire al concetto di comunizzazione, esso permette tutt’al più di porre il problema, non già di risolverlo – cosa, del resto, che né questa né altre nozioni potrebbero fare. Non è sufficiente fondere le «tre fonti» cui abbiamo accennato, pur se arricchite da una rilettura di Marx, per trovare una soluzione … che non verrà, se non dall’attività pratica di milioni di proletari. Decine di gruppi e di individui hanno ricombinato i suddetti apporti in mescolanze e dosaggi diversi, senza, per questo, ricavarne una prospettiva incentrata sulla comunizzazione. Inoltre, coloro che oggi parlano di comunizzazione, lo fanno in modi diversi, talvolta addirittura opposti. Per «Théorie Communiste», ad esempio, il concetto di comunizzazione designa meno il processo concreto della trasformazione comunista dei rapporti sociali, di quanto non definisca un’epoca radicalmente nuova, in cui la rivoluzione diventa finalmente possibile/necessaria.
Da quasi due secoli, fin dalle prime lotte e insurrezioni suscitate dalla rivoluzione industriale, un dibattito ricorrente attraversa e divide le file dei sovversivi: quale rapporto intercorre tra il movimento operaio e la rivoluzione? Tra l’azione per strappare aumenti salariali e l’abolizione del lavoro salariato? Tra la difesa del lavoro contro il capitale e l’attacco ai suoi fondamenti? Se ne discuteva, prima del 1914, sia nel campo marxista che in quello anarchico[24], all’interno della Sinistra comunista, dopo le sconfitte del biennio 1919-1921 (come testimonia la scissione della KAPD)[25]; etc. Sono state elaborate le risposte più diverse, ma nessuna di esse è stata confermata; nemmeno quella di Marx, secondo cui la resistenza del lavoro al capitale sarebbe la condizione necessaria, ma non sufficiente, della distruzione del capitalismo. L’unica validazione a contare è quella della storia: la rivoluzione. Bisogna essere davvero ingenui, per pensare di detenere «la soluzione» che sarebbe sfuggita ai nostri predecessori...

Comunizzazione e «alternativismo»

Tra gli anni in cui è stata elaborata la nozione di comunizzazione e l’epoca attuale, si è verificato un considerevole slittamento ideologico.
Nel 1975, o nel 1983, anno di pubblicazione del primo numero de «La Banquise»[26], dato il peso che lo stalinismo e il gauchismo ancora conservavano, si trattava in primo luogo di combattere una concezione che riduceva la rivoluzione alla presa del potere politico, e rimandava i cambiamenti effettivi a un lontano avvenire. Oggi allorché la rivoluzione, politica o meno, non interessa quasi più nessuno, assistiamo all’affermarsi dell’idea che sia possibile un cambiamento progressivo sul terreno della vita quotidiana: una conquista del potere sociale che, estendendosi a macchia d’olio e occupando sempre maggiori spazi a livello locale, giungerebbe, infine, a vincere la partita su scala globale. Malgrado, evidentemente, non si riferisca al comunismo, che viene considerato, nella migliore delle ipotesi, un qualcosa di obsoleto, questa concezione riprende e cambia di segno l’idea di comunizzazione; essa pretende, in altri termini, di esprimere una critica della rivoluzione politica e di lottare per un cambiamento sociale immediato.
Ora, il fatto che la rivoluzione possa essere messa in atto in forma immediata, seguendo una via diversa, non implica che iniziare a vivere altrimenti, qui e ora, valga a innescare un processo rivoluzionario. La comunizzazione ha senso soltanto all’interno di una situazione sociale già scossa da interruzioni del lavoro di massa, da folle di manifestanti che invadono le strade, da uno sciopero generale, da rivolte e tentativi insurrezionali, dalla perdita di controllo, da parte dello Stato, su una fetta della popolazione e del territorio; in breve, in presenza di un movimento forte abbastanza, affinché le trasformazioni non si riducano a meri aggiustamenti. Senza di che, il rischio è quello di teorizzare la comunizzazione, riducendola a un processo collaterale. Comunizzare significa, certamente, sperimentare nuovi rapporti e forme di vita a tutti i livelli; ma implica anche, necessariamente, qualche cosa di diverso dal portare alla massima estensione i margini di autonomia che la presente società concede…
e spesso incoraggia. Ormai, ogni città europea e americana – ma questo è sempre più vero anche per l’Asia – possiede il suo gruppo ambientalista radicale, la sua comunità anarchica, il suo squat, la sua rete «bio» etc. Vivere al di fuori del lavoro salariato è una necessità per milioni di europei che il capitale non può impiegare nella sua produzione. L’edonismo contemporaneo rovescia la formula di Victor Serge: esso ci invita a non sacrificare il presente al futuro, a costruire intensamente delle situazioni, a vivere qui e ora, seppure in modo altro, rapporti sociali che, nella sostanza, restano invariati.
Negli anni Sessanta e Settanta, a essere di moda era la costruzione del partito, nell’attesa del Grande Giorno. Oggi, a prevalere, sono gli innumerevoli tentativi di creare forme sociali alternative, che offrano la possibilità di essere vissute sin da subito. Nemmeno i radicali sfuggono a questa illusione: Appel e L’insurrection qui vient[27] dipingono un capitalismo che, dopo avere desertificato la vita intera, avrebbe esaurito ogni sua risorsa; all’interno di questo contesto, iniziare fin d’ora a vivere in modo diverso, sarebbe quindi di per sé una pratica sovversiva.
A essere obliterata è, né più né meno, quella rottura del continuum storico che prende il nome di rivoluzione. Malgrado la loro opposizione all’«altermondialismo», queste tesi ne condividono, nella sostanza, il rifiuto della globalità e della distruzione del potere politico centrale. Esse lasciano intendere che sia possibile conquistare il potere sulla propria vita a livello locale, rimpiazzando una futura rivoluzione sociale, con milioni di rivoluzioni personali e micro-collettive.
Ecco ciò che domina la scena. Questo non significa che sarà sempre così, né necessariamente che sarà così ancora a lungo. Ma conviene sapere in che epoca viviamo.


Bibliografia essenziale:

Testi disponibili sul sito web «Troploin»[28]:
Prolétaire et travail: une histoire d’amour?, 2002-2009.
Solidarités sans perspective & réformisme sans réforme, 2003.
Sulla Sinistra comunista tedesca:
La Révolution ouvrière, et au delà, 2003.
Sulla democrazia:
Contribution à la critique de l’autonomie politique, 2008[29].

Altri testi:
Gilles Dauvè, Karl Nesic, Au-delà de la démocratie, l’Harmattan, Paris/Torino, 2009.
Xavier Vigna, L’Insubordination ouvrière dans les années 68. Essai d’histoire politique des usines, Ed. Presses Universitaires de Rennes, Rennes, 2007.


Note:

[1] Karl Kautsky, Les trois sources du marxisme, Spartacus, Paris, 1969; Vladimir I. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo (1913), in Vladimir I. Lenin, Opere scelte, Editori Riuniti, Roma, 1965, pp. 475-480.
[2] Jean Barrot [Gilles Dauvé], Il Rinnegato Kautsky e il suo discepolo Lenin, op. cit.
[3] Cfr. Le Roman de nos origines, Capitolo VI, in particolare le Note 142 e 147.
[4] La RATP è l’azienda di trasporti della regione parigina. All’inizio del gennaio 1968, si costituì un Comité de Coordination, al quale presero parte circa 150 lavoratori della RATP e della Sécurité Sociale, oltre a un certo numero di studenti. Il Comitato nacque in seguito al rifiuto di una parte dei lavoratori delle due aziende, di partecipare a una giornata di lotta indetta dalla CGT e dalla CFDT, in quanto l’iniziativa era ritenuta insufficiente a combattere la politica del governo. Nel corso della prima riunione del Comitato, venne stilato un documento comune, nel quale si esprimeva la totale mancanza di fiducia nei confronti dei sindacati ufficiali, e si invitavano tutti i lavoratori e gli studenti a costituire comitati di lotta nei luoghi di lavoro, e a coordinarsi tra loro.
I lavoratori della RATP entrarono in agitazione, insieme agli operai delle fabbriche parigine, il 18 maggio 1968. Il 23 maggio, tre di essi si recarono al Censier, con l’intento di costituire un Comitato d’azione insieme agli occupanti. Venne stilato, in quell’occasione, un volantino, che sarà poi distribuito in tutti depositi dell’azienda. Nel giro di qualche giorno, il Comitato arriverà a contare una trentina di membri che – contrapponendosi al sindacato, il quale nel frattempo aveva intavolato una trattativa con l’azienda –, nelle giornate seguenti, riusciranno a coinvolgere nella lotta molti dei loro compagni. La mobilitazione sfocerà nel blocco dei depositi e nella costituzione di un nuovo Comitato di lotta. Cfr. Mai Juin 68: une occasion manquée par l’autonomie ouvrière. Le comité d’action RATP, «Mouvement Communiste», 2006.
[5] Cfr. la biografia di Perlman: Lorraine Perlman, Having Little/Being Much, Black &  Red, 1989; e il resoconto di Fredy Perlman e Roger Gregoire, Worker-Student Action Committees. France, May 68, Black &  Red, 1991 (1969) [G.D.]
[6] Cfr. Ouvriers face aux appareils, Maspéro, 1970; e, per quanto riguarda la SAVIEM, lo studio del sociologo Jean-Pierre Terrail, Destins ouvriers, PUF, 1980 [G.D.]. Cfr., inoltre, Le Roman de nos origines, Capitolo III, Nota 78.
[7] Cfr. Le Roman de nos origines, Capitolo VI, Nota 139.
[8] Nel suo discorso del 30 maggio 1968 (cfr. Capitolo VI, Nota 137), De Gaulle invitò la popolazione a «isolare i gruppi estremisti» e a «organizzare un’azione civica», poiché – disse – «la Francia è effettivamente minacciata da una dittatura».
[9] Gruppo chimico-farmaceutico francese. Il 28 maggio 1968, il Comitato Centrale di Lotta della Rhône-Poulenc di Vitry distribuì all’interno della fabbrica un volantino, nel quale si poteva leggere: «Noi operai della Rhône-Poulenc di Vitry, in lotta dal 20 Maggio 1968, facendo parte del movimento popolare ed essendo con esso solidali, contestiamo l’organizzazione dell’attuale società, e abbiamo perciò dato vita a un nuovo tipo di struttura. Ci siamo preoccupati di informare l’opinione pubblica, in nome dell’unità e della comprensione del movimento operaio. La struttura che abbiamo costituito, riunisce l’insieme dei lavoratori in lotta e ci sembra, per questo, che rappresenti la migliore garanzia dell’unità necessaria a promuovere e realizzare le nostre rivendicazioni […].
Ogni Comitato di Base è formato dall’insieme dei lavoratori di uno stesso settore ed è espressione della volontà dei lavoratori stessi. Il Comitato Centrale di Lotta, costituito dai rappresentanti eletti dai vari comitati di base, ne raccoglie e coordina le decisioni, sottomette loro le sue deliberazioni, e le trasmette al Comitato Esecutivo. Il Comitato Esecutivo è formato dai rappresentanti sindacali eletti dai lavoratori, ed è autorizzato a parlare a loro nome. Esso è l’interprete della volontà e delle aspirazioni dei lavoratori presso la Direzione Generale. Questa struttura prova che abbiamo preso coscienza delle nostre responsabilità. Noi vogliamo costruire, non distruggere; cosa che verrà certo disprezzata da quei lavoratori che limitano le loro aspirazioni a delle rivendicazioni materiali. Poiché ci hanno negato la parola, oggi ce la siamo ripresa. Abbiamo cominciato a parlare, e si tratta di un fatto irreversibile».
[10] Confédération Française Démocratique du Travail, sindacato d’ispirazione cristiana, simile all’italiana CISL, fiancheggia il Partito socialista.
[11] Confédération Generale du Travail, sindacato storicamente vicino al PCF.
[12] Cfr. Jean Barrot, Communisme et question russe, La Tête de Feuilles, Paris, 1972.
[13] Stazione della metropolitana di Parigi.
[14] In particolare, la Gauche Proletarienne, la cui componente operaia esprimeva spesso posizioni decisamente antisindacali; ma anche altri raggruppamenti, ad esempio la trotskista Lutte Ouvrière [G.D.]
[15] La SUD (Solidaire Unitaire et Démocratique - Union Syndicale Solidaires) è una confederazione sindacale di formazione relativamente recente, il cui primo nucleo si è costituito all’inizio degli anni Ottanta, e in cui sono confluite diverse realtà del sindacalismo «autonomo». È paragonabile alla nostra CUB.
[16] [François Martin], En quoi la perspective communiste réapparaît, ora in Aa.Vv., Rupture dans la théorie de la révolution. Textes 1965-1975, op. cit. [G.D.]. Vedi Nota 159.
[17] Cfr. Gilles Dauvé, Karl Nesic, Au-delà de la démocratie, L’Harmattan, Paris/Torino, 2009.
[18] Ora in Aa.Vv., Rupture dans la théorie de la révolution. Textes 1965-1975, op. cit. [G.D.]. Traduzione italiana: Jean Barrot, Contributo alla critica dellideologia ultrasinistra, op. cit.
[19] Cfr. Capitolo I, Scheda: La Sinistra comunista tedesco-olandese e il comunismo dei consigli.
[20] Formato da Dominique Blanc e altri ex membri dell’Organisation des Jeunes Travailleurs Révolutionnaires (OJTR). Cfr. Capitolo VII, Scheda: L’ultragauche in Francia.
[21] Una netta posizione «de-sviluppista» fu assunta, nel 1952 (Riunione di Forlì, 28 dicembre 1952), dalla Sinistra comunista «italiana» («il programma comunista»). Il programma rivoluzionario immediato rompeva infatti con la tradizione dominante nel movimento operaio, che vedeva nello «sviluppo delle forze produttive» un fattore incondizionatamente positivo. Tale prospettiva era posta, dalla Sinistra «italiana», come realizzazione di un programma, mentre Un monde sans argent la definiva in quanto prassi immanente. Il testo citato è stato ripubblicato a più riprese, ed è ora reperibile in: www.sinistra.net/.
[22] Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario (1901-1941), E/O, Roma, 2001.
[23] Ursula K. Le Guin, Quelli di Anarres (i reietti dell’altro pianeta), TEA, Milano, 2002.
[24] Cfr. Maurizio Antonioli (a cura di), Dibattito sul sindacalismo. Atti del Congresso Internazionale anarchico di Amsterdam (1907), CP, Firenze, 1978.
[25] Cfr. capitolo I, Scheda: La Sinistra comunista tedesco-olandese e il comunismo dei consigli.
[26] Cfr. l’Introduzione di Dino Erba.
[27] Appel (anonimo e s.d., ma 2004); traduzione italiana reperibile in http://untori.noblogs.org/. Comité Invisible, L’insurrection qui vient, La Fabrique éditions, Paris, 2007. Entrambi i testi riprendono i temi e le analisi di «Tiqqun». Cfr. Teoria del Bloom, Bollati Boringhieri, Torino, 2004 e Elementi per una teoria della Jeune Fille, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
[29] Una parziale traduzione italiana del testo è disponibile anche sul sito «Les Mauvais Jours Finiront», http://mondosenzagalere.blogspot.com/.

17 aprile 2011

Lettera aperta dal carcere della Dozza

di Robert

La Lettera aperta che qui pubblichiamo è stata redatta dietro le sbarre da Robert, uno dei cinque compagn* bolognesi sequestrati dallo Stato lo scorso 6 aprile con la farsesca accusa di "associazione a delinquere" aggravata da "finalità eversive". A lui e a tutt* gli arrestati e gli indagati va la nostra piena solidarietà.

Liber* tutt*!    

15 aprile 2011

Per i funerali delle vittime del «Diana»

«Il comunista», 30 marzo 1921


Riproponiamo il bel Manifesto che il Comitato Esecutivo del Partito Comunista d'Italia pubblicò in occasione dell'attentato milanese del 1921 al cinema Diana. È un esempio di fierezza e gagliardia di quello che fu il partito rivoluzionario del proletariato italiano. Riportiamo inoltre quanto nel 1951 venne scritto, in quello che era allora il nostro giornale [Battaglia comunista], come introduzione alla riproposizione del Manifesto [da Avantibarbari!].

Nel marzo 1921, quando in tutta Italia già s'era scatenata l'azione fascista tendente ad applicare metodi di terrore verso le organizzazioni e le sedi del movimento proletario e rivoluzionario, si verificò a Milano un episodio che fece enorme impressione.
Durante uno spettacolo nel cinematografo «Diana» una carica di esplosivo, collocato sotto le seggiole, scoppiava nel buio, ferendo vari spettatori, alcuni dei quali decedevano e determinando un panico spaventoso.
Gli autori non furono scoperti, ma l'opinione borghese vide nel fatto una manifestazione contro-terroristica di elementi estremisti che avrebbero voluto così protestare contro le incursioni e le uccisioni fasciste.
Le vittime erano elementi indifferenti ed alcune di modesta condizione sociale. Era ovvio il piano di suscitare l'indignazione generale e nello stesso tempo di riversare le responsabilità sugli estremisti e provocarne pietose scuse e proteste di incapacità di nuocere.
Stava per prodursi nelle file proletarie lo smarrimento che, dopo le revolverate nel consiglio comunale di Bologna, aveva determinato lo schiacciamento del movimento estremista in quella rossa città, e l'inginocchiarsi dei partiti dei lavoratori.
A Milano, il Partito Comunista, da poco costituito a Livorno, reagì con il manifesto che riportiamo. Esso sollevò la vana incanata di tutti gli avversari, social-democratici compresi, si capisce; sollevò anche qualche esitazione di compagni che volevano includere almeno una frase che deprecasse come non marxista il metodo dell'atto individuale e del terrore per il terrore, ma fu contributo importantissimo alla salvezza del proletariato di Milano, che non permise alle squadre terroriste nere, prima e dopo l'ottobre 1922, di passeggiare impunemente per le vie della grande città rivoluzionaria e di vedere i lavoratori nascosti o assenti.

(Battaglia comunista, n. 10, 10-23 maggio 1951).

Per i funerali delle vittime del "Diana"

Lavoratori milanesi!

Sugli avvenimenti di questi ultimi giorni i partiti della classe borghese impostano un'evidente speculazione, alla quale dobbiamo prepararci a rispondere.
Minoranze audaci ed organizzate per l'azione controrivoluzionaria, che dovrebbe contrastare il passo all'avanzata della classe lavoratrice verso gli obbiettivi della sua lotta, che sono quelli fissati nel programma comunista, tentano di sfruttare facili motivi sentimentali per trascinare dietro di sé la massa grigia delle classi intermedie e di tutti gl'incerti ed i senza partito, per montare nella cosiddetta pubblica opinione della nostra città uno stato d'animo ostile al proletariato rivoluzionario.
Questa manovra, in parte riuscita altrove soprattutto per l'insufficienza e l'inettitudine di certi dirigenti delle masse, non può e non deve riuscire in Milano e noi comunisti, sicuri della coscienza della massa operaia milanese, sentiamo il dovere di additarvi il gioco degli avversari e gli errori in cui si potrebbe cadere, se di fronte ad esso si agisse nella maniera errata che già accennano ad adottare i dirigenti socialdemocratici.
Si vuol ripetere qui quanto si fece a Bologna dopo l'uccisione di un consigliere comunale borghese ad opera di sconosciuti. I dirigenti del movimento proletario locale sentirono il bisogno di sconfessare con pubbliche dichiarazioni un atto di cui non venivano accusati che per inscenare una speculazione politica su di un cadavere. Essi credettero di far cadere la speculazione protestando la distanza tra i propri metodi politici e quelli degli autori di tale atto, ma non riuscirono che a spargere il disfattismo tra i lavoratori e ad agevolare la manovra degli avversari che, approfittando del disorientamento e della fuga generale dai posti di responsabilità del partito proletario, imbaldanzirono in un'offensiva che, trovando i lavoratori disorganizzati e delusi della forza dei loro organismi, si vantò di facili vittorie; che schiaffeggiarono la fierezza della classe lavoratrice e spezzarono le sue conquiste.
Sulle vittime dell'altra notte si vuol ripetere la speculazione cinica e turpe per colpire la compattezza della massa operaia. La borghesia non si commuove sul serio per i morti e i feriti del Diana – chiude per l'imposizione fascista le sue botteghe, ma per continuare sotto le saracinesche semialzate la caccia al profitto in cui sta tutta la sua morale di classe. Ma intanto la montatura si va completando. Ma intanto da taluni vostri dirigenti vengono parole che l'avversario attende per non tenerne altro conto che quello di vantarle come vittoria del suo intervento punitore e rintuzzatore delle idealità rivoluzionarie.

Proletari comunisti!

Ben, altra sia la nostra, la vostra parola. L'incanata avversaria non c'impegna a dire un nostro giudizio su atti che essa sceglie ad argomento gradito delle sue manovre. Il nostro programma è noto; non va rabberciato o scusato per dare spiegazioni all'insolenza della stampa antiproletaria e della propaganda controrivoluzionaria.
L'accendersi di una lotta che dà luogo a tragici episodi non si giudica da noi col dare sanzioni o rifiutarne. Le nostre responsabilità risultano chiare dalle nostre dichiarazioni programmatiche. Pel resto, noi vediamo riconfermata la grande verità storica proclamata dal comunismo, che alla situazione non v'è altra uscita che la vittoria rivoluzionaria dei lavoratori in un nuovo ordine veramente civile, o l'infrangersi di ogni forma di convivenza sociale in un ritorno alla barbarie più tetra.
La borghesia piuttosto che scomparire dalla storia vuole la generale rovina della società umana. Le bande bianche, che si formano per spezzare l'avanzata emancipatrice dei lavoratori, lavorano per questa seconda tenebrosa soluzione. Noi speriamo e crediamo che saranno spezzate dalla forza cosciente del proletariato, ma anche se ciò non fosse, in nessun caso esse salveranno dalla rovina finale il fradicio ordinamento borghese.
Il proletariato milanese non deve dunque in questi momenti lasciarsi impressionare dall'abile messa in scena di un simulato cordoglio da volgere in odio contro i lavoratori ed in sopraffazioni del suo movimento. L'avversario non deve avere la soddisfazione di vederlo associarsi alle sue attitudini di ipocrisia, il che sarebbe la prima tappa della via di prepotenze che si propone.
Si facciano dunque i [funerali] delle vittime. Noi saremo estranei ad una manifestazione, cui si dà artatamente un carattere antiproletario, e colla quale si vuole ancora una volta realizzare una solidarietà di classe che cela l'agguato e la libidine di dominio della classe privilegiata. Ma se la manifestazione farà un passo solo sulla via dell'aggressione al proletariato e ai suoi istituti, dell'oltraggio alle nostre e vostre idealità rivoluzionarie, allora, lavoratori milanesi, risponderemo con tutta la nostra e la vostra energia. Il piano dei controrivoluzionari non dovrà riuscire. Il proletariato milanese, non dimentico del suo passato, sarà al suo posto per difendersi, per difendere l'onore della sua rossa bandiera, le sorti dell'offensiva di domani, con cui prenderà il suo posto tra i compagni d'Italia e del mondo nella vittoria della rivoluzione sociale.

Il Comitato Esecutivo del Partito Comunista
La Federazione Provinciale Comunista Milanese
La Sezione Comunista Milanese
Il Comitato Esecutivo della Federazione Giovanile Comunista d'Italia
La Federazione Provinciale Giovanile Comunista
Il Fascio Giovanile Comunista Milanese.


3 aprile 2011

La classe dominante italiana e il suo Stato nazionale

da "Prometeo" n. 2 del 1946

Formazione dell'unità italiana

Le parole d'ordine politiche affacciate da tutti i partiti nella fase attuale, non diversamente da quelle del precedente regime, presentano come un patrimonio comune a tutte le classi del popolo italiano la ricostituzione della unità nazionale realizzatasi attraverso il Risorgimento e le guerre dell'indipendenza.
I partiti che pretendono richiamarsi al proletariato accettano in pieno la impostazione politica secondo la quale il fascismo avrebbe assunto la portata di una demolizione delle conquiste del Risorgimento ed il compito storico di oggi sarebbe quello di rifare e ripercorrere la via del risorgimento nazionale. Per conseguenza, ogni contrasto economico di interessi e conflitto politico di classi dovrebbe tacere dinanzi alle esigenze della vita della nazione e della sacra unione di tutti gli italiani.
È bene ripercorrere a larghissimi tratti la storia della formazione dello Stato borghese italiano, per concludere che, mentre è assurda la tesi che tutto questo ciclo debba essere o possa essere ripercorso e rivissuto nelle diversissime condizioni odierne, d'altra parte il preteso patrimonio e le vantate conquiste consistono in ori falsi e merci avariate.
La formazione in Italia di uno Stato unitario e la costituzione del potere della borghesia, pur inquadrandosi nella concezione generale di tali processi stabilita dal marxismo, presentano aspetti particolari e speciali, che soprattutto ne hanno ritardato il processo rispetto a quello presentato dalle grandi nazioni europee, dissimulando in parte la schietta manifestazione delle forze classiste.
Le cause sono ben note, ed anzitutto geografiche oltre che etniche e religiose. L'Italia, tanto continentale che peninsulare, ha costituito per molti secoli, dopo che la diffusione della civiltà oltre i limiti del mondo romano le aveva tolto la posizione centrale rispetto ai territori mediterranei, una via di passaggio delle forze militari dei grandi agglomerati formatisi attorno ad essa, ed un facile ponte per le invasioni e le stesse migrazioni di popoli da tutti i lati. Le varie zone del territorio furono a molte riprese occupate, organizzate e dominate da stirpi conquistatrici venute dall'Est e dall'Ovest, dal Sud e dal Nord. E nessuna di queste poté talmente rompere l'equilibrio a suo favore da costituire uno stabile regime con egemonia su tutta l'estensione del territorio. Quindi, nel periodo medievale feudale, non si gettò la base di uno Stato dinastico, aristocratico, teocratico, unitario, come avvenne negli altri grandi paesi i cui confini geografici e la cui posizione rispetto al giuoco delle forze europee meglio si prestavano a tale stabilizzazione. Influì su questo la presenza del centro della Chiesa con le sue lotte contro il prevalere eccessivo delle caste feudali e delle signorie dinastiche, e quindi si determinò la situazione correntemente definita come dipendenza dallo straniero e suddivisione in molteplici staterelli semi-autonomi.
Alla vigilia del prevalere del capitalismo nell'economia europea, per quanto questo avesse in Italia salde radici e secolari inizi, non era affatto compiuta l'evoluzione statale che poteva permettere alla borghesia italiana di trovare un centro statale solido di cui impadronirsi per accelerare al massimo il ritmo della trasformazione sociale.
Tuttavia l'Italia, per il fatto stesso che nelle pianure del Nord si combattevano e talvolta decidevano le grandi guerre europee e per l'accessibilità dal mare delle sue parti periferiche, subì con stretto legame le influenze della più classica tra le rivoluzioni capitalistiche, quella francese, e vi fu, se non proprio una repubblica borghese italiana unitaria, un'Italia Napoleonica. La borghesia ricevette l'idea dell'unità nazionale dall'esterno, la elaborò ideologicamente e socialmente, la diffuse tra le classi medie, e non meno di altrove si servì delle classi lavoratrici come strumento per realizzarla. Ma tale realizzazione fu più che in ogni altro paese infelice e contorta, e la sua fama riposa sull'immenso uso di falsa retorica, di cui fu infarcito tutto il cammino obliquo e opportunista del sorgere dello Stato borghese italiano.
Dopo aver lungamente esitato fra tutte le forme politiche, dalla teocrazia nazionale alla repubblica federale, alla repubblica unitaria, alla monarchia cosiddetta costituzionale, la soluzione che la storia trovò al giuoco delle forze aveva inizialmente un basso potenziale e una portata disgraziata.
Lo staterello piemontese, gonfiatosi a nazione italiana, non era che un servo sciocco dei grandi poteri europei e la sua monarchia dalle pretese glorie militari una ditta per affittare capitani di ventura e noleggiare, a vicenda, carne da cannone a francesi, spagnoli, austriaci; in ogni caso, al militarismo più prepotente o al miglior pagatore. Solo a questi patti un paese posto in così critica posizione poteva esibire per molti secoli una apparente continuità politica.
Tuttavia il processo, che condusse la dinastia e la burocrazia statale piemontesi a conquistare tutta l'Italia, sfruttò le forze positive della classe borghese, che, attraverso le molto fortunate e per nulla gloriose guerre di indipendenza, riuscì ad attuare la sua rivoluzione sociale, spezzò i predomini feudali e clericali, e, secondo la classica funzione della borghesia mondiale, seppe farsi del proletariato il più efficace alleato, e costruirgli nel nuovo regime lo sfruttamento più esoso. L'operaio italiano fu tradizionalmente il più ricco di libertà retoriche e il più straccione del mondo.
Attraverso questo processo convenzionalmente definito come la conquista dell'indipendenza, dell'unità e dell'uguaglianza politica per tutti gli italiani, i gruppi più progrediti della classe capitalistica industriale del Nord assoggettarono a sé l'economia della penisola, conquistandosi utili sbocchi e mercati e venendo in molte zone a paralizzare lo sviluppo economico-industriale locale, che, sebbene ritardato, si sarebbe esplicato efficacemente sotto un diverso rapporto di forze politiche.
D'altra parte, non solo la classe dei proprietari terrieri del centro e del Sud non esitò affatto a porsi sotto l'egida del nuovo Stato – sempre a conferma della nessuna sopravvivenza di orientamenti feudalistici fra questi strati – ma anche la cosiddetta e famigerata classe dirigente del Mezzogiorno, composta di intellettuali, professionisti ed affaristi, si unì al potere dello Stato italiano in una perfetta simbiosi basata sul concorde sfruttamento dei lavoratori e dei contadini, i quali, mentre dovettero sostenere pesi fiscali sconosciuti ai vecchi regimi per rinsanguare i bilanci del nuovo Stato, furono la materia prima per le manovre dell'elettoralismo, prestandosi a fornire ai ministeri le fedelissime maggioranze ottenute attraverso il mercato tra piccoli signorotti e gerarchi locali, irreggimentatori di voti, e i favori dei poteri centrali.
Questo sistema di scambi di servizi, a cui non fu mai estraneo fin dai tempi del giolittismo l'impiego della reazione di polizia ed anche di mazzieri irregolari, mascherò in realtà una dittatura che anticipava di decenni quella di Mussolini, e si prestò magnificamente all'insediamento del fascismo, realizzato senza colpo ferire dopo il debellamento dei centri proletari e rurali del Nord e delle poche cittadelle rosse del resto dell'Italia.
La via politico-militare del Risorgimento, se può rappresentare un ottimo esempio di abilità politica, percorre tappe segnate sistematicamente dalla sconfitta militare e dal tradimento politico.
La classe dominante italiana, riuscita nel saper intuire a tempo da che parte era il più forte cambiando audacemente di posto nei conflitti tra gli Stati esteri, coerentemente seguì questo sistema nel periodo fascista, ma, quando il sistema venne per la prima volta meno, determinando la catastrofe, non seppe trovare altra via di uscita che un ennesimo tentativo di aggiogarsi al carro del vincitore.

Teoria delle gloriose disfatte

Il Piemonte, schiacciato dall'Austria nel '48 e nel '59 riesce (sotto la guida del vero capostipite dell'italico ruffianesimo, Camillo Cavour) ad approfittare della vittoria della Francia e a guadagnare la Lombardia, volgendosi quindi verso il Sud. Gli è facile liquidare gli staterelli vassalli dell'Austria, ma deve sostare dinanzi agli Stati del Papa per ordine del Padrone Francese. Tuttavia ha l'abilità di impadronirsi senza colpo ferire di tutto il Sud d'Italia occupato da Garibaldi, sotto pretesto di avergli mercanteggiato l'appoggio inglese ed offrendogli la solita cortese alternativa tra la figura di eroe nazionale e la nuova galera monarchica.
Per avere il Veneto occorre, dopo Magenta e Solferino vinte dai francesi, attendere Sadowa vinta dai Prussiani, malgrado le dure batoste di Custoza e di Lissa. Infine, il retorico e pomposo coronamento dell'unità con Roma capitale è realizzato, ancora una volta, non certo attraverso la buffonesca breccia di Porta Pia, ma grazie alle armi prussiane di Sedan.
Il nuovo Stato fece anche i suoi esperimenti sulla via del colonialismo, pur essendo in questo campo l'ultimo venuto e non potendo pretendere di riattaccare i suoi timidi tentativi, tra gli stentati permessi delle Cancellerie di Europa, alle tradizioni delle Repubbliche marinare italiane. Tanto per non fare eccezione al solito metodo, la conquista della colonia del mar Rosso è segnata dalla tremenda sconfitta militare di Adua. La successiva conquista della Libia viene fatta, anche tra gravi errori ed insuccessi militari, a spese della Turchia, colta in una fase di crisi dall'incalzare delle guerre balcaniche.
Già da questa fase di imperialismo a scartamento ridotto sono evidenti nell'economia e nella politica capitalistica italiana i sintomi del nuovo indirizzo sociale che precorrono l'evoluzione fascista del capitalismo. Sorgono gruppi nazionalistici, che vengono a costituire la destra borghese in sostituzione del tradizionale aggruppamento "clericale-moderato" e, prendendo uno spiccato carattere anti-proletario, enunciano le parole d'ordine che saranno poi del fascismo, mentre la loro stampa è direttamente alimentata dall'industria pesante interessata a speculare sulla guerra e sulle imprese d'oltremare. Già l'economia italiana conteneva germi non trascurabili di monopolismo e di protezionismo e lo Stato alimentava con la legislazione fiscale o doganale industrie parassitarie, come ad esempio quella degli zuccheri e degli alcool. In economia, dunque, come in politica, la borghesia italiana, povera rispetto alle altre in senso quantitativo, vari decenni prima di Mussolini evolveva verso la sua fase fascista. L'espressione politica caratteristica di questo metodo borghese fu il Giornale d'Italia, coi Bevione, Federzoni, Bergamini, a cavallo tra il liberalismo e il nazionalismo (il che non toglie che taluno di essi sia oggi considerato un esponente antifascista). Era una corrente più sfrontatamente e modernamente audace di quella del liberalismo economico e politico classico del Corriere della Sera.
Il giuoco politico della classe dominante italiana continua nella Triplice Alleanza con "l'odiato tedesco" dei libri di scuola.
Nel 1914, i vari consulenti della politica dinastica esitarono a pesare il pro e il contro circa l'orientamento in cui andava indirizzato il classico calcio dell'asino. È notevole rilevare che i gruppi nazionalistici dipendenti dall'industria pesante passarono audacemente dal sostenere l'intervento triplicista alla più accesa campagna per l'intervento contro l'Austria, il che dimostra che, per la moderna borghesia industriale, i fini della guerra sono materiali e non ideologici. La clamorosa conversione non impedì agli interventisti della sinistra democratica, socialistoidi o repubblicani, di accogliere a braccia aperte questi alleati nella campagna guerrafondaia del 1915, comprovando così che la genesi del fascismo ebbe la sua incubazione nella storia politica della classe dominante in Italia, fin dalla costituzione nazionale.
Nella guerra europea, con un primo tradimento il Re Italiano resta neutrale, con un secondo interviene contro i suoi alleati, che a Caporetto gli danno la meritata lezione. Ma invano, poiché, grazie al famoso stellone, l'Italia dei Savoia esce dalla guerra ancora ingrandita delle province adriatiche e trentine. Tanto per chiudere il ciclo della cosiddetta politica estera, dopo il magro trattamento fatto più che logicamente alla classe dominante italiana dalle potenze vincitrici della Prima Guerra Mondiale, la borghesia sabauda ha realizzato ancora una volta il tradimento a danno dei suoi alleati e dei riscattatori delle sue sconfitte sui campi di battaglia, calcolando che nella guerra successiva la bilancia avrebbe traboccato a favore della rinascente potenza del militarismo tedesco. Sorse così l'Asse, che era tanto poco necessariamente condizionato dalla fase fascista, quanto era una ripetizione della politica del '66 e di quella triplicista. Attraverso la calcolata vittoria della forza germanica, l'Italia del Risorgimento e dei Savoia, dopo avere strappato in anticipo, con una condotta come sempre non priva di audacia nel senso del rischio nel giuoco sulla forza altrui, il simulacro di Impero africano, presumeva, seguitando a cantare il falso ritornello dell'irredentismo, di arrotondarsi ancora. Tunisi, Corsica, anche Nizza e Savoia, abilmente vendute nel 1859 dal vecchio Papà imbroglione e maestro del giuoco, dovevano impinguare ancora il grande Stato Italiano.
Ma la continuità indiscutibile di questo giuoco è stata spezzata brutalmente dal corso degli eventi. La vittoria, questa volta, si è messa dalla parte opposta a quella in cui la scaltrita borghesia italiana si era schierata, è sopravvenuta la strepitosa disfatta e l'invasione, anzi la doppia invasione. Questa volta, da una parte e dall'altra, le due coalizioni in conflitto si son dimostrate decise a strappare tutte le residue penne al gonfio pavone dell'Italia Sabauda, di cui egualmente disprezzavano l'impotenza militare.
Eppure, ancora una volta questa borghesia calpestata e travolta dalla storia, ha riproposto il suo gioco, e invece di contare le ammaccature e mettere in sesto le ossa, ha avuto l'impudenza di offrirsi per combattere, di parlare ancora di combinazioni da pari a pari, di alleanze, di sforzi bellici, e di ripetere il suo stupido grido di "Vinceremo", invece di confessare finalmente di avere per sempre perduto.

I rapporti delle forze sociali e politiche

Quali sono i riflessi di queste vicende storiche, per quanto riguarda, nell'ambito dell'Italia, il giuoco delle forze sociali e la lotta dei partiti?
Il proletariato all'inizio non poteva non rispondere all'appello di alleanza che, più che la sotterranea borghesia, gli lanciavano le classi intellettuali, perché sentiva di dover collaborare alla distruzione delle impalcature feudali e delle influenze chiesastiche per poter assurgere ad un suo compito ulteriore.
Quindi, forse più che altrove, per molti decenni gli operai e i contadini italiani camminano sotto le bandiere delle ideologie borghesi giacobine, danno la mano alla scapigliata sinistra borghese, si imbevono delle parole e delle posizioni mentali della democrazia avanzata. Fino al 1900, gli importantissimi movimenti di lavoratori urbani e rurali, nel Sud e nel Nord, pur configurandosi sempre più in una fisionomia classista, appaiono come il settore avanzato del blocco dei cosiddetti partiti popolari. Il Partito Socialista si sviluppa, ma è soprattutto la forza animatrice della classica estrema sinistra parlamentare, che lotta nella piazza come un blocco solo nell'urto avvenuto nel 1898 tra le forze di destra e di sinistra della borghesia, o meglio nel primo esempio storico di un tentativo della borghesia liberale di rivedere i suoi metodi e schierarsi dinanzi al prorompere del movimento sociale sotto l'aspetto della forza armata dello Stato.
Gli stessi quadri del movimento socialista e proletario sono educati alla scuola magniloquente quanto vaniloquente della democrazia carducciana in letteratura, boviana-cavallottiana in politica, torneo di onesti Don Chisciotte in ritardo, tuonanti in nome della Libertà, dell'Onesta, della Umanità e di simili gloriose ombre.
Molto più seriamente, nel sottosuolo della vita politica, la borghesia lavora all'imprigionamento ideologico e materiale delle gerarchie proletarie con la sua organizzazione più reazionaria e più adatta a fronteggiare lo spettro della lotta di classe, la Massoneria. Questo organismo ha in quell'epoca un'influenza dominante, e talvolta decisiva, nell'aggiogare al carro dell'opportunismo i primi tentativi di azione autonoma della classe operaia.
La stessa origine spuria della borghesia in Italia spiega il ritardo con cui la teoria rivoluzionaria marxista si diffonde fra le masse e il largo prevalere delle tendenze anarchiche, che non costituiscono che l'esasperazione, per nove decimi letteraria, del liberalismo borghese e dell'individualismo illuminista. Ciò spiega anche come, prima di una solida tendenza marxista, si delineino nel proletariato correnti da un lato riformiste e collaborazioniste, dall'altro di indirizzo sindacalista sul tipo francese soreliano.
Su tutto sovrasta ancora il mito dell'anticlericalismo.
La guerra a base di artiglierie retoriche e convenzionali contro la sottana nera del prete è presentata in quest'epoca come il fatto centrale della storia e il suo successo è un postulato dinanzi al quale deve cedere ogni altro; il padrone borghese più esoso può divenire un fratello del lavoratore sfruttato se si degna di lanciare qualche ingiuria al buon Dio ed al suo vicario in terra. La lotta per uscire dalla rete vischiosa di questo inganno anticlassista fu lunga e difficile e prese aspetti che oggi possono apparire secondari: intransigenza alle elezioni politiche di primo e secondo grado, rottura dei blocchi anticlericali amministrativi, incompatibilità tra PS e Massoneria. Contemporaneamente, il partito, lottando contro i due revisionismi riformista e sindacalista, si orientava sulla base marxista, e la sua direzione, al momento dello scoppio della Prima Guerra Mondiale, era nelle mani della frazione intransigente rivoluzionaria. Capo di questa frazione, dopo la espulsione degli opportunisti di destra, Bonomi e Cabrini (fautori della collaborazione con la monarchia, che si era volta con entusiasmo alla politica massonizzante di sinistra) e Podrecca (apologista della guerra di conquista imperialista in Libia), fu Benito Mussolini, direttore dell' Avanti!. Egli, non senza qualche sospetta esagerazione in senso volontaristico e blanquistico, aveva diffuso parole di sfida rivoluzionaria alla borghesia dominante, che associava tradizionalmente alle orge letterarie di liberalismo avanzato la repressione senza riguardi, poliziesca e armata, delle rivolte degli affamati e che, tradizionalmente, e prima che fosse celebre il nome di manganello, tutelava con squadre di mazzieri le ladrerie amministrative e la frode nelle cagnare elettorali.

I socialisti e la guerra. Le lotte del dopoguerra

La preparazione classista degli ultimi anni consentì al proletariato d'Italia di reagire meglio che in altri paesi all'opportunismo di guerra.
La coscienza politica della classe lavoratrice permise di resistere al dilagare delle tre menzogne fondamentali della propaganda interventista destinata a far tacere ogni palpito di azione e di lotta di classe: la difesa della Democrazia contro l'imperialismo teutonico, il trionfo del principio di nazionalità con la liberazione dei fratelli irredenti, la difesa del sacro suolo della patria contro l'invasione straniera. Ma, se non capitolarono il proletariato ed il suo partito, capitolò da solo proprio il "capo degli intransigenti", a dimostrazione di quanto valgano i "capi" nel gioco delle forze sociali. Il tradimento di Benito Mussolini verso il proletariato e la rivoluzione porta la data del 18 ottobre 1914; il 23 marzo 1919 e il 28 ottobre 1922 egli non commise un'aggravante di reato, ma seguì il logico impulso delle leggi storiche e politiche in conseguenza alla premessa di allora.
Passato il ciclone della guerra, il proletariato socialista, che aveva dovuto subirla, ebbe un potente ritorno di combattività classista e tentò di porsi il problema di scaraventare giù dal potere, malgrado la sua vittoria di guerra, la classe che lo opprimeva.
Ma le armi materiali e politiche per questo compito non erano appieno forgiate e la intransigenza anticollaborazionista, come la opposizione alla guerra che la centrale del PS aveva contenuto nella sterile formula "né aderire né sabotare", erano piattaforma insufficiente ad intendere e realizzare il postulato storico della conquista insurrezionale del potere e della instaurazione della dittatura proletaria. Non tutto il partito seppe quindi raccogliere l'impulso storico formidabile che veniva dalla Rivoluzione di Russia e che fondeva per la prima volta la teoria politica e l'azione di combattimento rivoluzionario del proletariato mondiale.
Pur nel loro magnifico rifiorimento, le battaglie isolate (date con scioperi vittoriosi sul terreno sindacale, con i grandi scioperi politici delle principali città, seguiti dall'occupazione delle fabbriche e di altri centri della vita sociale) non si fusero utilmente in un unico assalto al potere centrale della borghesia.
Questa, a vero dire, comprese la tempesta e seppe affrontarla con sufficiente coscienza del momento storico e realismo di vedute. Nella prima fase del dopoguerra (1919), la politica della classe dominante fu quella tradizionale di diluire lo slancio classista nella parziale soddisfazione delle richieste economiche ed in un'orgia comiziaiola e cartacea di parlamentarismo. Nitti, uno degli abilissimi della casta politica italiana, fece senza esitazione rovesciare nel Parlamento 150 deputati socialisti, mentre il furbo reuccio sculettava di simpatia per la loro ala destra, nella speranza di attrarla in una combinazione di gabinetto.
Successivamente, il vecchio e più consumato Giolitti, senza certo ammainare il bandierone della democrazia, cominciò a preparare le trincee della resistenza armata. Senza nessun timore, l'oculato e furfante maestro della politica italiana lasciò entrare gli operai nelle fabbriche tenendo bene in pugno le questure. La sua formula era stata sempre che l'Italia si governava dal Ministero dell'Interno; il potere del liberalismo italiano è stato sempre affare di polizia.

Il fascismo. I fattori della sua vittoria

Frattanto, il complice di avanguardia della classe dominante italiana, Benito Mussolini, provvedeva a impersonare la riscossa delle forze conservatrici e fondava il movimento fascista. La politica fascista, caratteristica del moderno stadio borghese, faceva in Italia il primo classico esperimento. Col fascismo la borghesia, pur sapendo che lo Stato ufficiale con tutte le sue impalcature è il suo comitato di difesa, cerca di adattare il classico suo individualismo a una coscienza e a un'inquadratura di classe.
Essa ruba così al proletariato il suo segreto storico, e in tale bisogna i suoi migliori pretoriani sono i transfughi dalle file rivoluzionarie. Nella inquadratura fascista, la borghesia italiana seppe in effetti impegnare sé stessa e i suoi giovani personalmente nella lotta, lotta per la vita e per la salvezza dei suoi privilegi di sfruttamento. Ma, naturalmente, il fascismo consisté anche nell'inquadrare nelle file di un partito e di una guardia di combattimento civile, gli strati di altre classi tormentate dalla situazione, non esclusi alcuni elementi proletari delusi dalla falsa apparenza dei partiti che da anni parlavano di rivoluzione, ma rivelavano la loro palese impotenza.
Il compito immediato del fascismo è la controffensiva all'azione di classe proletaria, avente scopo non puramente difensivo, secondo il compito tradizionale della politica di stato, ma distruttivo di tutte le forme autonome di organizzazione del proletariato. Quando la situazione sociale è matura nel senso rivoluzionario, sia pure con un processo difficile e pieno di scontri, ogni organo delle classi sfruttate che lo Stato non riesca ad assorbire per irretirlo nella sua pletorica impalcatura, e che seguiti a vivere su una piattaforma autonoma, diventa una posizione di assalto rivoluzionario. La borghesia nella fase fascista comprende che tali organismi, sebbene tollerati dal diritto ufficiale, devono essere soppressi e, non essendo conveniente inviare a farlo i reparti armati statali, crea la guardia armata irregolare delle squadre d'azione e delle camicie nere.
La lotta si ingaggiò tra i gruppi di avanguardia del proletariato e le nuove formazioni del fascismo e, come è ben noto, fu perduta dai primi. Ma questa sconfitta e la vittoria fascista furono possibili per l'azione di tre concomitanti fattori.
Il primo fattore, il più evidente, il più impressionante nelle manifestazioni esteriori, nelle cronache e nei commenti politici, nelle valutazioni in base ai criteri convenzionali e tradizionali, fu appunto la organizzazione fascista mussoliniana, con le sue squadre, i gagliardetti neri, i teschi, i pugnali, i manganelli, i bidoni di benzina, l'olio di ricino e tutto questo truce armamentario.
Il secondo fattore, quello veramente decisivo, fu l'intera forza organizzata dell'impalcatura statale borghese, costituita dai suoi organismi. La polizia, quando la vigorosa reazione proletaria (così come da principio avveniva molto spesso) respingeva e pestava i neri, ovunque interveniva attaccando e annientando i rossi vincitori, mentre assisteva indifferente e soddisfatta alle gesta fasciste quando erano coronate da successo. La magistratura, che nei casi di delitti sovversivi e "agguati comunisti" distribuiva trentine di anni di galera ed ergastolo in pieno regime liberale, assolveva quei bravi ragazzi degli squadristi di Mussolini, pescati in pieno esercizio di rivoluzione e di assassinio. L'esercito, in base ad una famosa circolare agli ufficiali del ministro della guerra Bonomi, era impegnato ad appoggiare le azioni di combattimento fascista; e da tutte le altre istituzioni e caste (dinastia, Chiesa, nobiltà, alta burocrazia, parlamento) l'avvento dell'unica forza venuta ad arginare l'incombente pericolo bolscevico era accolto con plauso e con gioia.
Il terzo fattore fu il gioco politico infame e disfattista dell'opportunismo socialdemocratico e legalitario. Quando si doveva dare la parola d'ordine che all'illegalismo borghese dovesse rispondere (non avendo potuto o saputo precederlo e stroncarlo sotto le sporche vesti democratiche) l'illegalismo proletario, alla violenza fascista la violenza rivoluzionaria, al terrore contro i lavoratori il terrore contro i borghesi e i profittatori di guerra fin nelle loro case e nei luoghi di godimento, al tentativo di affermare la dittatura capitalista quello di uccidere la libertà legale borghese sotto i colpi di classe della dittatura proletaria, si inscenò invece la imbelle campagna del vittimismo pecorile, si dette la parola della legalità contro la violenza, del disarmo contro il terrore, si diffuse in tutti i modi tra le masse la propaganda insensata che non si dovesse correre alle armi, ma si dovesse attendere l'immancabile intervento dell'Autorità costituita dello Stato, la quale avrebbe ad un certo momento, con le forze della legge e in ossequio alle varie sue carte, garanzie e statuti, provveduto a strappare i denti e le unghie all'illegale movimento fascista.
Come dimostrò l'eroica resistenza proletaria, come attestano le porte delle Camere del Lavoro sfondate dai colpi d'artiglieria attraverso le piazze su cui giacevano i cadaveri degli squadristi, come provarono i rioni operai delle città espugnati, come a Parma dall'esercito, come in Ancona dai carabinieri, come a Bari dai tiri della flotta da guerra, come dimostrò il sabotaggio riformista e confederale di tutti i grandi scioperi locali e nazionali fino a quello dell'agosto 1922 (che, a detta dello stesso Mussolini, segna la decisiva affermazione del fascismo, giacché la pagliaccesca marcia su Roma in vagone letto del 28 ottobre fu fatta solo per i gonzi), senza il gioco concomitante di questi tre fattori il fascismo non avrebbe vinto. E se nella storia ha un senso parlare di fatti non realizzati, la mancata vittoria del fascismo avrebbe significato non la salvezza della democrazia, ma il proseguire della marcia rivoluzionaria rossa e la fine del regime della classe dominante italiana. Questa, ben comprendendolo, in tutti i suoi esponenti, conservatori e social-riformisti, preti e massoni, plaudì freneticamente al suo salvatore.
Se questo giustamente rappresentò il primo dei tre fattori della vittoria, al secondo, la forza dello Stato, vanno dati i nomi dei partiti e degli uomini che governarono l'Italia dal 1910 al 1922, i liberali come Nitti e Giolitti, i social-riformisti come Bonomi e Labriola, i clericali in via di democratizzazione come Meda e Rodinò, i radicali come Gasparotto e così via. Al terzo fattore, costituito dalla politica disfattista dei capi proletari, vanno dati i nomi dei D'Aragona e Baldesi, Turati e Treves, Nenni e compagni, che giunsero, a nome dei loro partiti e dei loro sindacati, a firmare il patto di pacificazione col fascismo, patto che comportava il disarmo di ambo le parti, ma naturalmente valse soltanto a disarmare il proletariato.

La liquidazione dei complici del fascismo

Assurto al potere, il nuovo movimento politico della classe dominante italiana trovò la migliore intesa col Re democratico massone e socialisteggiante e non trovò difficoltà a scegliersi servitori tra i parlamentari giolittiani, liberali, radicali e cattolico-popolari. L'estirpazione di ogni residuo movimento autonomo operaio continuò in forme che potevano ormai rivestire di aspetti ufficiali l'illegalismo.
Ben presto il nuovo sistema, di cui la chiave evidente era la sostituzione del partito unitario borghese al complesso ciarlatanesco dei partiti borghesi tradizionali (prima realizzazione della tendenza del mondo moderno, per cui in tutti i grandi Stati del capitalismo in fase imperiale amministrerà il potere un'unica organizzazione politica) passò alla liquidazione del personale delle vecchie gerarchie politiche, e questi complici del primo periodo furono liquidati ed espulsi a pedate dalla scena politica. L'episodio centrale della resistenza di questo strato che troppo tardi si accorgeva dello sviluppo degli eventi, ma che storicamente mai avrebbe cambiato strada (perché cambiarla a tempo avrebbe significato rinunziare al sabotaggio della rivoluzione) fu costituito dalla lotta sorta dopo l'uccisione di Matteotti.
Questo gruppo ignobile di traditori invocò e pretese l'appoggio e l'alleanza del proletariato per rovesciare il fascismo, ma nello stesso tempo non cessò dal piatire il legale intervento della dinastia, dal fare l'apologia della legge, del diritto e della morale, tutte armi che non scalfivano per niente la grandeggiante inquadratura fascista, e dal deprecare ogni violenza di masse.
L'avanguardia cosciente del proletariato in tale momento non doveva avere lacrime per la violata libertà di questi sporchi servi del fascismo, ma, dopo avere virilmente sostenuta la bufera della controrivoluzione, ben poteva compiacersi della sorte di questi miserandi relitti delle cricche parlamentari. Da allora, invece, comincia a sorgere il prodotto più nauseante del fascismo, l'antifascismo bolso, incosciente, privo di connotati, incapace di classificare storicamente il suo avversario, incapace di capire che, se questo ha potuto vincere, è perché le vecchie risorse della politica borghese erano fruste e fradicie, incapace di intendere che solo la rivoluzione può superare la fase fascista, e che contrapporvi il nostalgico desiderio del ritorno alle istituzioni e alle forme statali del periodo che la precedette è veramente la più reazionaria delle posizioni.
Durante il suo primo periodo, il fascismo sedò le resistenze, liquidò i residui delle vecchie organizzazioni politiche, impostò la sua non originale e non risolutiva soluzione delle questioni sociali prendendo a prestito dai programmi del socialismo riformista la inserzione nello Stato degli organismi sindacali e la creazione di un meccanismo arbitrale centrale, che, al fine supremo della conservazione dello sfruttamento padronale, compensava i guadagni e le rimunerazioni dei lavoratori contenendo a grandi sforzi in un piano economico generale la speculazione capitalistica.
Ma questo primo esperimento di amministrazione politica totalitaria della vita sociale, nell'ambiente economico italiano di scarso potenziale intrinseco, dette risultati assai meschini, e l'apparente solidità del regime si mantenne solo con l'abuso smodato di una retorica parolaia, che fu la continuazione fedele della vuotaggine del tradizionale parlamentarismo italiano.
Dal punto di vista convenzionale e borghese, il fascismo segnò una nuova era rispetto al ciclo precedente della classe dominante italiana, nelle sue vicende di politica interna ed estera. Contro la concorde, benché opposta affermazione di questa antitesi da parte dei dottrinari da operetta del fascismo e dell'antifascismo, una valutazione marxista riconosce la logica e coerente continuità e responsabilità storica nell'opera e nella funzione della classe dominante italiana prima e dopo il 28 ottobre 1922. Tutto ciò che è stato perpetrato e consumato dopo trova le sue premesse necessarie in quanto si svolse nei precedenti decenni.
Lo stesso movimento fascista, con la pseudo-teoria che mai seppe prendere corpo, nasce con continuità di atteggiamenti, di consegne, di organizzazioni e di capi, dal movimento dei fasci interventisti del 1914, a cui si richiamano quasi tutti i movimenti che si vantano antifascisti.
La diretta continuità di movimenti tra il periodo parlamentare, quello fascista e quello post-fascista odierno, può leggersi nel processo di liquidazione della tradizione anti-vaticana. Quando la sinistra proletaria ripudiava l'anticlericalismo di maniera, le veniva rimproverato di favorire il pericolo clericale. Ma in realtà, non solo la politica indipendente proletaria si giustificava con la valutazione che tale pericolo non era più grave di quello di snaturare nella collaborazione massonica la fisionomia classista del partito proletario, ma con la certezza che quel pericolo era uno spettro fittizio, e che, in un avvenire non lontano, per quanto allora presentato come ingombrante paurosamente tutto l'orizzonte storico-politico, sarebbe stato disinvoltamente e sfrontatamente dimenticato.
Parallelamente all'intelligente politica del Pontificato verso i nuovi rapporti sociali di classe del mondo borghese, l'intransigente partito clericale si mutava all'indomani della guerra nel "Partito Popolare Italiano", oggi "Democrazia Cristiana", operante nell'ambito della costituzione parlamentare italiana.
Il movimento cattolico era stato, come quello socialista, contro la guerra, il Papa Benedetto XV aveva trovata la potente invettiva dell'inutile strage, e dicono fosse morto anzitempo nello spettacolo dei cristiani massacrantisi in nome di Dio. Seguì alla guerra una politica di realismo opportunista. Come tutte le forze borghesi, i cattolici videro con gioia l'azione fascista sventare il pericolo rosso ed al fascismo offrirono nei primi ministeri diretta collaborazione. Liquidati, insieme agli altri servi sciocchi, nella crisi 1924-25, i popolari cattolici operarono la lenta conversione che li presenta oggi come uno dei pilastri d'angolo dell'antifascismo.
Frattanto il Vaticano proseguiva senza interruzione la sua politica di liquidazione delle intransigenze anti-italiane, e, malgrado la polemica teorica contro la pseudo ideologia fascista deificante i concetti di Patria, di Stato, di Razza che esso non poteva tollerare, perveniva alla completa conciliazione, vecchio sogno di tutti i conservatori italiani, attuando all'apogeo del ciclo fascista il Concordato del 1929 e chiudendo la fase storica di conflitto aperta nel 1870.
La dinastia sabauda, al tempo stesso bigotta ed atea, pietista e massonica, credeva di consolidare ulteriormente, con questa conquista, la sua base politica. La rinascente pretesa democrazia di oggi, intenta stupidamente a disfare pietruzza per pietruzza l'edificio fascista, non ha trovato una frase né una parola contro il concordato di Ratti e Mussolini, o per far rivivere, sia pure a scopo commemorativo, la gloria della sua passata retorica anti-vaticana. Quando il dominatore che Re e Papi temettero ed elevarono a loro pari con Collari e Croci, fu travolto da altre forze, la gerarchia del Quirinale e quella del Vaticano furono concordi nella politica di presentarsi come nemiche e demolitrici del potere di Mussolini. Se nel guazzabuglio politico dei partiti dell'antifascismo, qualche timida obiezione sorge alla pretesa di verginità antifascista dei Savoia, o almeno di Vittorio Emanuele III, è quasi completo il silenzio nei confronti dell'analoga manovra politica compiuta dal pontificato attuale. Sta a spiegare, questa differenza di comportamento, insieme alla congenita vigliaccheria dei politicanti italiani, il fatto che, mentre le azioni del re sabaudo sono poi precipitosamente cadute, la curia vaticana è tuttavia una forza storica di assoluta efficienza, non scossa, e forse anzi rinvigorita, dalle vicende della guerra.
E la posizione di questa forza nei rapporti del conflitto tra le classi sociali dimostra ancora una volta la continuità e la rispondenza tra le posizioni borghesi fasciste e quelle antifasciste, che, malgrado la diversità delle presentazioni retoriche, fanno fulcro sui concetti di collaborazione delle classi e sulla propaganda di economie pseudo collettive, che salvano il principio dello sfruttamento borghese tentando di evitare l'opposta pressione dell'organizzazione proletaria.
Il pontificato oggi, nelle comunicazioni fatte nel corso della guerra, se talvolta, quando l'esito di questa era indeciso, è giunto ad enunciare una critica delle sue cause che ne riporta l'origine ad epoca assai più remota del sorgere dei regimi di Mussolini e di Hitler, denunziando le tremende sperequazioni tra le fortune plutocratiche e la miseria operaia caratteristiche della moderna società, nel suo programma positivo, economico e politico, riecheggia i motivi reazionari del corporativismo fascista e della democrazia progressiva, oggi in voga. Fondare in politica la democrazia su qualità morali dei governanti e dello strato professionale governativo, è parola storica tanto retriva quanto l'invocazione di una economia di frammentazione della ricchezza, di polverizzazione della proprietà, che vuol dare agli oppressi economicamente l'illusione che il capitalismo, anziché spingersi sempre più follemente verso i vortici delle disparità economiche, si possa volgere ad un regime dove tutti al tempo stesso saranno lavoratori e proprietari.
Non diversamente parlò alle masse sfruttate il fascismo, e non è meraviglia che gli economisti delle democrazie politiche e sindacali accettino le parole economiche vaticane, convergendo nel piano della socializzazione dei latifondi e dei monopoli, che non maschera altro che il divenire monopolistico e fascistico del capitalismo statale.
Clericali ed anticlericali ieri, fascisti ed antifascisti oggi, i borghesi, nel mondo come in Italia, sono veduti dal metodo storico proletario percorrere un unico ciclo ed una crisi parallela.

Il ridicolo "bis" del Risorgimento

È per tutto questo che l'odierna parola della ripetizione e della restaurazione delle conquiste del Risorgimento nazionale italiano risulta molto più reazionaria delle stesse parole d'ordine del fascismo. Non solo un "bis" di questo genere è storicamente un non-senso, ma la via del Risorgimento non è altro che la via che ha condotto al regime fascista come al suo sbocco storico.
L'idea che il fascismo vada considerato diversamente da tutti gli altri processi sociali e storici, come una malattia, o se si vuole, come una distrazione della storia, come una parentesi bruscamente aperta e bruscamente chiusa, come un'alzata e calata di sipario su uno spettacolo ributtante, equivale a ritenere che tale fase storica non abbia le sue radici in tutti gli eventi che la precedettero e che gli eventi ad essa successivi possano non essere influenzati da essa. Tale idea è l'opposto della concezione scientifica e marxista della storia, e va da questa spietatamente respinta. Tale idea, infine, equivale a ristabilire ed esaltare, sotto pretesto di radicalismo antifascista, le cause stesse della generazione del fascismo, ed è la più forcaiola delle idee che la politica di questi tempi abbia potuto mettere in circolazione. La coscienza politica del proletariato respinge dunque l'invito a dare alla classe dei suoi sfruttatori nuovo appoggio e nuova alleanza per ripercorrere insieme la strada che ha condotto alla presente situazione, e rifiuta di prendere anche per un momento sul serio la presentazione della borghesia italiana sotto la luce romantica che pretendeva irradiarla nelle prime sue manifestazioni cospirative ed insurrezionali di un secolo addietro. Accreditare la classe dominante italiana con questo colossale trucco storico e politico è meno facile che presentare come candida verginella la più esperta e matura professionista del meretricio.
Comunque, la situazione succeduta al fascismo è di tale miseria politica, che non contiene nemmeno gli elementi retorici che rispondono a queste banali riesumazioni, alla nuova rivoluzione liberale ed al Risorgimento seconda edizione.
Come si può dire che il più disgraziato e pernicioso prodotto del fascismo è l'antifascismo quale oggi lo vediamo, così può dirsi che la stessa caduta del fascismo, il 25 luglio '43, coprì nel medesimo tempo di vergogna il fascismo stesso, che non trovò nei suoi milioni di moschetti un proiettile pronto ad essere sparato per la difesa del Duce, ed il movimento antifascista nelle sue varie sfumature, che nulla aveva osato dieci minuti prima del crollo, nemmeno quel poco che bastasse per poter tentare la falsificazione storica di averne il merito.
Vi furono negli anni del fascismo ed in quelli di guerra opposizioni, resistenze e rivolte, come vi sono state nelle zone tenute dai fascisti e dai tedeschi lotte condotte da partigiani armati. Ma mentre il politicantismo borghese è riuscito a dare a questi movimenti le sue false etichette liberali e patriottarde, nella realtà sociale tutti quei conati generosi vanno attribuiti a gruppi proletari, che, se nella coscienza politica non si sono saputi svincolare dalle mille menzogne dell'antifascismo ufficiale, nella loro battaglia esprimono il tentativo di una rivincita di classe, di una manifestazione autonoma di forze rivoluzionarie tendenti a schiacciare tutte le forze nemiche degli strati sociali dominanti e sfruttatori.
Il tracollo decisivo del regime fascista è derivato dalla sconfitta militare, dalla logica politica di guerra degli alleati, che, conoscendo la fragilità dell'impalcatura statale militare italiana, hanno localizzato presso di noi i primi formidabili colpi d'ariete della loro riscossa contro i successi tedeschi. Quando il territorio italiano era largamente invaso, il fascismo perse la partita non per il gioco dei suoi rapporti di forza coi partiti italiani antifascisti, ma per il gioco di rapporti di forza tra l'organismo statale militare italiano e quelli nemici.

La crisi della sconfitta e la parodia antifascista

Poiché la crisi culminante dello Stato borghese italiano (e non del solo fascismo che non era che la sua ultima incarnazione) non coincideva affatto nel tempo con la crisi dell'organismo militare tedesco, si determinò la situazione di liquidazione catastrofica di tutta la forza storica della classe dominante italiana. Questa, nel suo tentativo di gettare a mare l'alleato facendosene un merito agli occhi del vincitore, percorse una via rovinosa, perché in realtà non aveva più forza per costituire una seria pedina nel gioco dell'uno o dell'altro dei contendenti. Cercò di non confessarlo, e tutti gli attuali partiti dell'antifascismo furono complici nella responsabilità di questa vergognosa per quanto vana truffa politica.
Monarchia, Stato Maggiore, burocrazia, dapprima gettano a mare Mussolini, ma, non avendo nulla preparato di positivo per affrontare non tanto il fascismo, quanto il suo alleato tedesco, sono costretti a vivere l'ignobile farsa dei 45 giorni, in cui dicono corna di Mussolini ma proclamano che il popolo italiano deve seguitare a combattere la guerra tedesca. Preparano, poi, non il cambiamento di fronte, impossibile ad un popolo e ad un esercito ormai incapaci di combattere e stanchi di sacrificarsi dopo tutte le vicende passate, ma esclusivamente il loro salvataggio di classe, di casta e di gerarchie, poco curandosi che tale salvataggio di responsabili e complici inveterati della politica fascista duplicasse l'amarezza del calvario del popolo lavoratore italiano.
In questo quadro di clamoroso fallimento corrono a rioccupare i loro posti i partiti della pretesa sinistra antifascista, e quelli che sfruttano i vecchi nomi dei partiti della classe proletaria italiana. Ma nessuno di essi rifiuta la corresponsabilità di questa colossale manovra di inganni e di menzogna.
L'Italia che aveva vissuto per 22 anni di bugie politiche convenzionali, rimane nella stessa atmosfera, aggravata dal disastro economico e sociale. Nessuno dei partiti antifascisti trova la forza di contrapporre alla retorica della immancabile vittoria della banda mussoliniana, l'accettazione coraggiosa della realtà della sconfitta. Essi si pongono sul terreno banale della parola antitedesca cercando invano di presentare ai vincitori una Italia che, facendo per quattro anni la guerra contro di essi, fosse in realtà una loro alleata, e promettendo ciò che nessun partito italiano poteva mantenere, cioè un apporto positivo alla guerra contro la Germania, ed in realtà anche dal punto di vista nazionale non riescono ad un salvataggio parziale ma cadono in un peggiore disfattismo.
Le parole dei giornali dei partiti che si dicono rivoluzionari, echeggianti completamente quelle fasciste – unità nazionale, tregua di classe, esercito, guerra, vittoria – parole altrettanto false quanto allora, mascherano soltanto la libidine di dominio delle classi privilegiate, pronte ancora una volta ad un mercato fatto sulla carne e sul sangue dei lavoratori, e rispondono al tentativo di salvare alla borghesia italiana una posizione di classe economica dominatrice, sia pure vassalla di aggruppamenti statali infinitamente più forti, mediante l'offerta della vita, degli sforzi, del lavoro della classe operaia, a vantaggio prima della guerra, poi del peso titanico della ricostruzione. La borghesia italiana, la stessa che si servì di Mussolini, che plaudì a lui, che lo seguì nella guerra finché fu fortunata, firma coi suoi nemici un armistizio che non può pubblicare, perché con esso ha tentato di risalire dal vortice che la inghiotte a tutte spese di quelle classi che da decenni ha ignobilmente sfruttate e che spera di poter seguitare ad opprimere, se non come padrona assoluta, come aguzzina di nuovi padroni. Di questo segreto contratto e del suo spietato carattere di classe sono volontariamente corresponsabili tutti i partiti che agiscono oggi nel campo politico italiano, che accettarono di coprire la manovra con l'adozione delle false parole dell'alleanza, dell'armamento, della guerra, e che non osano, pur abbeverandosi ad un'orgia di liberalismo, avanzare nessuna timida eccezione critica alla dittatura di queste colossali menzogne.
Ritornando alla tesi-base dell'antifascismo di tutte le sfumature, secondo cui il fascismo fu ritorno reazionario di regimi pre-borghesi e feudali, e dopo la sua caduta si pone il postulato di ricominciare la rivoluzione ed il Risorgimento borghese con la solidarietà di tutte le classi, dalla borghesia al proletariato, e dopo di aver dimostrato l'enorme falsità storica e politica di questa posizione, deve concludersi che, se per un momento la tesi fosse vera, la rinascente borghesia avrebbe dovuto ricominciare il suo ciclo nelle forme iniziali che gli furono proprie, forme di dittatura di classe, di direzione totalitaria del potere, e non di tolleranza liberale.
Lo stesso fatto che le gerarchie politiche oggi prevalenti sono state incapaci a scorgere la necessità, per estirpare il fascismo, di una fase di dittatura e di terrore politico, dimostra che tra il fascismo ed esse – come insegna la valutazione fatta secondo le direttive marxiste – non vi è antitesi storica e politica, che il fascismo nei suoi risultati non è storicamente sopprimibile da parte di correnti politiche borghesi o collaboranti, che gli antifascisti di oggi, sotto la maschera della sterile ed impotente negazione, sono del fascismo i continuatori e gli eredi, e prendono atto passivamente di quanto il periodo fascista ha determinato e mutato nell'ambiente sociale italiano.
E a conclusione di quelli che sono gli aspetti internazionali della commedia e della tragica farsa che va dal 25 luglio all'8 settembre, va ribadito che l'armistizio italiano non fu vero armistizio.
È mancato quel mercato militare che è la base del fatto giuridico di armistizio. Era inutile stipularlo, e bastava proclamare ovunque la consegna dei frammenti di territorio italiano alla forza del primo occupante straniero. Il mercato è stato politico e di classe; quei gruppi, espressione della classe dominante, hanno tentato di barattare il privilegio di governare e sfruttare l'Italia, ossia la classe lavoratrice di questo paese, contro la firma di una serie di condizioni di servitù politica ed economica, che la forza del vincitore era ben libera di realizzare col suo diritto storico, ma che tuttavia la sua propaganda può oggi presentare come giuridicamente garantite.
Con l'armistizio, la casta militare italiana, nella immensa maggioranza, non invertì le direttrici del tiro, ma si preoccupò solo di rubare e vendere il contenuto dei depositi, dopo aver buttato via armi e divise. I fascisti, evidentemente, lo facevano per sabotare l'alleato, gli antifascisti per sabotare i tedeschi. Soltanto a tale risultato poteva condurre il capolavoro della tremenda opposizione antifascista italiana che, con la doppia manovra 25 luglio-8 settembre, coronò degnamente il corso della classe dominante italiana in un secolo di storia. Da allora questo metodo geniale ha preso il nome di "doppio gioco" con la caratteristica della sua miserabilità, e con quella che esso non è servito nemmeno ad ingannare il padrone, da nessuno dei due fronti.

Il collasso delle classi dirigenti in Italia e il proletariato

Se nell'andare alla rovina la classe dominante in Italia avesse lasciato superstite qualche suo gruppo dotato di forza sociale e politica autonoma, o almeno di una residua coscienza culturale ed intellettuale, lo si sarebbe sentito da ambe le parti del fronte lanciare la parola, sia pure utopistica, della liberazione del territorio da qualunque straniero, e accusare di tradimento della patria tutti i partiti e gli uomini del 25 luglio, dell'8 settembre e del mostruoso blocco antifascista avallatore dell'armistizio, come i fascisti che nel Nord si sono asserviti all'altro campo dell'imperialismo straniero.
Lasciando al loro disastro tutti i relitti borghesi, sia quelli che sono sopravvissuti nel professato vassallaggio ai due grandi contendenti della guerra, sia eventualmente gli ultimi mistici non venduti di una indipendenza e di una patria italiana, il partito nuovo della classe operaia italiana, impostando le sue soluzioni sulle forze internazionali di classe, dovrà in ogni caso sconfessare i due armistizi consumati nel disastro della guerra italiana e condurre la sua lotta politica contro tutti i gruppi che si sono schierati nei due governi della penisola e che hanno parlato di una collaborazione alle forze di guerra da entrambe le parti.
Soprattutto, vinta la guerra da parte degli Alleati, il proletariato italiano non ha alcun interesse a sostenere le rivendicazioni che i gruppi del governo di Roma avanzano per le loro "benemerenze", in quanto ogni concessione a questi da parte del vincitore sarà pagata dallo sfruttamento dei lavoratori d'Italia, e si porrà contro il loro cammino verso l'emancipazione.
La parola contraria, che vuole invece poggiare tali rivendicazioni sull'unità solidale delle classi e dei partiti d'Italia, deve essere dal proletariato respinta come disfattista e controrivoluzionaria.