Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

28 dicembre 2010

Astrazione e capitalismo

Note su Marx

di Raffaele Sbardella (1998)


[Articolo apparso sul n. 6 di «Vis-à-Vis. Quaderni per l'autonomia di classe», 1998]

Dalla teoria dell’alienazione a quella del feticismo e da questa infine alla teoria dell’astrazione reale (teoria quest’ultima che fonda la verità delle prime due), la tradizione del marxismo critico, quello eretico e libertario, sempre legato ai grandi cicli della soggettività collettiva, ha attraversato con efficaci strumenti teorici e con radicalità di critica la storia del capitalismo fino a ricongiungere nella fase attuale gli esiti estremi del suo sviluppo alla struttura veramente fondante del pensiero di Marx.

Tutti i passaggi analitici di Marx manifestano momenti particolari di vita dell’Astratto: la forza-lavoro, il lavoro vivo, il lavoro oggettivato, il valore, il plusvalore, il profitto; e ancora la merce, il denaro, i prezzi..., sono tutti momenti fenomenici dell’Astratto; luoghi in cui si incarna e si manifesta occultandosi il movimento stesso dell’astrarre, unico principio di reale unificazione della società e assieme fondamento del feticismo e origine di ogni alienazione. Ne siamo consapevoli, può sembrare un ragionamento di tipo hegeliano, ma in realtà non lo é: é la realtà sociale stessa ad essere semmai strutturata come il pensiero di Hegel.

Il lavoro mentale, massima estrinsecazione dell’astrazione del lavoro in atto, e per questo privo di veri saperi, scisso del tutto dall’attività fisica del corpo; lavoro fondamentalmente residuale, concentrato nel luogo originario della coscienza, centrato cioè sull’intenzionalità, richiesto dal capitale proprio per la sua capacità di creare ex nihilo la scelta e di produrre l’evento di cui necessita la rete macchinica del processo produttivo informatizzato; lavoro qualitativamente diverso sia dal lavoro intellettuale ricco comunque di saperi e di creatività, sia dal lavoro inintenzionale centrato sulla ripetizione dell’azione manuale – questo lavoro, [...] ci rimanda ad una forza-lavoro intesa come forza-intenzione

27 dicembre 2010

Piccolo è brutto? Ancora sui miti del "postfordismo"

di Maria Turchetto (1998)


[L'articolo è apparso sul n. 6-7 della rivista «Collegamenti Wobbly», nuova serie, 1998-1999. Si veda, della stessa autrice, Fordismo e postfordismo]

Vorrei proporre qualche altra osservazione critica nei confronti di quella nozione corrente di "postfordismo" che sta diventando un preoccupante "pensiero unico della sinistra", prendendo spunto dall'articolo di Visconte Grisi pubblicato nel precedente numero della rivista e suggerendo qualche altra lettura "fuori del coro" postfordista.

Giustamente, nell'articolo in questione, Grisi mette innanzitutto in guardia contro alcune generalizzazioni affrettate dei fenomeni di deindustrializzazione, decentramento produttivo e prevalere della piccola industria. Da un lato, secondo l'autore, questi fenomeni sono particolarmente marcati in Italia, "sono espressione di una particolare ridislocazione di questo paese all'interno della divisione internazionale del lavoro in maniera senz'altro più periferica, e pertanto non sono per nulla generalizzabili"[1]. Dall'altro lato, le caratteristiche che si vorrebbero tipiche del decentramento postfordista, "quasi una specie di ritorno del capitale all'età della manifattura o, addirittura, dell'artigianato"[2], non sembrano affatto confermate dai dati empirici.

In effetti, ho anch'io l'impressione che su processi reali – che andrebbero comunque maggiormente indagati nella loro effettiva dimensione e incidenza nei diversi paesi e nei diversi settori – si sia innestata una interpretazione fortemente ideologica, la quale finisce con l'incontrare poi l'ideologia per eccellenza del nostro tempo, ossia l'apologia del mercato neoliberista, "pensiero unico della destra" che tuttavia oggi affascina insospettabili teorici della sinistra.

1. Senza dubbio la "crisi" – o la "ristrutturazione" – iniziata negli anni '70 ha incrinato alcune certezze, ampiamente condivise non soltanto in area marxista[3], circa le tendenze dello sviluppo capitalistico: la tendenza alla crescita delle dimensioni dell'impresa, che pare smentita dai vasti processi di decentramento, dalla rinnovata importanza della piccola e media impresa, ecc.; e la connessa tendenza alla struttura monopolistica (oligopolistica) del mercato, che pare smentita dal grande ritorno della concorrenza, della competizione su un mercato risanato, che recupererebbe oggi la propria funzione di meccanismo razionale e ottimizzante non soltanto contro le ingerenze dello stato, ma anche contro le distorsioni introdotte dalle imprese giganti.

Certamente si è esagerato prima nel tematizzare l'univocità di queste tendenze (forse sulla base di una falsa evidenza per cui ciò che si sviluppa diventa necessariamente "sempre più grosso") e si è esagerato poi nell'enfatizzare la loro inversione (ciò che ha alimentato veri e propri miti, come quelli del "postindustriale", del "piccolo è bello", di una "concorrenza perfetta" che secondo le migliori tradizioni del pensiero neoclassico ristabilisce la sovranità del consumatore...).

Per evitare errori di prospettiva in un senso e nell'altro, credo sia necessario – come ho più volte sostenuto[4] – superare tanto l'"ideologia degli stadi" cumulativi e irreversibili, tanto l'"ideologia del post-", ossia della trasformazione radicale che ci consegnerebbe un capitalismo irriconoscibile al punto di non essere più capitalismo, ma – ad esempio negli ultimi deliri di Negri – una libera "imprenditorialità di massa": ideologie in fondo accomunate dall'idea consolatoria che la storia lavora per noi. Personalmente, trovo più interessanti alcune elaborazioni – molto minoritarie – che sottolineano la ricorsività o la ciclicità di alcune tendenze. Penso ad esempio ad Arrighi, che parla di "fasi di espansione materiale" e "fasi di espansione finanziaria"[5], queste ultime tipiche dei momenti di crisi e ristrutturazione del sistema; o a La Grassa, che parla di "fasi monocentriche" e "fasi policentriche"[6], adottando per la verità una terminologia che porta un po' fuori strada segnalando più gli equilibri geopolitici del capitalismo che le sue trasformazioni "strutturali" – se mi si passa il termine – le quali, a mio avviso, vanno ancora cercate in quel mondo della produzione dove, come diceva Marx, campeggia la scritta No admittance except on business.

2. Ma a questo proposito proprio La Grassa, in alcuni suoi lavori recenti[7], ha messo il dito su un punto abbastanza delicato: dove si svolge la produzione? nella fabbrica o nell'impresa? Qual è la differenza tra queste due entità? E quali sono i confini dell'impresa rispetto al mercato? La Grassa ha proposto, in questo senso, una rilettura delle cosiddette teorie dell'organizzazione, ossia quelle teorie che hanno contestato l'individualismo metodologico applicato all'impresa, considerata soggetto decisionale unitario anziché organizzazione complessa[8]. Teorie nate soprattutto per spiegare la grande impresa, ma che dicono qualcosa anche sui fenomeni di decentramento produttivo. L'elemento di maggior valore euristico presente in queste teorie consiste forse nella segnalazione della mobilità della frontiera che divide l'"interno" dall'"esterno" dell'impresa, e dunque nell'indicazione secondo cui impresa e mercato non vanno considerate rispettivamente come soggetto e come ambiente (esterno) in cui tale soggetto opera, ma come principi relazionali diversi, connotando la relazione "mercantile" come paritetica e incerta e la relazione costitutiva dell'"impresa" come autoritaria e gerarchica, avente come contenuto l'internalizzazione della relazione mercantile[9].

Prendendo spunto da questa concezione, si può fare un primo passo dicendo che il mercato perfettamente concorrenziale e il mercato completamente monopolistico rappresentano estremi teorici, mentre le strutture economiche concretamente esistenti sono un misto dei due principi, sbilanciato in un senso o nell'altro a seconda dei costi (rispettivamente, di transazione e di organizzazione). Un passo ulteriore consiste nell'osservare che la combinazione dei due principi non è distribuita in modo casuale nel tempo e nello spazio, ma sembra avere una "ricorsività", un alternarsi di fasi in cui prevale il principio di organizzazione (e internalizzazione) e dunque una struttura maggiormente monopolistica e Big Business del mercato (le fasi chiamate di "espansione materiale" da Arrighi), e fasi in cui prevale invece il principio di transazione (ed esternalizzazione) e dunque una struttura più concorrenziale e Small Business (le fasi di "espansione finanziaria").

Potremmo a questo punto fare un lungo elenco dei motivi che attualmente spingono in questa seconda direzione, e marcare l'accento sull'uno o sull'altro a seconda dei nostri "gusti" (delle nostre ipotesi interpretative guida). Chi tiene a presentare la crisi iniziata negli anni '70 come un risultato delle lotte operaie potrà sostenere che è difficile mantenere complesse strutture di controllo gerarchico e autoritario in presenza di forti livelli di conflittualità operaia, e che dunque il parziale smantellamento delle organizzazioni complesse risponde a una strategia difensiva del capitale. Da parte mia, tendo a considerare l'accumulazione capitalistica come una sorta di rullo compressore che va avanti per la sua strada guidata soprattutto dal saggio di profitto, spostando ciclicamente risorse da vecchi a nuovi settori. Se questo è vero, la fase attuale rappresenta un delicato momento di transizione, caratterizzato da un duplice ordine di processi. Da un lato, la ristrutturazione in atto comporta disinvestimenti dai settori maturi e deterritorializzazione di parti ingenti di tali settori (il che non significa affatto che questi si smaterializzino e fluttuino per aria, come una parte del dibattito sulla "globalizzazione" tende a far credere, significa che essi si spostano in diverse aree, ridisegnando una nuova divisione internazionale del lavoro), ciò che comporta lo smantellamento fisico e organizzativo del vecchio assetto, che deve essere letteralmente "fatto a pezzi". Dall'altro lato, i nuovi investimenti, alla ricerca di settori capaci di dare il cambio a quelli obsoleti nel trainare l'accumulazione, si giovano anch'essi delle dimensioni ridotte, che consentono di scaricare e diversificare il rischio, di "sperimentare" su una scala inizialmente ridotta nuove tecniche e nuovi prodotti ecc.

3. Al di là di queste considerazioni sulla funzionalità dei processi di decentramento al passaggio a un nuovo ciclo di accumulazione (in questo senso non condivido il giudizio con cui Visconte Grisi conclude l'articolo citato, sostenendo che la fase attuale "si può definire di iniziale decadenza capitalistica"[10]), vorrei comunque sottolineare il fatto che in questa situazione l'enfasi oggi posta sul mercato non rappresenta soltanto un fenomeno "ideologico", ma un effettivo principio organizzativo e – aggiungerei – di disciplinamento (in questo senso, un fenomeno "ideologico" nel senso forte e complesso del termine: non una favola messa in giro per incantare i gonzi, ma qualcosa di ben altrimenti efficace).

Prendiamo, ad esempio, il toyotismo all'italiana realizzato alla Fiat di Melfi[11]. Da un lato, c'è il fenomeno della esternalizzazione di una parte cospicua della produzione, "data fuori" a una serie di piccole imprese per circa il 65% (con una inversione della precedente proporzione, in cui la produzione interna dei componenti copriva il 65% e soltanto un 30-35% proveniva da ditte esterne): in questo senso, "più mercato" o mercato maggiormente Small Business. Ma la cosa interessante è che anche l'organizzazione interna si ispira al modello del mercato, rinunciando in qualche misura al principio della gerarchia o – come giustamente Laura Fiocco sospetta – occultandolo. Nella "cellularizzazione del processo produttivo"[12] organizzato in Ute (unità tecnologiche elementari), ciascuna Ute è infatti pensata come una minuscola "impresa", fornitrice dell'Ute collocata a valle e cliente di quella collocata a monte.

Ciò produce, innanzitutto, un effetto marcatamente ideologico: ciascuno per il "cliente" attiguo, tutti per il consumatore finale, il nuovo capriccioso sovrano che rifiutando il prodotto di massa ha reso obbligatoria la produzione flessibile (Laura Fiocco chiama questo effetto ideologico "effetto kanban", sottolineando che tale organizzazione non è affatto determinata dalle scelte del consumatore, ma dall'obbiettivo della produzione a zero scorte[13]). Ma produce anche un potente effetto di disciplinamento: non è la direzione che ti fiata direttamente sul collo, ma l'Ute successiva che aspetta il pezzo: "lavoratori che tirano altri lavoratori perché 'vogliono' il materiale con cui lavorare"[14]. Tale disciplinamento investe, ovviamente, anche le imprese esterne, stressate dal just in time e spinte dall'apparenza di un'"obbligazione di risultato" (il non plus ultra della libertà contrattuale) ad intensificare ritmi e condizioni di sfruttamento.

Il principio disciplinante, in questa struttura deliziosamente mista di "impresa" e "mercato", è il just in time (che dunque, quanto ad effetti, è ben più di un criterio di razionalizzazione di scorte e magazzini). Quanto al "mercato" e ai suoi principi, in quest'ottica esso appare tutt'altro che il regno della libertà e della democrazia, e si presenta piuttosto come un altro modo per esercitare controllo e disciplinamento: come sostiene anche Laura Fiocco, "il fordismo prevedeva un sistema di controllo sul lavoro attraverso una struttura gerarchica oppressiva, ora riconosciuta da tutti per quello che era. Per contro l'ohnismo cambia (realmente) il modo di esercitare il comando[...]. La nuova logica organizzativa rende non solo possibile ma anche necessario sia la parziale riduzione della struttura gerarchica dell'azienda sia un comportamento 'non piè militare' dei capi' (come dice uno dei responsabili del personale della Fiat). Ma ciò non significa che la direzione abbia rinunciato al comando, bensì che lo sta esercitando in forma diversa"[15].

Infine, non è detto che la tendenza al decentramento sia irreversibile, dal momento che la nuova organizzazione – a dispetto della vantata flessibilità – introduce forti elementi di rigidità nel coordinamento dell'aumentato numero delle unità (interne ed esterne) in cui è scomposta la produzione. Alcuni recenti casi clamorosi (ad esempio, la mancata consegna just in time di una fornitura di marmitte ha bloccato la produzione della Piaggio di Pontedera) hanno mostrato la fragilità della produzione "zero scorte", e da più parti si segnalano significative inversioni di tendenza rispetto a questo must postfordista. Recuperati i margini di profitto grazie al maggiore sfruttamento consentito, non è detto che i rischi e i "costi di transazione" non si rivelino nuovamente troppo alti e suggeriscano nuovi processi di internalizzazione e concentrazione produttiva.


Note:

[1] V. Grisi, Il fascino discreto del postfordismo, in «Collegamenti Wobbly», nuova serie n. 4-5, 1998, p. 38.

[2] Ivi, p. 39.

[3] Penso naturalmente al neomarxismo americano di Baran e Sweezy, che affermano: "Il capitalismo monopolistico è un sistema costituito di società per azioni giganti [...]. Il fattore dominante, il motore primo, è la grande impresa organizzata in società per azioni giganti [...]. Dal punto di vista di una teoria del capitalismo monopolistico, l'impresa minore si dovrebbe correttamente considerare come parte dell'ambiente in cui opera la grande impresa piuttosto che come protagonista sulla scena" (P. A. Baran, P. M. Sweezy, Il capitale monopolistico, Einaudi, Torino 1968, p. 45). Ma anche ad autori di impostazione keynesiana come Steindl (cfr. J. Steindl, Piccola e grande impresa, Franco Angeli, Milano 1991; sull'influenza esercitata da Steindl e dagli altri "stagnazionisti" sul pensiero di Sweezy hanno dato un contributo fondamentale gli studi di Marco Bonzio, purtroppo interrotti dalla sua prematura scomparsa; si veda M. Bonzio, La teoria economica di Joseph Steindl, in «Economia politica», n. 1, 1994) e allo stesso Schumpeter di Capitalismo socialismo democrazia (J. A. Schumpeter, Capitalismo socialismo democrazia, Etas libri, Milano 1984).

[4] Rinvio ad esempio al mio Fasi o cicli del capitale?, in «Alternative Europa», n.3, 1998, pp. 49-53.

[5] Cfr G. Arrighi, I lavoratori del mondo alla fine del secolo; l'articolo, tradotto da Annamaria Vitale dalla versione inglese apparsa sulla rivista «Review», estate 1996, volume XIX, numero 3 con il titolo Workers of the World at Century's End, può essere consultato in rete nella rubrica "Temi e discussioni" di «InterMarx, rivista virtuale di analisi e critica materialista», http://www.intermarx.com/

[6] Si veda G. La Grassa, Note sulle ricorsività e le crisi, sempre nella rubrica "Temi e discussioni" di «InterMarx, rivista virtuale di analisi e critica materialista», http://www.intermarx.com/. Una versione ridotta di questo articolo è stata pubblicata, col titolo Note sulla ricorsività, nella rivista «Alternative Europa», n. 4, 1998, pp. 48-54.

[7] Cfr. in particolare G. La Grassa, Dell'impresa: anche questo articolo può essere consultato in rete nella rubrica "Temi e discussioni" di «InterMarx, rivista virtuale di analisi e critica materialista», http://www.intermarx.com/

[8] In particolare, La Grassa fa riferimento alla "teoria dei costi di transazione", sviluppatasi a partire da un famoso contributo di R. Coase, The Nature of the Firm («Economica», 1937; oggi lo si può trovare tradotto in «Formez. Problemi di amministrazione pubblica», quad. n. 18; nello stesso quaderno, si segnala l'interessante rassegna sulle teorie dell'organizzazione di T. M. Moe, La nuova teoria dell'organizzazione).

[9] "La teoria [dei costi di transazione] presenta un indubbio interesse poiché pone l'impresa in uno spazio di continuità (e contiguità) rispetto al mercato. La scienza economica tradizionale, almeno in gran parte, tende a considerare impresa e mercato come realtà nettamente distinte e contrapposte; e l'economia critica di derivazione marxista non è da meno in tal senso, dato che per essa il mercato è il luogo dell'anarchia e dell'assenza di progetto, mentre l'impresa è la sede dell'organizzazione pianificata delle forze produttive da parte degli agenti della produzione capitalistica" (G. La Grassa, Dell'impresa, cit.)

[10] V. Grisi, Il fascino discreto del postfordismo, cit., p. 42.

[11] Utilizzo qui soprattutto le ottime analisi di Laura Fiocco, in particolare L'effetto Kanban nell'organizzazione del lavoro alla Fiat di Melfi, in «Chaos», n. 10, 1997, pp. 9-30. Anche questo articolo è ora consultabile in rete nella rubrica "Temi e discussioni" di «InterMarx, rivista virtuale di analisi e critica materialista», http://www.intermarx.com/

[12] Cfr. ivi, pp. 12-15.

[13] "La divisione in Ute [...] rende possibile sostenere il trasferimento della funzione di comando dall'azienda al mercato, nella forma di ordini che dai clienti-consumatori risalirebbero lungo la linea, senza soluzione di continuità, ai clienti-produttori (le Ute) [...]. Il rafforzamento ideologico è dato dal fatto che gli 'ordini del consumatore' veicolano 'la legge cieca della concorrenza'. Non solo, quindi, i lavoratori lavorerebbero tirati da un consumatore dispotico anziché spinti dalla direzione, ma avrebbero anche gli stessi interessi dell'azienda a soddisfare i clienti" (ivi, pp. 17-18).

[14] Ivi, p. 17.

[15] Ivi, p. 19.

25 dicembre 2010

Alle origini della critica radicale...


È finalmente disponibile in traduzione italiana...

Le Roman de nos origines.
Alle origini della critica radicale

Gilles Dauvé [Jean Barrot], Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale, A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010, 304 pagine, 15 € (spese di spedizione incluse).

«Parlare di comunizzazione, significa affermare che una futura rivoluzione non potrà avere alcun senso di emancipazione, né alcuna possibilità di successo, se non avviando fin da subito una trasformazione comunista della realtà a tutti i livelli – dalla produzione del cibo al modo di mangiarlo, passando per il modo di spostarsi, di abitare, di apprendere, di viaggiare, di leggere, di oziare, di amare, di non amare, di discutere e decidere del nostro avvenire etc. “Comunizzare” non significa rendere gratuito e disponibile per tutti, ciò che già esiste, dal telefono cellulare alla centrale nucleare, dalla casa della cultura fino alla panetteria giù all’angolo. Se così fosse, noi conserveremmo questi mezzi e questi luoghi di produzione e di consumo, semplicemente epurandoli del loro carattere mercantile: la nostra vita sarebbe la stessa, soltanto senza il denaro, il padrone e lo sbirro. Comunizzazione significa, al contrario, trasformazione; a cominciare, come si diceva negli anni Settanta – ben prima che l’ecologia e la «decrescita» diventassero di moda – dalla “chiusura di metà delle fabbriche”.
«Un tale processo non sostituisce, ma accompagna e rafforza, la distruzione necessariamente violenta dello Stato, e di tutte le istituzioni politiche preposte alla difesa della merce e del lavoro salariato. Questa trasformazione, su scala planetaria, si estenderà indubbiamente sull’arco di una, o più, generazioni. Ciò non implica, tuttavia, che si debbano creare preliminarmente le basi di una società futura, destinata a instaurarsi soltanto dopo una più o meno lunga fase di “transizione”.»

Apparso sul primo numero della rivista francese «La Banquise», nel 1983, Le Roman de nos origines costituisce un primo tentativo di risalire alle radici storiche e teoriche di quella prospettiva radicalmente comunista che va sotto il nome di critica radicale, alla luce di un bilancio delle principali correnti rivoluzionarie del passato e dei grandi movimenti sociali che, lungo l'arco del Novecento, hanno scosso la società capitalistica, in Francia e nel mondo intero. Ne pubblichiamo qui, in traduzione italiana, alcuni estratti, corredati da un ampio apparato critico e bibliografico, e accompagnati da altri due testi – anch'essi finora inediti – di Gilles Dauvé e Karl Nesic: Dalla Sinistra Comunista alla «comunizzazione» e Comunizzazione, ma...

Le Roman de nos origines non ha nulla a che spartire con i cascami dei partiti nazional-comunisti, cioè con le chiese maoiste e trotskiste di diversa osservanza che animarono la scena politica nella seconda metà del secolo scorso. Il libro analizza criticamente gli apporti teorico-pratici delle principali tendenze della Sinistra comunista che, fin dai primi anni Venti, seppero scorgere e analizzare il riflusso della Rivoluzione russa; di Socialisme ou Barbarie e dell’Internazionale Situazionista, che ne raccolsero l'eredità; e infine delle minoranze radicali che, sull'onda del Maggio '68, in Francia e in altri paesi, ne tentarono una sintesi/superamento.

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Il libro può essere richiesto direttamente ai curatori:

Fabrizio Bernardi (Bologna):
marinusvanderlubbe11@gmail.com

Dino Erba (Milano):
dinoerba@libero.it

Antonio Pagliarone (Milano):
antonio.pagliarone@fastwebnet.it

oppure a

«Pagine Marxiste»:
redazione@paginemarxiste.it

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23 dicembre 2010

Appello ai proletari d'Europa

Francia (2010)


Braci ardenti nell'inverno...


... ovvero, cosa è stato questo strano movimento studentesco?

Da un lato, è stata un'altra ondata di freddo.

Si poteva sentire qualcosa di fin troppo finto, troppo tarocco, nell'aria che si respirava in queste ultime settimane, negli slogan che si cantavano in corteo, tra le righe degli articoli dei giornali.

Se leggevi La Repubblica senza uscire di casa, senza sapere cosa stava succedendo in piazza, potevi avere l'impressione che stesse scoppiando l'insurrezione in Italia. Scontri dappertutto, il paese bloccato, il governo pronto a cadere. Poi c'era la realtà della piazza, delle occupazioni. Bella, ma non aveva nulla a che vedere con ciò che si poteva leggere nella stampa.

Questo ci insegna che la sinistra, per quanto appaia morta, sa ancora usare i suoi vecchi trucchi. L'hanno proprio pompato questo “movimento”! La Repubblica, la CGIL, i partiti di sinistra e anche non di sinistra che hanno tutti una stessa ossessione: far cadere Berlusconi.

Hanno voluto rifarci l'Onda. L'Onda: una perfezione fino ad ora inedita nel marketing della contestazione. Una truffa su scala generazionale. Dovrebbe essere insegnata nei corsi di formazione politica di ogni partito: un nome bello come un surfer sulla spiaggia, canzoni che suonano bene, delle azioni riproducibili, un nemico ben definito. E poi, il niente. Crolla il castello di carte, l'operazione è fallita, si proverà di nuovo tra due anni. E l'hanno fatta ripartire quella macchina! La metafora questa volta non è più il mare ma il cielo: tutti sui tetti, tutti sui monumenti!

Gli studenti e i ricercatori sui tetti, i monumenti occupati, i cortei enormi: questo è stato il lato spettacolare di questi giorni. Di questo si è parlato, scritto, dibattuto tanto e ancora tanto. Tutto questo teatro ha sopratutto permesso di nascondere l'altro lato del movimento. I sinistroidi, tutti esaltati, si felicitavano: non si parla più delle minorenni che si scopa Berlusconi, si parla della legge Gelmini, dei tagli, della politica. Un altro velo per nascondere l'ovvio, per ritardare ancora un po' l'inevitabile, per continuare a credere nel sogno, anche se siamo ora tutti svegli.

Le forze dell'ordine hanno giocato la loro parte: qualche manganellata, un po' di sangue qua e là per far tornare l'indignazione che sembrava sparita insieme alla sinistra. I “radicali” hanno indossato i caschi e hanno fatto partire qualche fumogeno, che fa sempre bella scena sulle foto. Allo scontro nessuno ci voleva andare. Il G8 di Genova è ancora nelle teste di tutti, da entrambi le parti.

Il movimento si è dunque giocato sopratutto sul piano virtuale, perché andare su quello reale aprirebbe la porta a una potenza che farebbe cadere molto più del governo, che potrebbe metter fine a ogni forma di governo. La sinistra lo sa, perché questa porta si aprì già trent'anni fa e il prezzo per richiuderla fu altissimo. Tanti l'hanno pagato con la propria vita. La sinistra sarà sempre il miglior guardiano di questa porta, evitando ad ogni costo che la lotta si porti sul piano reale.

Dall'estate in Italia si vive un'atmosfera di fine regno. Su tutti i canali dello spettacolo si parla solo del re-buffone, sia per difenderlo che per linciarlo. Si parla sopratutto della sua fine, di come andrà a chiudersi questa parentesi politica. L'unico contenuto della sinistra durante questi ultimi anni è stato l'antiberlusconismo. Un'opposizione morale al personaggio, al posto di un'opposizione politica allo stato delle cose di cui lui è solo l'emanazione più caricaturale. Ecco come il discorso della legalità è diventato l'alfa e l'omega della sinistra italiana, l'ostacolo che si incontra sempre quando si prova ad incidere sul presente, e che non si riesce a superare da tanti anni.

È così, è la fine di un regno. Ma questa fine, quest'apocalisse, non c'entra niente con Berlusconi. Si tratta della fine di un mondo.

Da un altro lato, è stato un fuoco capace di scaldarci.

Il sentimento della fine di questo mondo, lo si rivive ogni tanto. Non tutti i giorni. Lo si rivive quando si fa troppo ovvia la distanza fra il vissuto e la sua immagine, fra ciò che si vive e ciò che si vede. Questo sentimento l'abbiamo provato spesso in questi giorni. Si fa sempre più pressante. Ci chiama all'azione.

Nelle occupazioni delle scuole e delle facoltà tutti i discorsi sul “movimento” – sia quelli che lo sostenevano, sia quelli che lo denunciavano – sembravano molto spesso fuori luogo. La Gelmini, la sua fottuta riforma, l'università pubblica, il governo, gli scazzi tra i politici... Tutto questo suonava ogni giorno più assurdo, più lontano da ciò che si stava vivendo, roba di un altro mondo.

Le parole d'ordine che escono dalle casse dei furgoni durante i cortei non si capiscono più. Ma di che cazzo stanno parlando?

Ci parlano di diritti, ma questi diritti che enumerano le costituzioni di ogni paese del mondo, questi milioni di pagine di leggi, contratti, codici che regolano ogni aspetto dell'esistenza, non ci renderanno mai felici. Ma che senso ha questa vita sotto garanzia?

Ci parlano di dare più soldi alla scuola mentre dappertutto il denaro non porta che distruzione e desolazione. Ma soldi per fare cosa? Ricercatori, ma per ricercare cosa? Come sfruttare di più questa terra e i suoi abitanti? Come produrre più merda ad un prezzo più basso? Come vivere di più rinunciando a tutto ciò che rende una vita degna di essere vissuta?

Ci parlano di fare fuori tal dirigente e rimpiazzarlo con un altro meno stronzo. Ma porco dio, perché diamine dovremmo aver bisogno di essere governati?

Nelle occupazioni, nelle strade, nelle assemblee, si ponevano questioni di tutt'altro genere. Questioni politiche. Tipo: Come organizzare il pranzo per tutti nella facoltà occupata? Come bloccare effettivamente la stazione? Come trovarsi con gli altri che lottano altrove? Come sbarazzarsi della polizia? Da questo punto di vista, questo movimento è stato sopratutto un momento d'incontro. E ogni vero incontro è un evento. L'incontro è ciò di cui è intessuta la storia. Tanti ragazzi e ragazze che prima si incrociavano nei corridoi delle scuole ignorandosi sono diventati una potenza reale. Capace del meglio e del peggio. Questi vari percorsi si sono incontrati spazzando via il regno dell'indifferenza. E quando la stampa e la televisione non parleranno più del movimento, quando i contestatori spettacolari saranno scesi dei tetti, cosa rimarrà? Rimarrà questa potenza. Ecco dov'era la bellezza di questo strano autunno italiano. Ecco dov'era la luce nelle tenebre. Riconoscendo e raccogliendo questa luce si costruisce irreversibilmente il movimento che seppellirà il vecchio mondo.

Durante i blocchi, le occupazioni, le fughe dalla polizia, le città hanno cambiato volto, come se una nuova cartografia si sovrapponesse a quella esistente. Durante le azioni di questi giorni, si sono appresi quali sono i punti chiave che fanno funzionare l'economia della metropoli. Anche questo rimarrà.

Finora spostarsi nella metropoli voleva dire andare da casa a scuola, dal lavoro all'aperitivo. In questi giorni invece, sapersi spostare nella metropoli ha voluto dire saper stravolgere la funzione dei suoi dispositivi, trasformandoli in mezzi atti al nostro scopo. La velocità della metropolitana ha permesso di essere ovunque alla faccia degli sbirri. Gli spazi delle università occupate sono diventati un rifugio e una base di attacco.

Una stazione occupata a Milano, un'autostrada bloccata a Bologna, un esproprio a Genova: da una città all'altra si passa la parola, si diffondono le pratiche. Un'emulazione senza centro, senza direzione. Una staffetta che passa per Londra e per Atene. Queste immagini che riusciamo a scorgere rafforzano la certezza che il momento che stiamo vivendo non c'entra niente con la legge Gelmini ma fa parte di qualcosa di molto più profondo. Non sono da vedere come degli esempi da seguire, ma come i frammenti per ora dispersi dello stesso incendio che non si spegnerà mai.

[Volantino distribuito a Milano durante la giornata del 14 dicembre]

9 dicembre 2010

A proposito della "crisi"

di Gilles Dauvé (1983)


 [Estratto da Gilles Dauvé, Le roman de nos origines, 1983, Capitolo X, «Crisi e autonomia»; di imminente pubblicazione in traduzione italiana]

Troppo spesso si è adottata la crisi economica come criterio esplicativo. L’integrazione degli operai al capitale è stata spiegata ora con la prosperità (la carota degli aumenti salariali), ora con la depressione (il bastone della disoccupazione). Negli anni Settanta, nell’ambito della nostra corrente, alcuni ritennero che la crisi avrebbe inevitabilmente soffiato sul fuoco della sovversione proletaria; non tanto perché la miseria spingesse gli operai alla rivolta, quanto perché la crisi mostrava «la fragilità del sistema, moltiplicando le occasioni di intervento proletario» (1).
Quanto a noi, non facciamo l’apologia della crisi, né tanto meno celebriamo prematuri «addii» al capitale e al proletariato. Altri si fanno sedurre dalla depressione economica e scrutano la caduta del tasso di profitto come se, oltrepassata una certa soglia critica, ne dovesse necessariamente derivare un’esplosione sociale. Ora, la questione delle crisi non è una questione economica: la caduta del saggio di profitto è soltanto il sintomo di una crisi del rapporto sociale. Allo stesso modo, quando il marxismo adotta il punto di vista del capitale, domandandosi se le fabbriche siano o meno sul punto di chiudere, spoglia la crisi della sua portata sociale.
La Seconda e la Terza Internazionale hanno quasi sempre concepito la lotta di classe come un fattore estraneo alla genesi della crisi. Secondo questa concezione, allorché il ciclo dell’economia entra in una fase discendente, meccanicamente i proletari si mettono in movimento; l’azione di questi ultimi non ha alcun rapporto con la loro internità al rapporto di salario. Nella teoria comunista, viceversa, la società è concepita come un tutto unitario e la lotta di classe, anche quando il suo contenuto assume una tonalità riformista, risulta un fattore determinante della crisi. Nel contesto di questa, il proletariato è posto nella condizione di far saltare (o meno) il rapporto sociale in cui è implicato.

«[...] Coloro che fanno affidamento su una crisi di sovrapproduzione, con la sua scia di decine di milioni di disoccupati in tutti i Paesi, affinché si determini quella che chiamano “la presa di coscienza del proletariato”, si ingannano pericolosamente [...]. La grande massa dei disoccupati si limiterà a cercare un lavoro, precisamente ciò che serve a ristabilire il circuito velenoso della merce [...]. Certamente, Lenin, Trotsky e lo stesso Marx, hanno talvolta creduto di scorgere nelle consuete crisi cicliche un’occasione rivoluzionaria; tuttavia non ne hanno mai fatto la condizione necessaria della rivoluzione. La realtà, in ogni caso, si è incaricata di smentire ogni speranza in tal senso, in modo chiarissimo, in occasione dell’ultima autentica crisi (1929-1933) [...] I problemi concreti della rivoluzione comunista non erano allora così nettamente delineati attraverso tutti i rapporti capitalistici come lo sono oggi, allorché questi ultimi vengono sperimentati sempre di più come altrettanti vincoli insopportabili e inutili. È su questa base, piuttosto che a partire dagli intoppi delle funzioni economiche, che i proletari si devono organizzare contro il sistema.
«Scommettere sulla crisi di sovrapproduzione significa rinunciare a battersi su un terreno che non sia quello più favorevole al nemico [...] Le iniziative di classe che risveglieranno la coscienza rivoluzionaria, prima in decine di migliaia poi in centinaia di milioni di lavoratori, dovranno essere intraprese a partire dalle condizioni di lavoro, non da quelle di disoccupazione; e dalle condizioni politiche e di vita, considerate nei loro molteplici aspetti. La pratica rivoluzionaria, oggi, trova il suo significato nella negazione di tutti gli aspetti funzionali del capitalismo, e deve contrapporre a ogni difficoltà della società del capitale le soluzioni proprie della rivoluzione comunista. Finché almeno una frazione della classe operaia non intraprenderà questo tipo di lotte, a prescindere dalla congiuntura dell’economia capitalistica, non basterà una crisi dieci volte più violenta dell’ultima a evitare che la coscienza rivoluzionaria arretri ulteriormente. Perché, al di fuori della lotta per trasformare tutte le strutture e le sovrastrutture divenute reazionarie e soffocanti, ancorché funzionino nelle migliori condizioni, non ci può essere coscienza, né presso i proletari né presso i rivoluzionari.
«Ciò che deve servire da reagente alla classe operaia non è l’accidente di una grande crisi di sovrapproduzione, che farebbe rimpiangere le 10 -12 ore di duro lavoro in fabbrica o in ufficio, ma la crisi che colpisce il sistema di lavoro e di cooperazione capitalistico; che, questa sì, è permanente, non conosce frontiere e si aggrava anche in presenza di una crescita ottimale del sistema. Le sue funeste conseguenze colpiscono allo stesso modo le aree più industrializzate e quelle più arretrate, gli Stati Uniti come la Russia e i suoi satelliti. È questa la carta più importante che il proletariato mondiale può giocare. Ed esso ne prenderà coscienza assai più agevolmente in condizioni “normali”, piuttosto che sotto l’assillo della fame.» (G. Munis, Parti-Etat. Stalinisme. Révolution, Spartacus, 1975).

Il fattore decisivo non è mai lo sviluppo o il blocco della crescita economica, ma la configurazione che in tali circostanze assumono le forze sociali. Se nel 1917-1921, l’attacco proletario prese slancio a partire da una situazione di crisi economica e politica, dopo il 1929, nonostante l’arresto (tra l’altro parziale) dell’espansione degli anni Venti, il rapporto di forza si modificò radicalmente a favore del capitale e delle borghesie occidentali, così come della controrivoluzione in URSS. Mentre nel primo dopoguerra, seppure non coi migliori esiti, il proletariato era riuscito ad approfittare dei contrasti politico-sociali in atto, nel 1929 fu invece incapace di trarre vantaggio dalla depressione: quando la crisi scoppiò, l’ondata principale del suo assalto era rifluita e, a livello mondiale, la sua sconfitta si era già consumata. Oggi, la situazione appare del tutto diversa; e tuttavia, la tesi di Munis sembra conservare intatto il proprio significato, come attesta il comportamento dei proletari dopo il 1974.
Fu quello l’anno in cui si manifestò una crisi che, da allora, non ha cessato di approfondirsi. Essa colpisce i proletari tanto direttamente (negli Stati Uniti, nel biennio 1979-1980, il potere d’acquisto dei salari si è ridotto del 10%), quanto indirettamente, poiché la disoccupazione acuisce la concorrenza con i figli delle classi medie per l’accesso ai livelli impiegatizi inferiori. Contrariamente a quanto era accaduto negli anni Sessanta, lo strato di lavoratori salariati che fino a quel momento aveva goduto di una certo grado di protezione (il lavoratore adulto, maschio, autoctono, qualificato e/o sindacalizzato) ha iniziato a vedere erosi i suoi privilegi e oggi deve affrontare, a sua volta, l’esperienza del lavoro precario. La borghesia fa vacillare le sue stampelle all’interno del mondo operaio e razionalizza la produzione, eliminando i settori meno produttivi e abbandonando i servizi sociali al degrado. Se in un primo tempo, per rimediare alla perdita di produttività, il capitale aveva tentato di intensificare i ritmi di lavoro, provocando il dilagare degli scioperi selvaggi dell’inizio degli anni Settanta, a partire dalla metà del decennio ha iniziato a ristrutturare a fondo la produzione. Da sette anni, i lavoratori ingaggiano un’azione difensiva che, il più delle volte, riscuote un successo soltanto parziale. Nella misura in cui il secondo si limita a reagire agli attacchi del primo, né il capitale né il lavoro riescono a spuntarla. La capacità del sistema di assorbire i colpi che gli vengono sferrati è impressionante.
La posta in gioco delle lotte attuali è in primo luogo la difesa del salario e dell’occupazione. La vicenda della LIP (2) rappresenta l’esempio più eclatante di un fenomeno che è caratteristico della fase: la difesa comunitaria contro la chiusura delle fabbriche. Questo tipo di lotta, che vede i lavoratori costituirsi in comunità d’impresa e rimanere imprigionati all’interno di essa, era già apparsa, prima che alla LIP, ad esempio nel settore tessile; e nemmeno rimane confinata all’interno dei confini francesi o europei: il Giappone ha conosciuto non pochi movimenti che presentano le medesime caratteristiche.
Contrariamente a ciò che gli operai di queste work-in pensano o dicono – almeno per quel che ne sappiamo –, essi non cercano di produrre in modo diverso pur rimanendo salariati, ma sono innanzitutto alla ricerca di un’impresa: diventano padroni di se stessi, nell’attesa di trovare un padrone vero.

«Fuori da questi muri, noi siamo nulla.» (Joe Toja, 49 anni, meccanico alla Chrysler di Detroit, spiegando perché gli operai si sono rifiutati di scendere in sciopero contro la loro azienda in difficoltà).

Questi movimenti nascono come reazione alla riorganizzazione industriale. È accaduto che gli operai, sull’esempio dei metallurgici del Baden-Würtemberg (1978), abbiano fatto pagare al capitale la loro dequalificazione, imponendo ai padroni la garanzia, per i salariati colpiti dall’innovazione tecnologica, di un impiego equivalente e di una retribuzione pari a quella precedente. Ottenuto dopo 16 giorni di sciopero e 13 di serrata, che hanno coinvolto 240.000 salariati, l’accordo riguarda il 40% dei metallurgici tedeschi. Ma si tratta di eccezioni: per il momento, la riorganizzazione si trova ancora nel limbo e, mentre si conoscono i progetti di robotizzazione (3), si ignorano i ritmi della sua introduzione. La questione è tutt’altro che tecnica: il grado e i tempi della robotizzazione, le forme assunte dagli investimenti e dall’innovazione sono in funzione dei rapporti di classe. Da un punto di vista generale, sembra che il capitale non sia più in grado di riciclare la forza-lavoro che viene espulsa dall’industria, così come un tempo aveva riciclato quella espulsa dalle campagne.
È evidente che la caduta della redditività è l’effetto dei vincoli che gravano sulla valorizzazione a causa dell’eccessiva parcellizzazione del lavoro; nonché dei limiti posti alla riproduzione capitalistica della totalità delle condizioni di esistenza, nella misura in cui essa include servizi che non sono riproducibili come beni di consumo fabbricabili in serie. I servizi collettivi non possono dispiegare la stessa produttività dell’industria; se lo Stato li prende in carico, lo fa a scapito del capitale complessivo.
Una possibile soluzione è il passaggio a un sistema di produzione automatizzato, dotato per definizione di una sua coerenza interna (feedback, autoregolazione, programmazione piuttosto che semplice esecuzione di ordini stabiliti) (4), in cui le macchine vengono «asservite», ovvero coordinate, al fine di realizzare un sistema che si autocontrolla. Non si tratta tanto di sottomettere l’uomo, quanto di renderlo più produttivo. Certo, il lavoratore sarà sorvegliato più strettamente, ma ciò che conta è che lo si inserirà all’interno di un quadro organizzativo tale che il lavoro, anche in assenza di sorveglianza, verrà eseguito secondo le modalità previste, essendo sufficienti a tale scopo i vincoli imposti dalla macchina.
È, questo, solo uno degli aspetti dell’utopia del capitale. Ad esempio, all’epoca in cui «l’arricchimento delle mansioni» era ritenuto un rimedio contro il «lavoro in frammenti» dell’operaio specializzato (Georges Friedman) (5), si attribuì all’esperienza della Volvo (6) una portata eccessiva, che trascendeva i ben magri risultati ottenuti sia sul piano sociale, sia su quello economico: con o senza il contributo dell’elettronica, l’auto-sfruttamento proletario non sarà mai un fenomeno di massa.
A tutt’oggi, in ogni caso, non sembra che il capitale sia in grado di liberare e stanziare gli enormi investimenti che una tale ristrutturazione richiederebbe. Una svalorizzazione generale, nel quadro di un terremoto sociale di cui non si possono prevedere le forme, renderebbe certamente la cosa più agevole. La svalorizzazione generata da una crisi è molto più che un fatto economico: è un rimescolamento delle carte in seno alla borghesia, una ridefinizione degli assetti politici, l’affermazione di nuove forme di potere e di nuovi livelli di mediazione tra capitale e lavoro (come si può constatare prendendo in esame lo choc delle due Guerre mondiali).
Dal punto di vista dei lavoratori, la posta in gioco, come fu al momento dell’introduzione dell’organizzazione scientifica del lavoro, non è rappresentata solamente dal salario e dal posto di lavoro. Si tratta, qui, della trasformazione del lavoro stesso, che l’evoluzione capitalista vorrebbe rendere più conforme e meglio controllato dall’impresa. È chiaro che ogni mansione semplice può essere automatizzata; ma la scelta è ancora una volta di tipo sociale. Se si rende necessario trasferire l’attività produttiva in aree dove la forza-lavoro è più a buon mercato, cosa fare dell’accresciuto numero di disoccupati nei paesi industriali avanzati? Viceversa, se si decide di robotizzare la fabbrica, come rispondere alle conseguenti richieste dei salariati? Nel 1974, gli operai specializzati dell’industria automobilistica francese, in gran parte immigrati di data recente, avanzavano rivendicazioni di tipo classico. Nel 1983, alla Renault, gli OS addetti alla verniciatura, in buona parte immigrati di seconda generazione desiderosi di continuare a vivere in Francia, hanno lottato, in un reparto in via di automatizzazione, per ottenere l’inquadramento come operai professionali, che garantirebbe loro la ricollocazione una volta ultimata la ristrutturazione. Vivendo delle divisioni materiali tra i proletari, i sindacati esitano a sostenerli, ma non possono più ignorarli.
[...]

Note:
(1)  «King Kong International», n. 1, 1976, p. 3 [G.D.].
(2)  Cfr. Il mito dell’autogestione, incluso nella Scheda: Scioperi e agitazioni operaie nei primi anni Settanta, in Le Roman de nos origines, Pagine marxiste, di imminente pubblicazione.
(3) Il termine «robotizzazione» fu in seguito sostituito dal più corretto «informatizzazione».
(4) Il riferimento è alle cosiddette macchine a controllo numerico, macchine governate da un computer la cui diffusione su larga scala risale agli anni Ottanta del secolo scorso.
(5) Georges Friedmann, Le travail en miettes, Gallimard, Paris, 1964, trad. it., Il lavoro in frantumi, Edizioni di Comunità, Milano, 1960. L'ouvrier spécialisé (OS, operaio specializzato) è l'equivalente del cosiddetto operaio-massa.
(6) Alla fine degli anni Settanta, la svedese Volvo introdusse nei propri stabilimenti un nuovo tipo di organizzazione del lavoro, basata sulle cosiddette «isole». All’interno di ciascuna isola, una singola squadra di operai aveva il compito di assemblare un intero veicolo. Questa formula organizzativa si ispirava al «modello Toyota», ideato da Tahichi Ohno e meglio noto come lean production (produzione snella). Tuttavia, «l’esperimento fallì perché questa strategia è efficace solo come parte di un processo comune di produzione capitalista. Funziona laddove esiste una sottostruttura destabilizzata (sregolata) con diversi piani di fornitori di componenti e servizi». Cfr. Karl-Heinz Roth, Il ritorno della dimensione proletaria e le paure della sinistra. Possibilità e limiti delle politiche socialiste nella transizione al XXI secolo, intervento su «post-fordismo», toyotismo e insorgenze proletarie, contenuto in «Quaderni di Contro Informazione», n. 5, febbraio 1995. Si vedano inoltre Laura Fiocco, La cellularizzazione della forza lavoro e le forme di resistenza alla Fiat di Melfi, in «Collegamenti Wobbly», nuova serie, n. 6-7, 1998-1999 e, della stessa autrice, L’effetto kanban nell’organizzazione del lavoro alla FIAT di Melfi, reperibile sul sito web http://www.arpnet.it/chaos/; Kim Moody, Workers in a Lean World: Unions in the International Economy, Verso, New York, 1997 e American Labor in International Lean Production (1996), in http://www.countdownnet.info/. [Gilles Dauvé e Karl Nesic hanno recentemente affrontato questi temi in Bisognerà ancora attendere, Giovane Talpa, 2006].

5 dicembre 2010

Il sindacalismo di base in Italia

«Battaglia Comunista» (2008)


I limiti strutturali della forma sindacale e la sua decisiva funzionalità alla sopravvivenza del capitalismo sono resi ancora più lampanti dal fenomeno del sindacalismo di base, dimostrazione evidente di come una verniciata di radicalità nel linguaggio non muti di una virgola l’essenza dello strumento sindacale.
Così come al cospetto dell’ultra liberista Partito Democratico si può contrabbandare addirittura Rifondazione Comunista per un partito che difende gli interessi dei lavoratori, allo stesso modo le attuali politiche concertative e di svendita della forza lavoro dei sindacali confederali lasciano incustodito uno spazio nel quale si assestano le varie sigle sindacali sedicenti radicali e di base.
Si tratta della solita operazione che consiste nel recuperare “a sinistra” quello che si perde a causa del costante avanzamento degli attacchi alle condizioni di vita del proletariato.
La strategia è quella consueta del più rancido riformismo che pretende di far passare per battaglie dei lavoratori quelle che sono le quotidiane lotte del sistema capitalistico con tutte le contraddizioni della sua fase di putrescenza:

"La grande truffa riformista si ripete sostanzialmente sempre nelle medesime forme: scambiare i fenomeni propri della dinamica capitalista come prodotti della lotta di classe; impostare tattica e strategia sugli obiettivi derivati da quella impostazione e che sono riconducibili alle condizioni di vendita e di impiego della forza lavoro, alle condizioni di riproduzione della forza lavoro, e alle condizioni di riproduzione del capitale.­­" (1)

Sono le esigenze del capitalismo stesso nella sua fase monopolistica a rendere il sindacato un tassello indispensabile dello Stato borghese, con buona pace di ogni volontaristica velleità dei sindacalisti più “agguerriti”. Come da noi sempre sottolineato, secondo la metodologia marxista le ragioni della politica controrivoluzionaria espressa da queste organizzazioni vanno ricercate “nella base oggettiva della loro determinazione” (2), non tanto in qualche imprecisato tradimento da parte dei vertici da richiamare a una più conseguente militanza comunista!
Se da un lato le difficoltà sempre maggiori di valorizzazione del capitale comportano la fuga verso la speculazione finanziaria o la delocalizzazione delle imprese in paesi in cui il costo del lavoro è minore, dall’altro si traducono in un attacco sempre più radicale verso i lavoratori, nel tentativo di spremere quelle ultime gocce di plusvalore che ancora si può estorcere. Il sindacato è lo strumento indispensabile nelle mani della borghesia per poter far passare tali politiche senza eccessivi contraccolpi sociali. E il sindacalismo di base è parte integrante di questo meccanismo.
È un fatto incontestabile infatti che qualunque sindacato, pro-concertazione o anticontertativo, sia lo strumento con il quale la forza lavoro è venduta non tanto al miglior prezzo di mercato quanto al miglior prezzo possibile per il capitalismo in un dato momento storico.
Fin dalla loro comparsa sulla scena italiana (1979: RdB nel Pubblico Impiego, 1987: Comitati di Base nella scuola) i sindacati di base sono stati caratterizzati dalla presenza di insuperabili e fisiologici limiti nel loro orizzonte economico-politico. Orizzonte visuale che, al di là delle sfaccettature di superficie, si caratterizza in ultima analisi per quattro tratti fondamentali:

nazionalismo, come nella peggiore tradizione del nazionalcomunismo togliattiano;
corporativismo, senza alcuna prospettiva di far assumere alle rivendicazioni economiche un carattere di classe;
costruttivo riformismo, con profusione di sforzi per salvare il capitalismo nella sua versione “buona”;
esclusivo difensivismo, con cieca accettazione delle necessarie compatibilità dell’attuale fase economica.

1. “Riportare l’Italia al ruolo che le compete”

Anche nel sindacalismo di base, come in molte realtà politiche sedicenti radicali, la più lampante e profonda caratteristica che ne svela il carattere antimarxista è la mancanza di una prospettiva coerentemente internazionalista. Nulla di stupefacente, sia chiaro, considerando che il ceto politico seduto ai vertici delle varie single sindacali di base è in larga parte ereditato dal rottame para-stalinista gravitante nell’orbita del Partito Comunista Italiano prima e di Democrazia Proletaria poi.
Ecco apparire quindi nei documenti e nei volantini di questi sindacati una serie di accorati appelli ad una politica che restituisca all’Italia il ruolo di primo piano che le spetta sullo scacchiere internazionale:

"È necessario un cambiamento urgente e radicale degli indirizzi di politica economica e dei suoi riferimenti sociali […]. La RdB Pubblico Impiego ritiene che l’inversione di tendenza debba avvenire attraverso […] il ripristino di una politica economica ed industriale che riscopra il ruolo dell’intervento pubblico. È la scelta che in anni ormai lontani ha consentito all’Italia di svilupparsi e di diventare uno dei paesi più ricchi del mondo." (3)

I toni e il linguaggio sono indistinguibili da quelli di un sindacato dell’epoca del Ventennio fascista. Uno dei paesi più ricchi del mondo? In quale contesto internazionale? In quale fase economica? A spese di chi? Non è un caso che, come scritto da Pannekock nel 1936 (4), la parte più cosciente della classe operaia denunciasse e combattesse lo sfruttamento coloniale mentre il sindacalismo lo considerasse fonte di prosperità.
Se si omette un riferimento di classe trans-nazionale, quello che rimane di queste rivendicazioni è una tensione vagamene sociale, rigorosamente nazionale e di pacificazione tra le classi perfettamente compatibile, anzi indispensabile all’equilibrio capitalistico.
Analogo discorso si attaglia perfettamente alle varie campagne per i salari europei:

"L’aumento di 250 euro che chiediamo serve per recuperare il reddito che i lavoratori hanno perso. Ad esempio serve a riavvicinare i salari dei metalmeccanici italiani a quelli tedeschi che prendono ben 1000 euro in più." (5)

"Innanzitutto il salario europeo, ossia l’equiparazione dei salari di tutti i lavoratori italiani alle medie più alte esistenti nella comunità. Non è pensabile che si creino le gabbie salariali che in Italia esistevano negli anni Cinquanta." (6)

Mi raccomando quindi, si alzino i salari dei lavoratori italiani e non ad esempio degli stranieri che lavorano in Italia o di tutti i proletari. Molto evocativa poi la scelta del paragone con i lavoratori tedeschi che riporta la mente allo sciovinismo antifascista e patriottardo di togliattiana memoria.

2. “Investimenti nel personale della Pubblica Amministrazione”

Altro carattere che soffoca sul nascere ogni slancio rivoluzionario negli ambiti strettamente sindacali è l’incapacità di superare i limiti di una visione corporativa della lotta economica.
Il tentativo di legare le battaglie rivendicative con il filo rosso degli interessi di classe è sistematicamente frustrato in nome delle concrete e quotidiane lotte locali nel proprio settore, secondo la logica del consueto fare oggi quello che è necessario (ma lo è per le esigenze del capitale!) rimandando l’assalto al cielo ad un domani imprecisato e sempre più lontano.
È evidente l’inversione tra mezzi e fini: le battaglie economico-sindacali dovrebbero essere condotte in una prospettiva più ampia di formazione di una coscienza di classe e saldatura degli interessi comuni dei lavoratori; ma come manca una visione trasversale a livello internazionale, manca anche una vera prospettiva trans categoriale.
Ne è piena conferma il naufragio del tentativo di costituire con la Confederazione Unitaria di Base (CUB) una confederazione tra sigle sindacali di base (RdB per il Pubblico Impiego, FLMU per i metalmeccanici, FLTU per i trasporti, FLAICA per il terziario, SALLCA per bancari e assicurativi… ).
A 16 anni dalla sua costituzione, i tentavi di coordinare l’attività delle organizzazioni partecipanti si sono infranti contro le barriere delle burocrazie, dei privilegi, degli interessi di bottega delle sigle aderenti, che hanno impedito di strutturare la confederazione come un’entità unitaria.
Dopo qualche anno di sopportazione reciproca, nel gennaio 2008 la RdB ha finalmente rotto gli indugi con una presa di posizione in cui critica l’inadeguatezza della Confederazione ad affrontare i propri compiti e sospende i propri membri dalla partecipazione alle riunioni del Coordinamento Nazionale. Comunque vada a finire questa ennesima diatriba interna, è evidente che le varie sigle da tempo si muovano autonomamente, se non in aperta contrapposizione reciproca, come nel caso di RdB Trasporti e FLTU.
In ogni caso il contenuto del materiale prodotto da queste organizzazioni lasciava poco spazio ai dubbi. L’apologia del “Pubblico” da parte di RdB raggiunge vette che sarebbero imbarazzanti anche per i vari Capitalismi di Stato presi a modello dalla sua dirigenza politica.
Si va dalla proposta di un “rilancio della Pubblica Amministrazione come fattore di sviluppo” (7) alla grottesca frammentazione all’interno dello stesso pubblico impiego:

"A chi afferma che il decentramento delle funzioni catastali ai Comuni sia la risposta al cattivo funzionamento dell’Agenzia del Territorio, va detto che l’Agenzia del Territorio in questi ultimi anni ha dimostrato di sapere fare bene il suo lavoro raggiungendo i sempre più ”sfidanti” livelli produttivi e migliorando la qualità dei servizi forniti a cittadini e professionisti." (8)

Ovviamente, secondo questo punto di vista, anche il recupero dell’evasione fiscale, panacea di tutti i mali dell’economia secondo l’economicismo riformista, andrebbe destinato a “sostenere una politica di incentivazione dei lavoratori della Pubblica Amministrazione”. (9)
In questo modo si finiscono per svalutare anche le giuste battaglie a difesa di quel simulacro di garanzie sociali che il capitalismo, allo scopo di contenere e addomesticare la conflittualità operaia, si permise di elargire nella sua fase espansiva; ancora una volta esse diventano il fine della lotta e non il mezzo per conquiste superiori.

3. Il Reddito di cittadinanza, la Tobin Tax e il capitalismo dal volto umano

L’approccio social-riformista dei sindacati di base giunge ad una condanna morale del capitalismo passando per la dissociazione tra modo di produzione e modo di distribuzione: tra ricchezza come dominio su cose (ricchezza di produzione, lato buono) e ricchezza come dominio su uomini (ricchezza di distribuzione, lato cattivo).
La forma capitalistica viene ritenuta intoccabile, in nome di un sano e responsabile realismo politico. Ciò contro cui si può lottare, ovviamente entro i paletti fissati dalle istituzioni a difesa dell’ordine economico, è quindi solo la distribuzione ineguale, moralmente ingiusta dei frutti di tale modo di produzione. Conseguentemente, la risposta allo sfruttamento capitalistico dovrebbe essere trovata nell’opportuna regolazione della distribuzione mediante la pianificazione e l’imposizione di leggi, l’assunzione di decisioni politiche e la più rigorosa conformità degli individui a precetti morali corretti e appropriati.
Così si spiegano le campagne per il “reddito di cittadinanza” portate avanti da tutto l’arcipelago dei sindacatini di base, in particolare da COBAS e RdB, organizzazioni distinte non tanto per i contenuti politici-economici delle rivendicazioni, ma per il carattere più movimentista della prima a cui si oppone quello più stalinisticamente burocratizzato della seconda.
Con la battaglia per il reddito di cittadinanza si consacra il carattere universalistico e interclassista delle rivendicazioni e l’abdicazione ad ogni velleità di superamento rivoluzionario del Capitalismo. Anzi, si corre a supplicare i capitalisti stessi perché rinuncino ad una parte del proprio profitto, già soffocato dalla difficoltà di valorizzazione del capitale, perché i lavoratori possano vivere meglio. Non potendosi parlare di ingenuità, l’opportunismo e la pericolosità di queste organizzazioni si pongono nello stesso solco degli storici partiti socialdemocratici che hanno legato mani e piedi il proletariato in attesa della mattanza autoritaria di qualche anno seguente, come negli anni ‘20 e ‘30 del secolo scorso.
Altro esempio paradigmatico di questo modo di intendere l’attività politica è la campagna per la Tobin Tax, la proposta di tassare i capitali speculativi con un’aliquota tra lo 0,25% e lo 0,1%.
Tra i sostenitori di questo strumento, troviamo la rivista “Cestes Proteo”, organo teorico-scientifico della RdB:

"La Tobin Tax si prefigge come obiettivo quello di ridurre le speculazioni perché queste sono la causa dell’incertezza e della volatilità sui cambi e, come abbiamo già detto, possono causare profonde crisi nei mercati emergenti. Alcuni sostenitori della Tobin vogliono, con questa proposta, combattere la speculazione in quanto considerano gli investimenti finanziari negativi per lo sviluppo. In altre parole, gli investitori che giornalmente spostano i loro capitali da un investimento all’altro alla ricerca di rapidi guadagni non producono nulla, se questi capitali fossero investiti per la produzione di beni e servizi si favorirebbe lo sviluppo e quindi l’occupazione, e solo in questo modo si potrebbe combattere la povertà. Quindi gli effetti della Tobin sono: proteggere i Paesi in via di sviluppo dagli attacchi speculatori e favorire lo sviluppo di questi Paesi." (10)

Siamo di fronte ad una perfetta sintesi di idealismo, opportunismo e assoluta continuità con gli schemi non solo economici, ma perfino mentali del capitalismo, secondo i quali il capitalista si dà alla speculazione, piuttosto che investire nella produzione, per una brama individuale di profitto e non per le superiori esigenze di destinazione dei capitali imposte dal ciclo economico.
Tutto questo concorda perfettamente con l’intrinseco carattere del sindacalismo in generale, le cui rivendicazioni devono necessariamente rimanere all’interno del capitalismo rispetto al quale esso di pone come una forza oggettivamente conservatrice.
Infatti se nelle fasi di espansione economica i sindacati possono vedere più facilmente accettate le proprie rivendicazioni e aumentare la propria credibilità verso i lavoratori, nelle fasi di declino essi devono lavorare per il rilancio dell’economia capitalistica:

"Per il sindacalismo di base per rilanciare l’economia italiana è necessario prendere una direzione completamente diversa, perché sono le politiche liberiste che hanno reso precaria l’esistenza di milioni di persone […] L’economia italiana è quella che sta soffrendo la crisi più di ogni altro Paese e la vita dei ceti popolari è diventata insostenibile […] Riteniamo che Il Pacchetto Treu e la Legge 30 debbano essere sostituiti da 4 o 5 rapporti di lavoro." (11)

È evidente che solo un capitalismo in piena salute possa esaudire le richieste socialriformistiche dei sindacatini.

4. La firma tecnica sui contratti

Tutto quanto scritto in questo documento dimostra il carattere esclusivamente difensivo delle battaglie condotte dai sindacati di base, condannati per la loro stessa essenza e per la congiuntura economica in cui si trovano a condurre un backgammoniano “combattimento in ritirata”. Il fatto di ritrovarsi in una determinata fase economica senza comprenderne le dinamiche e le prospettive porta queste organizzazioni ad un’accettazione passiva delle compatibilità del sistema. Non prefigurando in ogni caso una via di uscita che non sia all’interno della cornice capitalistica, le differenze tra sindacati confederali e di base si riducono a superficiali divergenze quantitative riguardo alle rivendicazioni, senza mai sfociare nel qualitativo.
Un’ulteriore conferma di tutto ciò sta negli strumenti usati nel perseguimento dei tanto decantati obiettivi immediati, quotidiani. Una nostra critica profonda ai sindacati di base è sempre consista nella loro inevitabile accettazione delle “regole del gioco” in materia tanto di leggi antisciopero, quanto di diritti sindacali (permessi retribuiti e non, tutela dai trasferimenti, indizione delle assemblee retribuite, ecc… ). La legge prevede ad esempio che nel pubblico impiego possano usufruire dei diritti sindacali solo le sigle che abbiano conquistato la maggiore rappresentatività; essa si può conseguire in due modi:

• apponendo la firma sul contratto;
• potendo contare su una media almeno del 5% tra numero di iscritti nel comparto e votanti alle elezioni per la RSU.

Partendo da questo scenario, è divenuta ormai prassi consolidata la cosiddetta “firma tecnica” sui contratti:

"Nonostante la valutazione fortemente negativa sui contenuti degli accordi espressa dalla nostra Organizzazione e confermata dalla consultazione dei lavoratori dei due comparti interessati, la RdB Cub Pubblico Impiego firma questa mattina all’Aran i contratti dei Ministeri e quello degli Enti Pubblici non Economici (Parastato) con l’intenzione di difendere fino in fondo gli esigui spazi di agibilità sindacale ormai rimasti nel nostro Paese.

"Nonostante una valutazione assolutamente negativa dei contenuti contrattuali […] firmiamo per salvaguardare gli spazi di dissenso ed opposizione in un quadro di relazioni sindacali che sta scivolando sempre di più verso il fascismo.

"Questa mattina la RdB firma i contratti ma appare evidente che il problema non è certo la firma o la non firma. Il problema vero, e che riguarda tutti, ancor di più in un momento di forte attacco ai diritti dei lavoratori, è quello della Democrazia, quella con la D maiuscola." (12)

Ecco ancora agitare lo spettro del Fascismo e la chimera della Democrazia per nascondere l’ennesima svendita alle compatibilità del sistema.

La deriva confederale/concertativa di queste organizzazioni è un fatto difficilmente contestabile: se si prescinde da una prospettiva rivoluzionaria in nome della difesa degli interessi immediati non si può che riconoscere la maggiore affidabilità degli strumenti istituzionali di contrattazione rispetto alle avventuristiche utopie dei veri comunisti.

L’intervento nel sindacato

Ovviamente, non ci stancheremo mai di dirlo, tutto quanto scritto in queste pagine non comporta una sottovalutazione dell’importanza delle lotte economiche o delle rivendicazioni immediate, tradeunionistiche. Esse sono una fondamentale palestra di lotta del proletariato se condotte con la prospettiva di farle trascrescere in lotta politica.

Ogni possibile fraintendimento sulla posizione dei rivoluzionari verso il sindacato è facilmente risolvibile distinguendo tra il sindacato come ambito di intervento e come strumento di lotta. È infatti responsabilità dei comunisti intervenire nel sindacato, senza però diventarne membri partecipe, senza condividerne le responsabilità; portando al sindacato le istanze dei lavoratori, raccogliendo e organizzando i membri che vanno contro il sindacato stesso. Il che non esclude che, tatticamente e temporaneamente, in singoli ben determinati casi, i compagni possano iscriversi a questo o quel sindacato.

Denunciare il ruolo di tutti i radicalriformismi è compito irrinunciabile dei comunisti: la comprensione delle dinamiche sindacali è parte integrante della maturazione della coscienza rivoluzionaria.

In particolare è necessario scardinare il meccanismo con il quale l’inevitabile malcontento che matura in seno alla classe lavoratrice viene recuperato alle medesime logiche capitalistico-borghesi da quegli argini a sinistra del Capitalismo rappresentati dai sindacati di base.

Note:
(1) Articolo “Uomo, ambiente e capitale” di Mauro Stefanini Jr su Prometeo del 1/6/94.
(2) Articolo “Neutralità del sindacato” su Battaglia Comunista del 1/10/98.
(3) Volantino RdB/CUB per le elezioni RSU 2004.
(4) “Il sindacalismo”, Pannekock, 1936.
(5) Comunicato Stampa della CUB dopo le sciopero di 8 ore proclamato da CUB, Sincobas, SULT, CIB-Unicobas, USI e CNL per il 21 Ottobre 2005.
(6) Intervista di Pietro Bernocchi, leader dei COBAS a Liberazione del 10/2/02.
(7) Volantino RdB/CUB per le elezioni RSU 2004.
(8) “Evasione fiscale in Italia: il peso del fisco, la leggerezza dello Stato Sociale” a cura di RdB Pubblico Impiego — settore Agenzie Fiscali.
(9) Idem come sopra.
(10) “Lo sviluppo alternativo eco-socio compatibile” di Valeria Cipriani in “Cestes Proteo”, n. 2003-1, pp. 117.
(11) Volantino della CUB per lo sciopero di 8 ore proclamato da CUB, Sincobas, SULT, CIB-Unicobas, USI e CNL per il 21 Ottobre 2005.
(12) Comunicati di RdB in occasione del 24 gennaio, giornata di mobilitazione nazionale per democrazia sindacale, salario e contro lo smantellamento della P.A.