Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

27 marzo 2010

Per un mondo senza morale

“La Banquise” (1983)


[Questo testo è stato pubblicato sul primo numero de “La Banquise” (1983), rivista animata da Gilles Dauvé (alias Jean Barrot) e da altri compagni francesi all’inizio degli anni Ottanta.]

Questa introduzione alla critica dei costumi è un contributo a una necessaria antropologia rivoluzionaria. Il movimento comunista ha una dimensione al contempo classista e umana. Esso poggia sul ruolo centrale degli operai proletari senza essere un operaismo, e va verso una comunità umana senza essere un umanismo. Per ora, il riformismo vive della separazione, assommando delle rivendicazioni entro sfere parallele senza mai metterle in discussione. Una delle prove della potenza di un movimento comunista sarà la sua capacità di riconoscere, poi di superare nella pratica il divario, persino la contraddizione, tra queste due dimensioni, classista e comunitaria.
Sono questo divario e questa contraddizione che si manifestano nelle ambiguità della vita affettiva e che rendono più delicata che mai la critica dei costumi.
Quel che segue non è un testo sulla «sessualità», prodotto culturale e storico allo stesso titolo dell’economia e del lavoro. La «sessualità» è nata con essi come sfera specializzata dell’attività umana, perfezionata e teorizzata («scoperta») sotto il capitalismo ottocentesco, da esso banalizzata nel XX secolo e superabile un giorno in una totalità di vita comunista.
Per le stesse ragioni, non si leggerà qui nemmeno una «critica della vita quotidiana». Quest’ultima esprime solo lo spazio sociale escluso dal lavoro e in concorrenza con esso. I «costumi» inglobano al contrario l’insieme dei rapporti umani nei loro aspetti affettivi. Non sono estranei alla produzione materiale (per esempio, la morale borghese della famiglia è indissociabile dall’etica del lavoro).
Dal momento che il capitalismo riassume a modo suo il passato umano che l’ha prodotto, non vi è una critica rivoluzionaria senza una critica dei costumi e dei modi di vita anteriori al capitalismo, quali quest’ultimo li ha integrati.

L’amore, l’estasi, il crimine

L’amore
Secondo i Manoscritti economico-filosofici del 1844, il «rapporto più naturale dell’uomo con l’uomo, è il rapporto dell’uomo con la donna». Questa formula è comprensibile e utilizzabile fin tanto che non si dimentica che la storia degli uomini è quella della loro emancipazione dalla natura mediante la creazione della sfera economica. L’idea dell’uomo come contro-natura, come totalmente estraneo alla natura è certo un’aberrazione. La natura dell’uomo è al contempo un puro dato biologico (noi siamo dei primati), e la sua attività di uomo che modifica dentro e fuori di sé il puro dato naturale.
Essendone parte, l’uomo non è estraneo alle condizioni naturali. Ma vuole conoscerle e ha cominciato a giocare con esse. Si possono discutere i meccanismi che hanno determinato ciò (in quale misura questo modo di procedere è il risultato delle difficoltà della sopravvivenza, particolarmente nelle zone temperate ecc.?), ma certo è che trasformando il suo ambiente, per esserne a sua volta trasformato, l’uomo si è posto in una posizione che lo distingue radicalmente dagli altri stati conosciuti della materia. Liberata da tutti i presupposti metafisici, questa capacità di giocare, in una certa misura, con le leggi della materia, è proprio la libertà umana. Questa libertà, della quale gli uomini sono stati spossessati via via che la producevano – è essa ad aver nutrito l’economia – si tratta di riconquistarla senza illudersi su ciò che è: non la libertà di un desiderio che irrompe senza incontrare degli ostacoli, né la libertà di sottomettersi ai comandamenti (chi li decifrerà?) di Madre Natura. Si tratta anche di dare tutta la sua estensione alla libertà di giocare con le leggi della materia: essa è tanto invertire un corso d’acqua quanto usare per fini sessuali un orifizio che non è stato «previsto» per questo uso. Si tratta infine di vedere che il rischio soltanto garantisce la libertà.
È perché deve lasciare tutto il suo spazio alla libertà umana che la critica dei costumi non può erigere a segno della loro miseria una pratica piuttosto che un’altra. Si legge talvolta che nel mondo moderno, la libertà dei costumi non ricoprirebbe altro che un’attività masturbatoria (solitaria, a due, o più). Fermarsi su questo dato di fatto, è ingannarsi sull’essenza della miseria sessuale. È necessario dilungarsi sull’evidenza che c’è un toccarsi solitario infinitamente meno miserabile di molti amplessi? La lettura di un buon romanzo d’avventura può essere molto più appassionante dei viaggi organizzati. Ciò che è miserabile, è vivere in un mondo dove non esiste più avventura se non nei libri. Le fantasticherie, seguite eventualmente da effetto, che un essere suscita in noi, non sono disgustose. Lo sono le condizioni che bisogna mettere insieme perché sia possibile incontrarlo. Quando leggiamo nella rubrica dei piccoli annunci di un barbuto che invita una signora anziana del piano di sopra e il suo cane a zompare con lui, non sono né la barba, né la vecchiezza, né la zoofilia a disgustarci. Ripugnante è che il desiderio del barbuto diventi motivo di vendita di una merce ideologica particolarmente nauseabonda; è che il barbuto faccia un’inserzione su «Libération».
Quando, da soli in una stanza, si redige un testo teorico, nella misura in cui questo testo offre una presa sulla realtà sociale, si è meno isolati dagli uomini che in un metrò o al lavoro. L’essenza della miseria sessuale non risiede in tale attività piuttosto che in tal altra – anche se la predominanza di una sulle altre può essere sintomatica –, ma attiene al fatto che con altri dieci, in coppia o tutto solo, l’individuo è irrimediabilmente separato dagli altri, a causa dei rapporti di concorrenza, della fatica e della noia. Fatica del lavoro, noia dei ruoli. Noia della sessualità come attività separata.
La miseria sessuale è innanzitutto la costrizione sociale (l’obbligo del lavoro salariato e il suo seguito di miserie psicologiche e fisiologiche, la coazione dei codici sociali) che si esercita in una sfera presentata dalla cultura dominante, e dalla sua versione contestataria, come una delle ultime regioni del mondo dove l’avventura è ancora possibile. La miseria sessuale è anche uno smarrimento profondo degli uomini (nella misura in cui la civiltà capitalista e giudaico-cristiana si è loro imposta) di fronte a ciò che l’Occidente ha fatto della sessualità.
Il cristianesimo ha ripreso dallo stoicismo (dominante nell’Impero romano) la duplice idea che 1) il sesso è alla base dei piaceri 2) si può e si deve dunque controllarlo. L’Oriente, da parte sua, attraverso un’affermazione aperta della sessualità (e non soltanto nell’arte della camera da letto), tende verso un pansessualismo, dove la sessualità certamente deve essere controllata, ma così come il resto: non la si privilegia. L’Occidente non bistratta la sessualità dimenticandola, bensì non pensando che a essa. Sessualizza tutto. Il fatto più grave non è che il pensiero giudaico-cristiano abbia soffocato il sesso, ma che ne sia stato obnubilato; non che l’abbia represso, ma che l’abbia organizzato. L’Occidente fa della sessualità la verità nascosta della coscienza normale, ma anche della follia (isteria). Nel momento in cui la morale entra in crisi, Freud scopre nella sessualità il grande segreto del mondo e di ogni civiltà.
La miseria sessuale, è un gioco di equilibrio tra due ordini morali, l’ordine tradizionale e l’ordine moderno che coabitano più o meno nei cervelli e nelle ghiandole dei nostri contemporanei: da un lato, si soffre a causa delle costrizioni della morale e del lavoro che impediscono di raggiungere l’ideale storico del pieno godimento sessuale e amoroso; dall’altro, più ci si libera di queste costrizioni (in ogni caso immaginariamente), più questo ideale appare insoddisfacente e vuoto.
Non bisogna scambiare una tendenza e la sua spettacolarizzazione con la totalità: se la nostra epoca è quella di una relativa liberalizzazione dei costumi, l’ordine morale tradizionale non è scomparso. Provate solamente a essere «pedofili» a viso aperto. L’ordine tradizionale funziona e funzionerà ancora a lungo per una buona parte delle popolazioni dei Paesi industrializzati. In una gran parte del mondo, è ancora dominante e ossessivo (si pensi all'Islam, o ai Paesi dell’Est). Nella stessa Francia, i suoi rappresentanti, preti di Roma o di Mosca, sono lungi dall’essere inattivi. Il peso delle sofferenze provocate dai loro misfatti, grava ancora abbastanza perché ci si possa astenere dal denunciarli, in nome del fatto che è il capitale stesso a scalzare le basi dell’ordine morale tradizionale. È falso che ogni rivolta contro quest'ordine vada necessariamente nel senso del neoriformismo; essa può anche rappresentare il grido della creatura oppressa che contiene in germe l’infinita varietà delle pratiche sessuali e sensuali possibili, represse da millenni dalle società oppressive.
Si sarà compreso che noi non siamo contro le «perversioni»; e neppure ci opponiamo alla monogamia eterosessuale a vita. Tuttavia, quando dei letterati o degli artisti (ad esempio, i surrealisti) pretendono di imporci l’amour fou come il massimo desiderabile, dobbiamo pur constatare che essi riprendono il grande mito riduttore dell’Occidente moderno. Questo mito è destinato a fornire un supplemento di anima alle coppie, atomi isolati che costituiscono il migliore fondamento dell’economia capitalista. Tra le ricchezze che un’umanità liberata dal capitale farà prosperare, figurano le innumerevoli variazioni di una sessualità e di una sensualità perverse e polimorfe. Soltanto quando queste pratiche potranno fiorire, l’«amore», qual è cantato da André Breton e Harlequin, apparirà per quello che è: una costruzione culturale transitoria.
L’ordine morale tradizionale è oppressivo e come tale merita d’essere criticato e combattuto. Ma se è entrato in crisi, non è perché i nostri contemporanei abbiano maggiormente il gusto della libertà che i nostri avi, ma perché la morale borghese rivela la sua inadeguatezza alle condizioni moderne di produzione e di circolazione delle merci.
La morale borghese, costituitasi in tutta la sua ampiezza nel XIX secolo e trasmessa attraverso il canale della religione o quello della scuola laica, è nata dal bisogno di un supporto ideologico al dominio del capitalismo industriale, in un’epoca nella quale il dominio del capitale non era ancora totale. Etica sessuale, familiare, del lavoro, andavano di pari passo. Il capitale si sosteneva sui valori borghesi e piccolo-borghesi: la proprietà frutto del lavoro e del risparmio, il lavoro faticoso ma necessario, la vita di famiglia. Nella prima metà del XX secolo, il capitalismo giunge a occupare l'intero spazio sociale. Si rende indispensabile, inevitabile: il salariato diventa la sola attività possibile, poiché non ve ne sono altre. È così che, nel mentre si impone a tutti, il salariato può rappresentarsi come assenza di costrizione, garanzia di libertà. Essendo stato tutto mercificato, ogni elemento della morale diviene caduco. Si accede alla proprietà prima di aver risparmiato, grazie al credito. Si lavora perché è prassi, non per dovere. La famiglia allargata cede il posto alla famiglia nucleare, essa stessa sconvolta dalle pressioni del denaro e del lavoro. La scuola, i mass media contendono ai genitori l’autorità, l’influenza sui figli, la loro educazione. Tutto ciò che era stato annunciato dal Manifesto del partito Comunista, viene realizzato dal capitalismo. Con la scomparsa dei luoghi della vita popolare (caffé etc.), rimpiazzati da quelli del consumo mercantile (uffici, centri commerciali) che non ne possiedono la qualità affettiva, si arriva a chiedere alla famiglia troppo, nel momento in cui essa ha meno che mai da offrire.
Sotto la crisi della morale borghese, c’è più profondamente una crisi della moralità (cioè della socialità) capitalista. C’è una difficoltà a fissare dei «costumi», a trovare modi di relazione tra gli esseri, comportamenti che superino il fallimento della morale borghese. Quale moralità il capitalismo moderno reca agli uomini? La sottomissione di tutti e di tutto, la sua onnipresenza rendono teoricamente superflui i supporti precedenti. Fortunatamente, la cosa non funziona. Non c’è, non ci sarà mai una società capitalista pura, integralmente, unicamente capitalista. Da una parte, il capitale non crea niente ex nihilo, trasforma gli esseri e i rapporti nati al di fuori di esso (contadini inurbati, piccoli borghesi declassati, immigrati) e rimane sempre qualcosa dell’antica socialità, almeno sotto forma di nostalgia. Dall’altra parte, il funzionamento stesso del capitale non è armonioso: non mantiene le promesse del mondo di sogno della pubblicità, e suscita una reazione, un ripiegamento verso i valori tradizionali pur complessivamente superati come la famiglia. Donde il fenomeno seguente: ci si continua a sposare, tuttavia un matrimonio su quattro finisce in un divorzio. Infine, obbligato a dirigere, vincolare, maltrattare i suoi salariati, il capitale deve reintrodurre in permanenza i valori di supporto autoritativi e di obbedienza che nella sua fase attuale rende tuttavia desueti: da cui un impiego costante dell’antica ideologia accanto a quella moderna (partecipazione...)
La nostra è l’epoca della coesistenza delle morali; della proliferazione dei codici, non della loro sparizione. Alla colpevolezza (ossessione di violare un tabù) si giustappone l’angoscia (sentimento di una mancanza di riferimenti dinanzi alla «scelta» da fare). Alla nevrosi e all’isteria di un tempo fanno seguito il narcisismo e la schizofrenia come malattie storiche.
Ciò che regge il comportamento dei nostri contemporanei, è sempre meno l’insieme dei comandamenti senza appello trasmessi dal pater familias o dal prete, quanto piuttosto una specie di morale utilitarista di pienezza individuale, favorita da una feticizzazione del corpo e da una psicologizzazione forsennata delle relazioni umane, nelle quali la mania interpretativa ha rimpiazzato la confessione e l’esame di coscienza.
Sade era in anticipo sul suo tempo. Egli annunciava semplicemente il nostro: quello della sparizione di ogni garanzia morale prima che l’uomo sia divenuto. La noia intollerabile che il lettore del monotono catalogo del marchese finisce più o meno velocemente per provare, la si ritrova nella lettura di questi piccoli annunci dove si ripetono all’infinito le figure di un piacere senza comunicazione. Il desiderio sadiano mira all’assoluta reificazione dell’altro, cera molle su cui imprimere i propri fantasmi. Atteggiamento mortifero: annientare l’alterità, rifiutare di dipendere dal desiderio dell’altro, sono la ripetizione dell’identico e la morte. Ma, mentre gli eroi sadiani s’impegnano a rompere i freni sociali, l’uomo moderno, nella sua logica di pieno godimento individuale, è divenuto la propria cera da plasmare. Non è trascinato dal suo desiderio, «realizza i suoi fantasmi». O piuttosto, cerca di realizzarli, come si fa jogging invece di correre per diletto o perché si ha bisogno di recarsi rapidamente da qualche parte. L’uomo moderno non si perde nell’altro, fa funzionare e sviluppare le sue capacità di godimento, la sua attitudine all’orgasmo. Fiacco domatore del suo proprio corpo, gli dice: «Godi!», «meglio di così», «corri!», «danza!» ecc.
Per l’uomo moderno, l’obbligo del lavoro è sostituito da quello di un tempo libero «riuscito», la costrizione sessuale dalla difficoltà di affermare un’identità sessuale. La cultura narcisista va di pari passo al cambiamento di funzione della religione: quest’ultima, invece di evocare una trascendenza, diventa un modo per facilitare il passaggio dei momenti di crisi della vita (adolescenza, matrimonio, morte). La religione del resto non basta ad aiutare gli uomini a essere moderni: occorre loro anche il richiamo alla famiglia! «Una famiglia non iper-presente, come nel secolo scorso, ma iper-assente. Essa si definisce non attraverso l’etica del lavoro o del vincolo sessuale, ma attraverso l’etica della sopravvivenza e della promiscuità sessuale.» Così parla uno psicologo, Christopher Lasch (1).
Al centro della crisi della moralità che domina le società occidentali, gli uomini sono meno armati che mai per risolvere la «questione sessuale». Ed è precisamente il momento nel quale essa si pone in tutta la sua crudezza, e nel quale si hanno dunque le maggiori possibilità di accorgersi che questa «questione» non è a sé.
L’uomo moderno si sgomenta, ed è tanto più perduto dinanzi alla mercificazione di tutta la vita che si attacca al sesso maltrattato da duemila anni, che risorge solo per farsi merce. Ci si accorge allora che l’esercizio ininterrotto dei sensi («La Grande Abbuffata») nel mondo della merce, isola ancor più l’individuo, dall’umanità, dai suoi compagni e da se stesso. Si ritorna alla fin fine al cristianesimo, poiché si approda all’idea di una sessualità alienante e mortifera.
L’opera di Georges Bataille, per esempio, è rivelatrice di questa evoluzione del mondo occidentale dopo l’inizio del secolo. Al contrario della storia della civiltà, Bataille parte dalla sessualità per approdare alla religione. Dall’Occhio (1929) alla fine della sua vita, passa la sua esistenza a cercare l’implicito dell’Occhio. La sua traiettoria incrocia il movimento rivoluzionario e se ne allontana tanto più velocemente e facilmente dato che questo movimento sparisce quasi completamente. Nondimeno, negli ultimi anni del periodo fra le due guerre, egli ha avuto il tempo di difendere delle posizioni di fronte all’antifascismo e alla minaccia di guerra, che risaltano sovente per la loro lucidità rispetto allo sproloquio della grande maggioranza dell’estrema sinistra. È per questo che la sua opera è ambigua. Si può utilizzarla come spiegazione delle impasses religiose a cui approda l’esperienza-limite della sessualità sfrenata: «una casa chiusa è la mia vera chiesa, la sola abbastanza inquietante» (2).
Ma se, nel passo succitato, come nella maggior parte della sua opera, Bataille si limita a contraddire i valori accettati, a rifinire una nuova versione del satanismo, è anche arrivato a scrivere delle frasi che rivelano un’intuizione profonda degli aspetti essenziali del comunismo: «intendere la perversione e il crimine non come valori esclusivi ma da integrare nella totalità umana» (3).

L’estasi
Attraverso le costruzioni culturali a cui ha dato origine (amore greco, amor cortese, sistemi di parentela, contratto borghese ecc.), la vita affettiva e sessuale non ha cessato di essere una posta in gioco, matrice di passioni, zona di contatto di un’altra sfera culturale: il sacro. Nella trance, nell’estasi, nel sentimento di comunione con la natura, si esprime in modo parossistico l’aspirazione a superare i limiti dell’individuo. Sviata verso il cosmo o la divinità, fino a oggi quest’aspirazione a fondersi nella specie ha assunto i panni prestigiosi del sacro. Le religioni, e particolarmente le religioni monoteiste, si sono impegnate a circoscrivere il sacro e ad attribuirgli un ruolo conduttore nel mentre lo ponevano lontano dalla vita umana. Al contrario delle società primitive, nelle quali il sacro è inseparabile dalla vita quotidiana, le società statali l’hanno sempre più specializzato. La civiltà capitalista non ha liquidato il sacro, lo ha rimosso, ed i suoi molteplici residui e surrogati continuano a ingombrare la vita sociale. Di fronte a un mondo dove coesistono anticaglie religiose e banalizzazione mercantile, la critica comunista procede con un doppio movimento: al tempo stesso deve desacralizzare, cioè scovare i vecchi tabù là dove si sono rifugiati, e abbozzare un superamento del sacro, che il capitalismo non ha fatto altro che degradare.
Dunque, desacralizzazione delle zone dove si sono rifugiati i vecchi feticci, come ad esempio il pube. Contro l’adorazione del pene, contro il suo imperialismo conquistatore, le femministe non hanno trovato di meglio che feticizzare il sesso delle donne, con gran supporto di pathos e di letteratura, per farne il segno della loro differenza, la piega oscura ove dimora il loro essere! Lo stupro diviene allora il crimine dei crimini, un attentato ontologico. Come se infliggere a una donna la penetrazione di un pene con la violenza fosse più disgustoso che forzarla alla schiavitù salariale attraverso la pressione economica! Ma è vero che nel primo caso il colpevole è facile da trovare: è un individuo, mentre nel secondo caso, è un rapporto sociale. È più facile esorcizzare la propria paura facendo dello stupro una bestemmia, l’irruzione nel sancta sanctorum. Come se la manipolazione pubblicitaria, le innumerevoli aggressioni fisiche del lavoro o la schedatura da parte degli organismi di controllo sociale non costituissero delle violenze intime altrettanto profonde che un coito imposto!
Alla fin fine, ciò che spinge il somalo a strappare la clitoride della sua donna e ciò che muove le femministe proviene dalla medesima concezione dell’individualità umana come oggetto possibile di un rapporto di proprietà. Il somalo, convinto che la sua donna faccia parte del bestiame, crede sia suo dovere proteggerla dal desiderio femminino, dannoso parassita per l’economia del gregge. Ma, così facendo, accorcia singolarmente e impoverisce il proprio piacere, il proprio desiderio. Nella clitoride della donna, è il desiderio umano che è preso di mira simbolicamente, tutti i sessi confusi. Questa donna mutilata, è dell’umanità stessa a essere amputata. La femminista che grida che il suo corpo le appartiene vorrebbe badare al proprio desiderio da sé ma, quando desidera, entra in una comunità nella quale l’appropriazione si dissolve.
«Il mio corpo è mio»: questa rivendicazione pretende di dare un contenuto concreto ai Diritti dell’Uomo del 1789. Non si è ripetuto che essi concernono solo un uomo astratto e non producono in definitiva che l’individuo borghese!? Si dirà oggi: borghese, maschio, bianco, adulto. Il neo-riformismo pretende di correggere questa lacuna attivandosi per dare un contenuto reale a questo «uomo» finora astratto. I diritti «reali» dell’uomo «reale», insomma. Ma l’«uomo reale» non è altro che la donna, l’ebreo, il corso, l’omosessuale, il vietnamita ecc. «Il mio corpo è mio» è nella linea di una rivoluzione borghese che si tenta di completare, di perfezionare indefinitamente invitando la democrazia a cessare di essere «formale». Si criticano qui gli effetti invece della loro causa.
L’esigenza di una proprietà sul proprio corpo individuale rinnova la rivendicazione borghese del diritto di proprietà. Per sfuggire all’oppressione secolare delle donne trattate un tempo dal loro marito (e oggi ancora, sotto altre forme) come oggetto di possesso, il femminismo non trova niente di meglio che allargare il diritto di proprietà. Che la donna a sua volta divenga proprietaria, così sarà protetta: a ciascuno il suo! Rivendicazione miserabile, in cui si riflette l’ossessione della «sicurezza» che i mass media e tutti i partiti si sforzano di far condividere ai nostri contemporanei. Rivendicazione nata in un orizzonte chiuso all’interno del quale per dominare qualcosa (in questo caso, il proprio corpo) non si può immaginare altro modo dall’appropriazione privativa. Il nostro corpo è di coloro che ci amano, e questo non in virtù di un «diritto» garantito giuridicamente, ma perché, carne ed emozione, noi non viviamo e non ci muoviamo se non in funzione degli altri. E, nella misura in cui noi sappiamo e possiamo amare la specie umana, il nostro corpo le appartiene.
Contemporaneamente alla desacralizzazione, la critica comunista deve denunciare l’utopia capitalista di un mondo dove non si potrà più amare da morire, dove, essendo stata appiattita ogni cosa, tutto si equivarrà e si scambierà. Fare dello sport, baciare, lavorare, nello stesso tempo quantificato, tagliato come un salame: il tempo industriale. I sessuologi saranno lì a guarire tutte le debolezze della libido, gli psicoteraupeuti a evitare ogni sofferenza psichica e la polizia, sostenuta dalla chimica, a prevenire ogni sconfinamento; in quel mondo, non esisterà più la sfera dell’attività umana che, essendo la posta in gioco capace di rimettere in causa tutta la vita, potrebbe dare un altro ritmo al tempo.
È l’illusione astorica a fondare le pratiche mistiche e pericolose. Di fatto, di esse ci sta a cuore solo ciò che, per definizione, non è propriamente loro: il comunicabile. Non si esce dalla storia ma essa, quella dell’individuo come quella della specie, non è nemmeno il puro svolgimento lineare che il capitalismo s’impegna a produrre, e a far credere di produrre. La storia comporta degli apogei che vanno al di là e al di qua del presente, degli orgasmi che si perdono nell’altro, nella socialità e nella specie.
«Il cristianesimo ha sostanziato il sacro ma la natura del sacro [...] è forse ciò che si produce di più inafferrabile tra gli uomini, il sacro non è che un momento privilegiato di unità di comunione, momento di comunicazione convulsiva di ciò che ordinariamente viene soffocato»(4).
Questo momento di «unità di comunione», lo si ritrova oggi in un concerto, nel panico che s’impadronisce di una folla e, nella sua forma più degradata, nei grandi slanci patriottici e in altri sussulti dell’Union Sacrée: la sua manipolazione permette ogni mascalzonata. Si può presumere che nella guerra moderna, a differenza di ciò che accade nei Paesi capitalisti arretrati come l’Iran, solo una minoranza parteciperà, il resto guarderà. Ma niente è sicuro; la manipolazione del sacro ha forse ancora dei giorni radiosi davanti a sé, poiché fino a oggi il sacro ha rappresentato il solo momento intenso offerto alla manifestazione di questo bisogno irreprimibile dell’uomo: essere insieme.
Oltre a fornire una nicchia più o meno immaginaria al riparo dalla lotta di classe, le pratiche mistiche hanno potuto servire a cementare delle rivolte, come dimostrato per esempio dal ruolo della trance taoista nella resistenza al potere centrale dell’antica Cina, del vudu nelle insurrezioni degli schiavi o dei profetismi millenaristi. Se le ricerche mistiche contemporanee giocano un ruolo controrivoluzionario, giacché sono solo una delle forme del ripiegamento su sé stesso dell’individuo borghese, questo non toglie che la banalizzazione mercantile di tutti gli aspetti della vita tenda a svuotare l’esistenza del suo contenuto passionale. Il mondo in cui viviamo ci propone di amare solo un’accozzaglia di insufficienze individuali. Confrontato con le società tradizionali, questo mondo ha perduto una dimensione essenziale della vita umana: i tempi intensi dell’unione dell’uomo con la natura. Siamo condannati a guardare le feste dei raccolti in tivù.
Ma noi non ne vogliamo sapere di un ridicolo passatismo, di un ritorno a delle gioie di cui la storia ci ha fatto scoprire il carattere ripetitivo, ingannevole e limitato. Allorché il capitale tende a stabilire il suo regno assoluto, cercare altrove rispetto alla rivoluzione l’«unità di comunione» e la «comunicazione convulsiva», diviene puramente reazionario. Il fatto che il capitalismo abbia banalizzato tutto, ci offre l’occasione di liberarci di questa sfera specializzata, la sessualità. Noi vogliamo un mondo in cui l’impeto fuori di sé esista come possibilità in tutte le attività umane – un mondo che ci proponga la specie come oggetto di amore, e degli individui le cui insufficienze saranno quelle della specie e non più quelle del mondo. La posta oggi in gioco, ciò che merita il rischio della morte, ciò che potrebbe donare un altro ritmo al tempo, è il contenuto della vita tutta intera.

Il crimine
«Che la storia non abbia alcun senso, ecco di cosa ci rallegriamo. Ci tormentiamo per una soluzione felice del divenire, per una festa finale di cui solo le nostre fatiche e i nostri disastri faranno le spese? Per dei futuri idioti saltellanti sulle nostre ceneri? La visione di un compimento paradisiaco oltrepassa, nella sua assurdità, le peggiori divagazioni dello spirito. Tutto ciò che sarà addotto a pretesto, a giustificazione dei Tempi, è che si trovi qualche momento più proficuo di altri, accidenti senza conseguenze nell’intollerabile monotonia delle perplessità.» (E.M. Cioran, Précis de décomposition)
Il comunismo non è un compimento paradisiaco.
Innanzitutto, identificare il comunismo in un paradiso porta ad accettare tutto nell’attesa. In caso di rivoluzione sociale, si ammetterà di non cambiare da cima a fondo la società: una società senza Stato né prigione, d’accordo, però più tardi... quando gli uomini saranno perfetti. Fino ad allora, tutto si giustifica: Stato operaio, prigioni del popolo etc., poiché il comunismo non si confarebbe che a un’umanità di dèi.
C’è poi una visione tranquillizzante della società desiderabile che toglie la voglia di desiderarla. Ogni comunità, quali che siano le sue dimensioni, impone ai suoi membri di rinunciare a una parte di loro stessi e, se si intendono come desideri positivi quelli la cui realizzazione non comprometterebbe la libertà degli altri, ogni comunità costringe ciascuno a lasciare insoddisfatti alcuni dei suoi desideri positivi. Per la semplice e buona ragione che questi desideri non sono per forza condivisibili da uno o altri membri. Ciò che rende sopportabile una tale situazione, è la certezza che, per chiunque giudichi che queste rinunce minino l’integrità stessa della persona, rimarrebbe la possibilità di ritirarsi, il che non accadrebbe senza sofferenza. Ma il rischio della sofferenza e della morte non è indispensabile alla pienezza del senso della vita?
Che l’umanità, giocando con le leggi della materia, rischi di annientarsi, e con essa ogni vita sul pianeta, non è ciò che ci tormenta. L’insopportabile, è che lo faccia nell’incoscienza assoluta e, per così dire, suo malgrado, poiché ha creato il capitale che le impone le sue proprie leggi inumane. È tuttavia vero che da quando l’uomo ha cominciato a modificare il suo ambiente, lo ha fatto a rischio di distruggerlo e di distruggersi, e che questo rischio sussisterà senza dubbio, quali che siano le forme di organizzazione sociale. Si potrebbe ugualmente concepire un’umanità che, dopo aver dapprima combattuto, poi addomesticato e amato l’universo, decida infine di scomparire, di ritornare al grembo della natura sotto forma di polvere. In ogni caso, non vi è umanità senza rischio, poiché non vi è umanità senza l’altro. Lo si verifica bene nel gioco delle passioni.
Se non facciamo molta fatica a immaginare che una società meno rigida sarà in grado di dare alle donne e agli uomini (agli uomini condannati dopo rivoluzione borghese a portare solo abiti da lavoro!) l’occasione di essere più belli, di praticare dei rapporti di seduzione al tempo stesso più semplici e più raffinati, non possiamo comunque impedirci di sbadigliare all’evocazione di un mondo nel quale tutti piaceranno a tutti, dove si potrà baciare come ci si stringe la mano, senza che ciò impegni ad alcunché (è proprio questo il mondo che ci promette la liberalizzazione dei costumi). Karl continuerà dunque, con tutta probabilità, a piacere a Jenny più di Friedrich. Ma sarebbe come credere ai miracoli immaginare che non accadrà mai che Friedrich provi desiderio per Jenny senza che lei lo corrisponda. Il comunismo non garantisce affatto la concordanza di tutti i desideri. E la tragedia reale del desiderio non corrisposto parrebbe il prezzo insuperabile da pagare perché il gioco della seduzione resti appassionante. Non in virtù del principio del vecchio stupido detto «ciò che si ottiene senza pena non ha valore», ma perché il desiderio include l’alterità dell’altro e dunque, la sua possibile negazione. Niente gioco sociale e umano senza posta in gioco e senza rischio! Ecco l’unica norma che sembra insuperabile. A meno che la nostra immaginazione scimmiesca, che resta dipendente dal vecchio mondo, ci impedisca di comprendere l’uomo.
Ciò che rende Fourier meno noioso della maggior parte degli altri utopisti è che, oltre a un inventario molto poetico e molto intenso dei possibili, il suo sistema integra la necessità dei conflitti. Noi sappiamo che la quasi totalità dei casi considerati crimini o delitti dal vecchio mondo non sono che cambiamenti bruschi di proprietario (il furto), incidenti della concorrenza (l’omicidio di un cassiere di banca) o il prodotto della miseria dei costumi. Ma, in un mondo senza Stato, non è inimmaginabile che l’esacerbazione delle passioni possa condurre un uomo a far soffrire o a uccidere un altro uomo. In un tale mondo, la sola garanzia che un uomo non ne torturi un altro, dipenderà dal fatto che egli non ne provi il bisogno. Ma se lo prova? Se torturare lo diverte? Sbarazzati delle vecchie rappresentazioni del tipo «occhio per occhio, dente per dente», «prezzo del sangue» etc., una donna il cui amante sia stato ucciso, un uomo la cui amata torturata, giudicheranno, malgrado la loro rabbia, certo stupido uccidere qualcuno, vederlo rinchiuso, per compensare fantasmaticamente la perdita subita – forse... Ma se il desiderio di vendetta prevale? E se l’altro continua a uccidere?
Nel movimento operaio, gli anarchici sono senza dubbio tra i pochi a essersi posti concretamente il problema di una vita sociale senza Stato. La risposta di Bakunin non è davvero convincente: «Abolizione assoluta di tutte le pene degradanti e crudeli, delle punizioni corporali e della pena di morte, in quanto consacrate ed eseguite dalla legge. Abolizione di tutte le pene a termine indefinito o troppo lunghe che non lasciano alcuna possibilità di riabilitazione: il crimine dovrebbe essere considerato come una malattia eccetera». Parrebbe di leggere il programma del Partito Socialista quando non era ancora al potere. Ma il seguito è più interessante: «Ogni individuo, condannato dalla legge di una qualsiasi società – comune, provincia o nazione – conserverà il diritto di non sottomettersi affatto alla pena che gli sarà stata imposta, dichiarando che non vuole più far parte di questa società. Ma, in questo caso, quest’ultima avrà a sua volta il diritto di espellerlo dal suo grembo e di dichiararlo al di fuori della sua garanzia e della sua protezione. Ricaduto così sotto la legge naturale “occhio per occhio, dente per dente”, almeno sul territorio occupato da questa società, il refrattario potrà essere derubato, maltrattato, anche ucciso senza alcuna preoccupazione. Ciascuno potrà liberarsene come di una bestia malefica, mai però asservirlo né impiegarlo come schiavo» (5).
Questa soluzione ricorda l’atteggiamento dei primitivi: l’individuo che ha infranto un tabù non è mai più preso sul serio, si ride ogni volta che apre bocca, oppure deve partire per la giungla, o diventa invisibile etc. In tutti i casi, espulso dalla comunità, è votato a una morte prossima.
Se si tratta di distruggere le prigioni per ricostruirle più ariose e un po’ meno rigide, che non si conti su di noi. Saremo sempre a fianco del refrattario. Poiché, cos’è una pena «troppo lunga»? Non è necessario esserci marciti in galera per sapere che in prigione il tempo è, per definizione, sempre troppo lungo. Ma se si tratta di rimpiazzare la galera con un allontanamento ancora più radicale, che non si conti a maggior ragione su di noi. Quanto a trattare il crimine come una malattia, è questa la strada che porta al totalitarismo del neurolettico o del discorso psichiatrico.
«È curioso constatare che basta perdere la propria “serietà” (nella qual cosa un uomo non invecchiato anzitempo potrebbe rivaleggiare con il più terribile dei bambini) per trovare simpatici i più infimi briganti. L’ordine sociale tenderebbe a una risata? [...] La vita non è una risata, affermano, non senza la più comica gravità, gli educatori e le madri di famiglia ai bambini stupiti [...]. Io immagino tuttavia che nello sfortunato cervello oscurato da questo misterioso ammaestramento, un paradiso ancora rutilante cominci con un formidabile rumore di stoviglie rotte [...] il piacere senza freno dispone di tutti i prodotti del mondo, tutti gli oggetti gettati in aria sono da rompere come dei giocattoli» (6).
Che fare dei distruttori di stoviglie? Oggi, è impossibile rispondere a questa domanda, e ugualmente non è sicuro che in una società senza Stato vi si trovi una risposta soddisfacente. L’uomo che rifiuta il gioco, che rompe le stoviglie, che è pronto a correre il rischio di soffrire, persino a morire, per il semplice gusto di rompere il legame sociale, tale è il rischio senza dubbio insuperabile al quale va incontro una società che rifiuti d’espellere dal grembo dell’umanità chicchessia, per quanto asociale. I danni che la società dovrà subire saranno sempre meno grandi di quelli ai quali si esporrebbe facendo dell’asociale un mostro. Per salvare qualche vita, per quanto «innocente», non bisogna che il comunismo perda la sua ragion d’essere. Constatiamo che, fino a oggi, le mediazioni concepite per evitare o addolcire i conflitti e mantenere l’ordine interno alla società, hanno provocato un’oppressione e delle perdite umane infinitamente più grandi di quelle che si riteneva avrebbero impedito o limitato. Nel comunismo, nessuno Stato alternativo, nessun «non-Stato», che sarebbe ancora uno Stato.
«La repressione delle reazioni antisociali è, oltre che chimerica, inaccettabile come principio»(7).
La questione non è soltanto importante per un lontano avvenire. È anche una posta in gioco in un periodo di turbamenti sociali. Pensiamo alla sorte riservata ai saccheggiatori e ai ladri durante le sommosse del XIX secolo, all’ordine morale che queste sommosse riproducevano al loro interno. Ugualmente, nella Russia dei primi tempi della rivoluzione, a un formidabile movimento di trasformazione dei costumi, si è giustapposto un «Codice matrimoniale bolscevico», di cui il solo titolo è tutto un programma. Ogni periodo più o meno rivoluzionario porterà alla nascita di gruppi a metà strada tra la sovversione sociale e la delinquenza, a temporanee ineguaglianze, ad accaparratori, a profittatori e, soprattutto, a tutta una gamma di condotte sfumate che sarà difficile qualificare come «rivoluzionarie», «di sopravvivenza», «controrivoluzionarie» ecc. La comunizzazione progressiva risolverà queste questioni ma in una, due generazioni, forse più. Fino ad allora, occorrerà prendere delle misure, non nel senso di un «ritorno all’ordine», che sarà uno degli slogan chiave di tutti gli antirivoluzionari, ma sviluppando ciò che costituisce l’originalità del movimento comunista: essenzialmente, esso non reprime, sovverte.
Questo significa innanzitutto che utilizza solo la quantità di violenza strettamente necessaria per raggiungere i suoi scopi; non per moralismo o non-violenza, ma perché tutta la violenza superflua si autonomizza e diviene un fine in sé. Ciò implica quindi che la sua arma è innanzitutto e in primo luogo la trasformazione dei rapporti sociali e la produzione delle condizioni di esistenza. I saccheggi spontanei cessanno d’essere un cambiamento di massa di proprietari, una semplice giustapposizione di appropriazioni privative, se si costituisce una comunità di lotta tra i saccheggiatori e i produttori. A questa condizione solamente, il saccheggio può essere il punto di partenza di una riappropriazione sociale delle ricchezze e di una loro utilizzazione in una prospettiva più ampia del puro e semplice consumo (il quale non è in sé condannabile, non essendo la vita sociale che attività produttiva, quindi anche consumo e consumazione; e se i poveri vogliono procurarsi dapprima qualche piacere, chi altri oltre ai preti penserà a rimproverarli?). Quanto agli accaparratori, se saranno necessarie talvolta delle misure violente, sarà per recuperare i beni e non per punire. In tutti i casi, è solo estendendo il regno della gratuità che si toglierà loro di fatto ogni possibilità di nuocere. Se il denaro non è che carta, se non si può più convertire in denaro ciò che si accaparra, a che fine accaparrare?
Più una rivoluzione si radicalizza, e meno ha bisogno di essere repressiva: noi l’affermiamo tanto più volentieri in quanto per il comunismo, la vita umana, come sopravvivenza biologica, non è il valore supremo. È il capitalismo che ci impone questo mostruoso imbroglio: la sicurezza di una sopravvivenza massima in cambio di una sottomissione massima all’economia. Eppure, un mondo in cui ci si deve nascondere per scegliere l’ora della propria morte non è radicalmente devalorizzato?
Nel comunismo, non si parte dai valori che ci si dà, ma dai rapporti reali nei quali si vive. Ogni gruppo pratica, rifiuta, ammette, impone certi atti e non altri. Prima di avere dei valori, e per averli, ci sono delle cose che si fanno o non si fanno, si impongono o si vietano.
Nelle società contraddittorie e classiste, l’interdetto è fissato e, al contempo, fatto per essere aggirato o violato. I divieti delle società primitive, e in una certa misura delle società tradizionali, non costituiscono, propriamente parlando, una morale. Valori e divieti vi sono riprodotti in ogni istante attraverso ogni atto della vita sociale. Quando lavoro e vita privata si oppongono sempre più radicalmente, allora s’impone la questione dei costumi, che diviene lancinante nel XIX secolo in Europa, con lo sviluppo di ciò che i borghesi chiamavano le classi pericolose. Bisogna contemporaneamente che l’operaio sia reputato libero di andare al lavoro (per giustificare la libertà del capitalista di rifiutarglielo), e che la morale lo mantenga in buone condizioni spiegandogli che egli non deve spassarsela e che il lavoro è la sua dignità. Non c’è morale se non perché vi sono dei costumi, cioè un dominio che la società lascia teoricamente a disposizione dell’individuo, ma che allo stesso tempo si impegna a legiferare dall’esterno.
La legge (religiosa, poi statale) presuppone lo scarto. Qui è la differenza con il comunismo dove non si ha bisogno di legge intangibile che ciascuno sa non verrà rispettata. Nessun assoluto, se non forse la priorità della specie – che non significa la sua sopravvivenza. Nessuna regola falsamente universale. Ogni morale razionalizza a posteriori, come il diritto, l’ideologia. Essa si vuole e si dice sempre fondamento della vita sociale; nel mentre si vuole essa stessa senza fondamento, dal momento che poggia solo su Dio, sulla natura, sulla logica, sul bene sociale... cioè un fondamento inesistente poiché non si può rimetterlo in discussione. Le regole che si daranno (in un modo che non possiamo prevedere) gli esseri umani nel comunismo deriveranno dalla socialità comunista. Esse non costituiranno una morale in quanto non pretenderanno una illusoria universalità nel tempo e nello spazio. Le regole del gioco comprenderanno la possibilità di giocare con le regole.
«La rivolta è una forma di ottimismo appena meno ripugnante dell’ottimismo corrente. La rivolta, per essere possibile, presuppone che si prenda in considerazione la possibilità di reagire, cioè che vi sia un ordine di cose preferibile e al quale bisogni tendere. La rivolta stessa, considerata come un fine, è ottimista, significa considerare il cambiamento, il disordine come qualche cosa di soddisfacente. Non posso credere che ci sia qualcosa di soddisfacente. [...]
Domanda: – Secondo voi, il suicidio è un ripiego?
– Esattamente, è un ripiego antipatico quasi quanto un mestiere o una morale»(8).
Tutta una letteratura nichilista ha sviluppato il punto di vista del «distruttore di stoviglie», del refrattario a ogni legame sociale, con il gusto della morte come corollario obbligato. Ma la bella musica dei pensatori nichilisti non ha impedito alla maggior parte di essi di perdersi nei rumori della vita quotidiana fino a un’età rispettabile. Incoerenza che conforta l’idea che il refrattario assoluto sia soltanto un mito letterario. Quanto ai rari individui che come Rigaut scelsero il ripiego del suicidio, o come Genet gustarono davvero l’abiezione, essi vissero questo mito come una passione. Ma che senza dubbio siano esistiti dei mistici sinceri non prova in nessun modo l’esistenza di Dio. Questi «refrattari» nutrono un elitismo che è fin dall’inizio una posizione falsa. Il fatto più grave non è che si credano superiori, ma che si pensino come differenti dal resto dell’umanità. Si vogliono osservatori di un mondo dal quale sarebbero in disparte, mentre si può comprendere solo ciò a cui si partecipa. L’esteriorità si crede lucida, invece cade nella peggiore trappola; Bataille stesso lo dice:
«[...] Io non ho mai potuto guardare l’esistenza con il dispregio distratto dell’uomo solo»(9).
«Poiché è l’agitazione umana, con tutta la volgarità dei piccoli e dei grandi bisogni, con il suo disgusto aperto per la polizia che la soffoca, l’agitazione di tutti gli uomini (esclusa questa polizia e gli amici di questa polizia), che sola condiziona le forme mentali rivoluzionarie, in opposizione alle forme mentali borghesi»(10).
Il mito del refrattario ha talvolta ingombrato la teoria rivoluzionaria: si veda la fascinazione dei situazionisti per i fuorilegge in generale, e per Lacenaire in particolare, fascinazione portata al suo culmine nell’affliggente ultimo film di Debord. Ma se questo mito deve essere criticato, è anche perché si limita a contraddire, e tende dunque a corroborare, la produzione di mostri affascinanti da parte delle società di classe.
Su questo oceano di zombies nel quale siamo immersi, corre talvolta un brivido di passione, quando si dà in pasto ai cittadini un essere radicalmente estraneo, qualcosa che ha la forma di un uomo ma al quale si nega ogni umanità reale. Per il nazi, era l’ebreo, per l’antifascista, è il nazi. Per le folle contemporanee, sono i terroristi, i malviventi o gli assassini di bambini. Allorché si tratta di braccare questi mostri e di determinarne il castigo, le passioni infine risorgono e le fantasie che si credevano sopite galoppano. Peccato che questo tipo d’immaginazione e le sue raffinatezze siano proprio quelle che si attribuiscono al mostro garantito non umano: il carnefice nazista.
Non si sono potuti costringere tutti a rispettare una legge che è in contraddizione con il funzionamento reale dei rapporti sociali. Non si è potuto impedire l’omicidio quando c’erano motivi per uccidere. Non si è potuto prevenire il furto quando c’erano delle ineguaglianze e che il commercio si fondasse sul furto. Allora, si esemplifica concentrandosi su di un caso. Di più: si esorcizza la parte di sé che avrebbe voluto essere il carnefice di quei corpi senza difesa o l’assassino-violatore di questi bambini. La parte d’invidia nel grido di odio della folla non ha bisogno di essere messa in evidenza. Salta agli occhi, persino a quegli occhi fatti per non vedere, quelli dei giornalisti.
Al contrario, il comunismo è una società senza mostro. Senza mostro, perché ciascuno infine, nei desideri e negli atti degli altri, riconoscerà altrettante figure possibili dei propri desideri e del proprio essere uomo. «L’essere umano è la vera Gemeinwesen dell’uomo» (Karl Marx): la parola Gemeinwesen, o essere collettivo, esprimono il nostro movimento molto meglio della parola comunismo, che non si associa di primo acchito se non a una messa in comune delle cose. La frase di Marx merita ulteriori sviluppi e vi torneremo. Per ora accontentiamoci di vedere in questa frase la critica dell’umanismo borghese. Mentre l’uomo onesto di Montaigne può essere tutti gli uomini, grazie alla mediazione della cultura, l’uomo comunista sa, per pratica, di poter esistere com’è solo perché tutti gli altri esistono come sono.
Ciò non significa per nulla che nessun desiderio debba essere represso [dal soggetto]. Repressione e sublimazione impediscono di cadere nel rifiuto dell’alterità. Ma il comunismo è una società senz’altra garanzia che il libero gioco delle passioni e dei bisogni, mentre la società capitalista è presa dal delirio della sicurezza che essa vorrebbe garantire contro tutti i rischi della vita, ivi compresa la morte. Tutti i pericoli e i rischi possibili dovrebbero essere «coperti da assicurazione», al di fuori dei «casi di forza maggiore» – guerra e rivoluzione – e ancora... Il solo avvenimento contro il quale il capitalismo non può fornire un’assicurazione, è la sua propria scomparsa.

* * *

Quando si ha la pretesa di articolare una critica globale del mondo, non si saprà accettare che la critica si limiti alla pura teoria. Ci sono periodi nei quali l’attività sovversiva si riduce quasi interamente alla redazione di testi o a scambi di punti vista tra individui. È dentro questo «quasi» che si spiega il nostro disagio: per continuare a gettare uno sguardo lucido sul mondo, occorre essere abitati da una tensione che non è facile da affrontare, poiché implica rifiuto, una certa marginalizzazione, una grande sterilità. Questo rifiuto, questa marginalizzazione e questa sterilità contribuiscono a mantenere la passione tanto quanto tendono a irrigidirla in acidità misantropica o in mania intellettuale. Colui che rifiuta l’organizzazione del mondo da parte del capitale non considera alcuno degli atti di cui è intessuta la vita sociale come scontato. Le stesse manifestazioni del dato biologico non sono al riparo dal suo tormento! Accettare di procreare gli parrà sospetto – come voler partorire in un mondo simile, dal momento che non si vuole ponderare una possibilità di cambiarlo?
Tuttavia, al di là di qualche semplice principio – non partecipare alle imprese di mistificazione o di repressione (né sbirri, né divi), non far carriera –, non si può pretendere di fissare in modo preciso e definitivo le forme del rifiuto. Per la critica radicale, non ci sono costumi buoni, ve ne sono semplicemente di peggiori di altri; e vi sono certi comportamenti che mutano la teoria in derisione. Volersi rivoluzionario in un periodo non rivoluzionario: ciò che conta non sono tanto i risultati di questa contraddizione, forzatamente parcellari e mutilanti, quanto la contraddizione stessa e la tensione del rifiuto.
A che pro criticare la miseria dei costumi se deve permanere? Il nostro modo di essere non ha senso se non in rapporto al comunismo. Perché alla citazione di Cioran con la quale abbiamo aperto questa sezione, conviene rispondere che le fatiche e i disastri realmente insopportabili sono quelli che non ci appartengono e che ci sono imposti da questo mondo. La sola giustificazione che noi troviamo al tempo che ci uccide, è la storia che ci offrirà la sua rivincita. Il senso del nostro modo di essere è la possibilità che il legame sociale non sia garantito da nient’altro che da se stesso, e che ciò funzioni!
Se la crisi si aggrava, ci sarà sempre meno posto per le scelte intermedie. Si potrà sempre meno reclamare «un po’ meno polizia». La scelta sarà sempre più tra ciò che esiste, o niente polizia del tutto. È allora che l’umanità dovrà davvero dimostrare se ama la libertà.
Amore. Estasi. Crimine. Tre prodotti storici nei quali l’umanità ha vissuto e vive le sue relazioni e pratiche affettive. L’amore, conseguenza dell’indifferenza e dell’egoismo generalizzati, rifugio in qualche essere privilegiato, per caso e per necessità. È l’impossibile amore dell’umanità che si realizza alla meno peggio in un singolo individuo. L’estasi, escursione al di fuori del profano, del banale, nel sacro, sfuggito, subito recuperato e limitato dalla religione. Il crimine, unica via di uscita quando la norma non può più essere né rispettata né aggirata.
L’amore, il sacro e il crimine sono dei modi di fuggire il presente e di dargli un senso. Positivo o negativo: i tre includono ciascuno attrazione e repulsione, e entrano in una relazione di attrazione e di rifiuto gli uni in rapporto agli altri. L’amore è glorificato ma se ne diffida. Il sacro è per essenza minaccia di profanazione, la chiama per escluderla e, con lo stesso movimento, rafforzarsi. Il crimine è punito ma affascina.
Questi tre modi di trasporto fuori dal quotidiano, il comunismo non li generalizzerà più di quanto li abolirà. Ogni vita (collettiva o individuale) presuppone le sue frontiere. Ma il comunismo sarà amorale per il fatto che non avrà più bisogno di norme fisse, esteriori alla vita sociale. Modi di vita e modelli di comportamento circoleranno, non senza contrasto o violenza, e saranno trasmessi, trasformati e prodotti contemporaneamente ai rapporti sociali. Il sacro scomparirà in quanto separazione assoluta tra un aldiqua e un aldilà. Così, nessuno spazio per la religione: né per quelle di un tempo, né per quelle moderne che non conoscono più dei, ma solo diavoli da espellere dal corpo sociale. La libertà dell’uomo, la sua capacità di modificare la propria natura, lo proiettano al di là di se stesso. Finora, la morale, ogni morale, e tanto più insidiosamente nella misura in cui non si presenta come tale, fa di questi aldilà degli enti che schiacciano l’essere umano. Il comunismo non livellerà la «montagna magica», farà in modo di non esserne dominato. Creerà e moltiplicherà le lontananze e il piacere di perdervisi, ma anche la capacità di farne sorgere di nuove, il che sovverte la sottomissione «naturale» a un qualsiasi ordine del mondo.

NOTE:
1. «Le Monde», 12 aprile 1981.
2. Georges Bataille, Le coupable, pubblicato nel 1944 (Œuvres, V, p. 247).
3. Georges Bataille , 4 aprile 1936 (Œuvres, II, p. 273).
4. Georges Bataille, Le sacré (Œuvres, I).
5. Michail Bakunin, La libertà.
6. Georges Bataille, Les Pieds Nickelés.
7. Lettre aux médecins-chefs des asiles de fous, in «La Révolution Surréaliste», n. 3, 15 aprile 1925.
8. Jacques Rigaut, Testimonianza nell’«Affaire Barrès», Écrits.
9. Georges Bataille, Œuvres, II, p. 274).
10.Georges Bataille, Œuvres, II, pp. 108-9).


12 marzo 2010

L’Aquila, Haiti, Cile: catastrofi sociali

Internazionalisti solidali (2010)


Eventi naturali, effetti sociali.

Il Cile è stato colpito ancora una volta da un terremoto di magnitudo apocalittica, come lo sono stati i terremoti del 1938, del 1960 e del 1985. Con una precisione svizzera, ogni 25 anni la catastrofe si ripresenta. Il terremoto del 27 Febbraio è stato uno dei più forti registrati nella storia: 8,8 Richter.
Il conto stimato dei morti varia tra i 500 e gli 800 e c’è chi dice che una cifra definitiva augurabile sarebbe intorno alle 2.000 vittime. Attualmente si stimano due milioni di persone senza casa, letteralmente in mezzo ad una strada. Città distrutte e due intere regioni (quelle di Maule e Bio-Bio) annichilite.
Così come per il terremoto ad Haiti, o per quello in Abruzzo, o ancora per l’uragano Katrina, che colpì nel 2005 la città di New Orléans, non ci troviamo solamente di fronte all’”incontenibile e disastrosa irruenza delle forze della natura”.
Nell’epoca contemporanea, con una popolazione metropolitana che a livello mondiale ha superato quella rurale, con megalopoli in cui sono ammassate milioni di persone, con quartieri dormitorio e bidonville, con un’organizzazione economica e sociale che determina ogni aspetto delle nostre vite - quindi anche i luoghi in cui abitiamo - niente può ormai accadere senza che vi abbia un ruolo fondamentale il modo in cui è organizzato ciò che è colpito.
Quando l’uragano Katrina si avvicinava alle coste della Louisiana, nella città di New Orléans erano rimasti solo coloro che non avevano un mezzo per scappare, tantomeno una stanza in un albergo a centinaia di km di distanza affittata per tutto l’anno proprio per queste evenienze, come molti cittadini ricchi o benestanti di quella città possono permettersi di avere.
Quando gli edifici e gli ospedali dell’Aquila crollano come castelli di carta anche perché edificati con la sabbia, si può davvero pensare che non vi siano delle responsabilità in chi quegli edifici li ha costruiti, pianificati, pensando alla speculazione e al profitto?
Quando un terremoto colpisce una città come Port-au-Prince, in cui l’80 % della popolazione è sotto gli indici della povertà estrema e l’indigenza porta migliaia di persone a vivere negli slums, nelle favelas, si può davvero pensare che i 200mila morti di Haiti siano da imputare a “cause naturali”?
Quelle che ci vengono descritte unicamente come “catastrofi naturali” non possono esserlo, quanto meno non principalmente, per la banale ragione che questi eventi intervengono in contesti specifici producendo effetti che hanno, in tutto e per tutto, una natura sociale.
Per questo parliamo di catastrofi sociali, proprio perché colpiscono un mondo che è già, in se stesso, una catastrofe, “perché non sono le case dei capitalisti quelle che si afflosciano e crollano, non sono le famiglie dei borghesi quelle che rimangono senza i rifornimenti di prima necessità e non sono nemmeno i nostri padroni quelli che rimangono isolati e senza possibilità di muoversi in città di merda dove il trasporto pubblico svolge una funzione disciplinante di mero trasporto di mercanzia umana” (1).
Per questo sosteniamo che l’urbanismo, l’economia, neppure in questi casi sono innocenti. Il capitalismo è la catastrofe. Il capitalismo è la barbarie.


Gestione dell’emergenza.

"Camionette, ruspe, case sventrate. Tendopoli. (…)
Sono riusciti ad ottenere solo ieri che quelli della protezione civile non potessero
piombargli nelle tende all’improvviso, anche nel cuore della notte, per controllare. (…)
Vietato internet nelle tendopoli. Vietato di distribuire volantini nei campi. (…) La città è completamente militarizzata (…), tutte le zone e i boschi sopra la città sono gremiti di militari. (…) Per entrare nelle tendopoli bisogna subire una serie di perquisizioni umilianti, un terzo grado sconcertante (…) Le tendopoli sono imbottite di droga. I militari hanno fatto entrare qualunque cosa, eroina, ecstasy, cannabis, tutto. E’ come se avessero voluto isolarli da tutto e da tutti (…) l’importante è che all’esterno non trapeli nulla."
(da “Ho visto l’Aquila”, Andrea Gattinoni) (2)

Nelle menzogne dei vertici militari cileni e della presidentessa Bachelet (che negavano il pericolo Tsunami proprio mentre questo arrivava già sulle coste) c’è la stessa volontà di infantilizzazione, di negazione di ogni iniziativa individuale che abbiamo visto nella gestione dei campi dell’Aquila.
Quando le regole civili e sociali saltano quello che lo Stato dimostra - sia mentre aiuta, sia mentre reprime – è la volontà di scongiurare l’organizzazione autonoma delle persone, anche quella più primitiva.
Un’ora dopo il terremoto la Radio Bio-Bio trasmetteva informazioni ufficiali dell’ONEMI (Ufficio Nazionale d’Emergenza) di questa natura: “Terremoto di 8,5 gradi, 95 chilometri a nordest di Concepcion. Si esclude ogni rischio di tsunami”
Alle sei del mattino (due ore dopo il sisma) lo tsunami colpiva le isole di Juan Fernandez.
La zona costiera nei pressi di Concepcion era travolta da onde tra i tre e i venti metri a pochi minuti dal sisma. Impossibile avvertire le coste in questo caso, doveroso invece sarebbe stato avvertire gli abitanti dell’isola di Juan Fernandez – che non potevano aver sentito il sisma - dell’arrivo di un onda di tre metri ma a 500 chilometri all’ora.
Mentre New Orleans era sommersa dall’acqua e dal fango, con centinaia di morti e una popolazione che aveva perso tutto, il governo sospendeva l’invio dei soccorsi per fermare i “saccheggi”, affidando subito dopo ai militari appena rientrati dall’Iraq la gestione dell’ordine pubblico: «Chi saccheggia i supermercati sarà giustiziato sul posto».
In questo momento in Cile, mentre salgono a 2 milioni gli sfollati, mentre chi ha perso tutto cerca di sopravvivere aprendo le porte di supermercati, farmacie, grandi magazzini e prendendosi ciò di cui ha bisogno, lo Stato risponde con le forze dell’ordine, con l’esercito, mandati ad impedire i saccheggi e difendere la proprietà privata; la democrazia progressista risponde con un coprifuoco che in alcune zone è arrivato a 18 ore sulle 24 giornaliere, col divieto di circolare per le strade a persone che non hanno più un altro posto in cui stare.
Precisamente come a New Orléans e a Port-au-Prince mentre dallo Stato tardano ad arrivare – o non arrivano affatto - gli aiuti, vengono mobilitati senza difficoltà migliaia di militari per rendere effettiva la legge marziale (decretata nelle due regioni cilene più colpite dal sisma). Mentre a Concepcìon (BioBio) non arriva l’acqua per le bocche assetate, nessun problema a riempire le cisterne per gli idranti dei tank antisommossa, usati contro i saccheggiatori
I detenuti (tra cui molti prigionieri mapuche) che hanno deciso di non restare a crepare nelle galere cilene che crollano su se stesse, sono ricercati e a volte giustiziati direttamente in strada. Centinaia sono gli evasi in seguito a rivolte, novanta i detenuti catturati in seguito alla fuga e quattro quelli morti negli scontri a fuoco mentre arrivano le notizie dei primi morti ammazzati per non aver rispettato il coprifuoco.
Anche questi sono gli aiuti umanitari del governo cileno.
La verità, lo ha dimostrato il governo italiano all’Aquila, quello statunitense a New Orléans, e l’ONU con l’operazione umanitaria ad Haiti, è che i soldati arrivano sempre prima di tutto, i manganelli e i mitra prima del pane e dell’acqua: l’ordine sociale e il suo mantenimento è sempre, per lo Stato, più importante della vita dei suoi sudditi.


Autorganizzazione e espropriazione.

“Chiedo per cortesia ai media di non parlare più dei saccheggi, ne di riprenderli in diretta, perché quando ne parlano la gente segue l’esempio e va in cerca di luoghi da saccheggiare.”
(Hols Paulmanm, multimiliardario,
padrone di catene di supermercati cileni)

Gli aquilani che qualche giorno fa si sono decisi a violare la zona rossa per ripulirla dalle macerie, ci insegnano che la pazienza ha un limite.
I saccheggiatori cileni, andando a riprendersi direttamente ciò di cui hanno bisogno per sopravvivere, rubando quelle merci che loro stessi, come proletari, hanno prodotto, ci dimostrano che il limite si può superare.
E questo limite si situa precisamente nell’inconciliabilità tra le necessità delle persone e le pretese dello Stato, che nella gestione dell’emergenza vede solo un’occasione per sperimentare nuove ed estreme tecniche di mantenimento dell’ordine e disciplinamento, nella ricostruzione solo nuovi profitti da spartire.
Mentre la disperazione cresce, mentre i padroni si organizzano per proteggere le loro proprietà private con ronde altrettante private, mentre il coprifuoco e i militari riescono solo ad arginare ma non a fermare la banale ma evidentemente intollerabile volontà di vivere dei poveri, la stampa cilena costruisce la solita immagine dello sciacallo, del criminale privo di scrupoli, disposto a far profitto sulla tragedia altrui.
Non potendo screditare e mistificare totalmente i saccheggi messi in atto da fasce vastissime di disperati, questi sciacalli dell’informazione si prodigano nella costruzione di un nuovo steccato morale, distinguendo tra “saccheggiatori buoni” (chi ruba il pane) e “saccheggiatori cattivi” (chi ruba la lavatrice o un plasma). Allo stesso modo, per giustificarne la repressione generalizzata creano il diabolico fantasma delle bande armate, che chiedono il pedaggio per attraversare alcune zone o rubano tra le macerie dei quartieri.
Nel descrivere quella che è senz’altro parte della realtà post-terremoto, ovvero la guerra tra poveri e il nascere di nuove forme di comunità mafiose, dimenticano di raccontare che gli abitanti dei quartieri aggrediti da queste bande si sono, anch’essi, (auto)organizzati (in alcuni casi armandosi) per difendersi da soli; dimenticano di scrivere che spesso il frutto dei saccheggi rifornisce i campi dove si sono rifugiati i terremotati e che questi “criminali” della refurtiva ne stanno facendo un uso comune.
Quello che emerge con evidenza è che alla solidarietà tra i gestori e i guardiani dell’esistente – padroni, Stato, giornalisti –, compatti nella difesa dell’ordine e della proprietà, corrisponde un’altrettanto forte solidarietà tra oppressi, tra poveri, tra diseredati.
Il passato recente ha messo in luce come ci si trovi sempre più spesso di fronte a emergenze sociali che diventano, di fatto, stati di emergenza permanenti: i contingenti militari, il monopolio delle organizzazioni umanitarie, le zone rosse – o i coprifuochi –, l’instaurazione di leggi marziali (3) o la sospensione di fatto del Diritto democratico (5), e il business della ricostruzione rappresentano il solo modo con cui l’emergenza viene gestita.
Dal futuro non possiamo che aspettarci una sempre crescente creazione di emergenze da gestire e, gli alpini nelle strade italiane sono lì per ricordarcelo, un sempre più confuso e labile confine tra stato d’emergenza (o di guerra) e “normalità”. Le dichiarazioni dei vertici militari occidentali non fanno che confermare tali aspettative (5).
Quello che insegnano i fatti cileni è che non vi sono teorie più o meno rivoluzionarie che possano essere indicate a chi si trova nel pieno della tempesta sociale; tanto più che la teoria spesse volte – quello cileno è solo l’ennesimo caso – è ampiamente superata dalle pratiche reali degli sfruttati.
Queste pratiche – l’autorganizzazione, l’espropriazione dei signori di questo mondo, l’azione diretta, l’autodifesa (lo ripetiamo: anche armata) di fronte ad un’occupazione militare e al risorgere di nuove forme di capitalismo primitivo (quello mafioso), la solidarietà concreta tra oppressi –, sono ciò che possiamo imparare e riconoscere come uniche vie di fuga possibili dalla catastrofe che è l’organizzazione sociale in cui viviamo, perché rappresentano la negazione di questo mondo, il suo rifiuto.
E’ di questo che parlano, coi fatti, tra le macerie, le strade cilene.
E’ questo che urlano, con determinazione e coraggio, gli uomini e le donne di Concepcion.
Il capitalismo è la catastrofe. Il capitalismo è la barbarie.

internazionalisti solidali
 

Note:
(1) Da "A convertir en ruinas y escombros la sociedad de clases", www.hommodolars.org. Trad. italiana su: http://liguria.indymedia.org/node/5153
(2) "Ho visto l’Aquila. Lettera a mia moglie", http://abruzzo.indymedia.org/article/6521
(3) A New Orlèans, in Cile, ad Haiti.
(4) A l’Aquila, ma anche nelle banlieues parigine durante le sommosse del 2005.
(5) Vedi il documento Nato “Urban Operations in the year 2020”, ma anche: “La guerra del futuro si giocherà nelle strade, nelle fogne, nei grattacieli, nelle zone abitate tentacolari ed anarchiche che costituiscono le città cadenti del pianeta. La nostra storia militare recente è costellata da nomi di città - Tuzla, Mogadiscio, Los Angeles, Beirut, Panama, Hué, Saigon, Santo Domingo — ma tutti questi combattimenti saranno stati solo un prologo: il vero dramma deve ancora arrivare.” (Maggiore Ralph Peters dell’Army War College, 1996).

7 marzo 2010

Il comunismo è la comunità materiale umana: Amadeo Bordiga oggi

di Loren Goldner (1991)

In questo breve saggio, l'Autore, appoggiandosi sulle riflessioni di Bordiga intorno alla “questione agraria”, mette in rilievo la discontinuità assoluta tra il progetto di emancipazione umana condensato nell'opera di Marx – espressione del movimento reale incarnato dal moderno proletariato – e il “materialismo volgare”, di derivazione borghese e illuministica, che innerva il marxismo statolatrico della II, III e IV Internazionale – visione del mondo e traduzione ideologica delle aspirazioni di un'intellighenzia che, nei paesi dell'Europa centrale e orientale, aveva assunto su di sé il compito storico di portare a compimento la rivoluzione borghese, facendosi carico della gestione del passaggio dalla fase del dominio formale a quella del dominio reale del capitale. In stretta connessione con questo, che è il nucleo centrale della tesi di Goldner, il saggio mostra ancora come il pensiero marxiano, se da un lato indubbiamente contiene in embrione alcuni elementi di quell'ideologia produttivistica che ha impestato – fatte le (poche) dovute eccezioni – il movimento operaio lungo tutto l'arco del Novecento, dall'altro definisce il primo abbozzo di una critica dei miti borghesi della Produzione e del Progresso, che sarà in seguito ripresa e sviluppata, in forme e modi estremamente eterogenei, prima dalla Scuola di Francoforte; poi, a partire dagli anni Cinquanta del XX secolo, dallo stesso Bordiga; e infine, seppure in modo spesso parziale e contraddittorio, dai movimenti sovversivi degli anni Sessanta e Settanta [F.B.].

* * *

Per molti decenni, i rivoluzionari marxisti hanno pensato che la realtà sociale dell'Unione Sovietica, della Cina e delle altre cosiddette società socialiste, fosse la negazione del programma di Marx, incentrato sull'emancipazione della classe operaia e dell'umanità. Molti teorici, a cominciare da Rosa Luxemburg (nel suo libro del 1918, La Rivoluzione russa), per proseguire con Mattick, Korsch, Bordiga, Trotsky, Schachtman e C.R.L. James (per nominarne soltanto alcuni), hanno dedicato le loro migliori energie a sistemare la cosiddetta «questione russa»; ovvero il significato specifico che assumono, per i marxisti, la sconfitta della Rivoluzione russa e il successo internazionale dello stalinismo. La varietà dei punti di vista, a questo proposito, sembra sopratutto confermare l'opinione di Winston Churchill, il quale, pur lontano dal marxismo e dalla sinistra, riteneva che il sistema sovietico fosse «un arcano avvolto in un mistero all'interno di un enigma». Gli eredi contemporanei delle teorie dello “stato operaio degenerato”, del “collettivismo burocratico”, del “capitalismo di stato” o della “società di transizione”, hanno tutti sviluppato le loro analisi e spiegazioni – spesso soltanto auto-consolatorie – dell'attuale evoluzione del blocco dell'Est. Con il moderato ottimismo che caratterizza la tradizione marxista, molte delle suddette correnti tendevano a pensare (come ha fatto anche chi scrive) che il più temibile avversario, per la moribonda burocrazia stalinista, fosse la classe operaia rivoluzionaria, la quale avrebbe lottato infine per il vero socialismo. Pochi avevano previsto – e tra quelli che hanno completamente mancato il bersaglio vanno annoverati i trotskisti, secondo i quali il blocco dell'Est si basava su fondamenta sociali superiori a quelle dell'Ovest – che i maggiori pretendenti per una successione ai regimi stalinisti, sarebbero stati non i marxisti rivoluzionari, bensì i neoliberali filo-occidentali ispirati da von Hayek e Milton Friedman, nonché dalle correnti autoritarie di destra del periodo compreso tra le due guerre (con gli ex-stalinisti presenti in modo preponderante in ciascuna delle correnti). Ancor meno, si era previsto che lo sbriciolarsi delle fondamenta sociali dello stalinismo avrebbe provocato una profonda crisi nello stesso campo marxista. Poiché la crisi del blocco dell'Est non genera consigli operai o soviet, ma soltanto populismo della terra e del sangue, nazionalismo crudele, regionalismo, fondamentalismo religioso e antisemitismo (correnti autoritarie che sono lontane da qualsiasi residua opposizione “di sinistra” al FMI e al mercato), è diventato chiaro che la maggior parte degli schemi concettuali a disposizione dei marxisti rivoluzionari, che – all'Est come all'Ovest – sono stati sinora impiegati per comprendere la storia mondiale dopo il 1917, hanno bisogno di un profondo riesame.
Questo articolo vuole essere un modesto contributo in questa direzione. Esso presenta, al riguardo, le idee poco conosciute del marxista italiano Amadeo Bordiga (meglio ricordato – quando non è dimenticato del tutto – come uno degli “ultrasinistri” criticati da Lenin ne L'estremismo, malattia infantile del comunismo), circa la natura sociale dell'Unione Sovietica. Più in generale, il presente articolo considera la tesi che la “questione agraria” – fondamentale per Bordiga nel quadro dell'analisi del capitalismo – per quanto poco discussa, rappresenti la chiave effettiva della storia tanto della socialdemocrazia quanto dello stalinismo, le due deformazioni del marxismo che hanno dominato il XX secolo. Intendiamo proporre la tesi che la socialdemocrazia europea (e soprattutto quella tedesca), persino quando parlava un linguaggio apertamente marxista, non costituisse altro, in realtà, che una distorsione statalista del progetto marxiano, e ancor più un laboratorio in vista di una fase più avanzata del capitalismo: quella dell'emergente welfare state keynesiano. Con questo vogliamo suggerire che la realtà sociale che oggi sta scomparendo, è soltanto la deviazione statalista del progetto di emancipazione della classe operaia, sfociata in una rivoluzione borghese funzionale all'industrializzazione delle società arretrate, e nemmeno lontanamente socialismo o comunismo. Infine, questo lavoro intende sostenere che qualsiasi abbellimento, in una visione a tinte rosee, della socialdemocrazia storica tedesca, così com'era prima del trionfo del “revisionismo”, deve portare necessariamente a una completa impasse e a una totale assenza di prospettiva in relazione al periodo contemporaneo. La storia, sempre più avanti della teoria, sta spazzando via i detriti dell'eredità socialdemocratica e stalinista. Oggi, la questione di come il progetto marxiano si sia legato, dopo il 1860, al progetto statalista dell'assolutismo illuminato, e in particolare alla versione di esso rappresentata dall'Aufklarung, è più centrale che mai. Ancora più pressante, naturalmente, è la questione di come ce ne si possa districare.

1.

Il tentativo di mettere a fuoco la centralità della “questione agraria” in Unione Sovietica, non può essere considerato del tutto nuovo. All'interno del mondo accademico, già qualche tempo addietro, studiosi come Barrington Moore hanno sviluppato un'analisi sulla base di queste premesse (1). Ma l'attenzione, negli anni Settanta, quando apparve il libro di Moore, era ancora molto centrata sullo sviluppo industriale, visto come essenza del capitalismo, e poiché Moore sembrava rappresentare l'eco di una pallida versione delle teorie di Trotsky sulla rivoluzione permanente e lo sviluppo ineguale e combinato, il suo lavoro non ebbe alcun impatto nel dibattito marxista. Adam Ulam, ancor più lontano dalle idee marxiste, nel periodo della “guerra fredda”, scrisse che il reale contenuto del movimento marxista era la questione agraria (2); il suo obiettivo era quello di screditare il marxismo (che egli considerava alla stregua dell'ideologia sovietica), mostrando che si trattava di un prodotto del sottosviluppo, piuttosto che del capitalismo. Anche Gerschenkron, da un punto di vista storico più ricco di quello di Ulam, sembrava collocarsi all'ombra di Trotsky (3).
Indubbiamente, il più importante fra i testi che nel XX secolo hanno influenzato l'opinione dei marxisti circa la questione agraria, nell'ambiente rivoluzionario anti-stalinista, è stato la Nuova economia di Preobrazhensky; quest'opera, al di là dei suoi numerosi limiti, è essenziale per comprendere il destino dell'opposizione internazionale di sinistra (4). Preobrazhensky, che attinge abbondantemente il suo concetto di “accumulazione socialista”, riferito alle campagne, da L'accumulazione del capitale di Rosa Luxemburg, argomenta che lo “Stato operaio” può realizzare coscientemente e in maniera umana ciò che lo stato capitalista ha storicamente realizzato solo in modo irrazionale e sanguinoso: la trasformazione dei piccoli produttori agricoli in lavoratori dell'industria (fu lasciato poi a Stalin di realizzare questa trasformazione tanto coscientemente quanto sanguinosamente).
Ai margini di questa discussione, che coinvolse gran parte della la sinistra occidentale, troviamo le idee e l'affascinante personalità di Amadeo Bordiga. Insieme a Gramsci, uno dei più importanti membri fondatori del PCd'I (divenuto poi PCI), certamente il suo dirigente più autorevole nella prima fase della storia del partito, Bordiga fu l'ultimo rivoluzionano occidentale a definire Stalin “becchino della rivoluzione” (1926), potendo poi continuare a vivere e a sostenere questa tesi. Espulso dal PCI nel 1930, portò con sé diverse migliaia di “bordighisti”. Nel 1928 la Sinistra comunista “italiana” (come essi amavano definirsi) elesse Trotsky a “capo dell'Opposizione internazionale di sinistra”; ne seguì un lungo scambio epistolare tra Bordiga e Trotsky, che finì abbastanza presto in un completo fallimento. Bordiga, in ogni caso, rimane uno dei più originali, brillanti, e tuttavia trascurati, teorici marxisti del nostro secolo (la sua eredità non poteva ovviamente essere fatta propria dal PCI del dopoguerra, che seguì invece la strada indicata da Gramsci). Durante la guerra, egli rimase in Italia (fu espulso e calunniato dal Komintern, con i metodi usuali, e completamente isolato da Mussolini, e seguì una sua carriera come ingegnere). Ma, in un certo senso, è dopo la Seconda guerra mondiale che il lavoro di Bordiga si fa estremamente interessante. Egli visse nell'oscurità fino al 1970, e scrisse un paio di articoli sul movimento del '68. La sua missione, dopo la guerra, fu, così come egli la intendeva, quella di salvare le “lezioni teoriche” dell'ondata rivoluzionaria del periodo 1917-1921. Bordiga sentiva, come quasi tutti i rivoluzionari anti-stalinisti nel 1945, che questo compito richiedeva di fare i conti con “l'enigma russo”. Questa considerazione lo portò a scrivere una lunga serie di articoli, riuniti poi in un grosso volume (tradotto in francese ma non in inglese), sulla Rivoluzione russa e l'economia sovietica (5); a questi vanno aggiunti i tre volumi di una storia della Sinistra comunista “italiana” (6) e molti altri articoli, successivamente raccolti in svariati volumetti. Molti dei suoi scritti sono turgidi e illeggibili, ma vale la pena di studiarli. Ciò che è inusuale e sorprendentemente nuovo nel punto di vista di Bordiga, è la sua teoria che il capitalismo sia innanzitutto una rivoluzione agraria (7). Egli probabilmente sviluppò questa idea già nel periodo precedente il 1914; alcuni del suoi primi articoli riguardano infatti le posizioni dei socialisti italiani e francesi rispetto alla questione agraria. Non è sempre facile seguire la traiettoria teorica di Bordiga: egli credeva nell'“anonimato rivoluzionario”, aborriva il culto della personalità e spesso non firmava i suoi scritti. I libri che raccolgono i suoi lavori non furono editi e pubblicati da lui medesimo, ma dai suoi seguaci.
Un'analisi di Bordiga della Rivoluzione russa fu pubblicata, sotto il titolo A margine del cinquantesimo anniversario dell'Ottobre del 1917, nel 1967 (8). È una trattazione del tutto estranea al dibattito Stalin-Trotsky, così come si è svolto negli Stati Uniti, in Gran Bretagna, in Francia e in Germania. Per esempio, Bordiga non usò mai il termine “capitalismo di stato”, e raramente utilizzò il termine “Unione Sovietica” (poiché i soviet erano stati distrutti molto tempo prima). Per lui, si trattava semplicemente del “capitalismo russo”, e non si distingueva granché dagli altri capitalismi. Bordiga aveva un vigoroso desiderio di “de-russificare” le problematiche del movimento rivoluzionarlo internazionale. Così, sostenne che il movimento operaio era già stato scosso, in passato, da una controrivoluzione (dopo il 1848, all'epoca di Luigi Napoleone), e che perciò non vi era nulla di straordinario in ciò che accadeva in Russia. Tuttavia, il suo interesse per l'economia russa, coltivato nell'arco di 25 anni, smentisce il suo sangue freddo. (Ancora più interessante è il fatto che, nel 1949, Bordiga abbia predetto un lungo periodo di espansione capitalistica e di riformismo operaio, che sarebbe sfociato nella crisi mondiale effettivamente verificatasi nel 1975).
L'analisi della Russia articolata da Bordiga, così come si è sviluppata dopo il 1945, è la seguente. Laddove la sua corrente, in occasione della disputa degli anni Venti, in larga parte incentrata sulla politica estera del Komintern, appoggiò incondizionatamente Trotsky, l'analisi di Bordiga prende le distanze dalla strategia della super-industrializzazione dell'Opposizione di sinistra, per ragioni non dissimili da quelle di Bucharin. Egli, dopo il 1945, giunse alla conclusione che solo una strategia come quella di Bucharin avrebbe potuto preservare un carattere rivoluzionario e internazionalista al regime sovietico (fattore, questo, di gran lunga più importante dell'industrializzazione della Russia), in quanto non avrebbe condotto alla distruzione del partito bolscevico. Bucharin, nella disputa degli anni tra il 1924 e il 1928, aveva sostenuto che la super-industrializzazione voluta dalla sinistra trotskista avrebbe prodotto il più elefantiaco stato burocratico che la storia avesse mai conosciuto (10). Quando Stalin, in seguito, fece suo il programma della sinistra e lo mise in pratica, confermò per intero le previsioni di Bucharin, come lo stesso Trotsky riconobbe – contrariamente a quanto ci si potesse aspettare nel momento in cui la maggioranza della sua corrente, in Russia, capitolò davanti a Stalin (11). Bordiga prese ancora più sul serio di Trotsky, l'idea del carattere internazionale della rivoluzione e del regime sovietico; per lui l'idea del “socialismo in un paese solo” era un'assurdità, gravissima per tutto il marxismo. Nel confronto finale con Stalin a Mosca, nel 1926, Bordiga propose che tutti i partiti comunisti del mondo assumessero collettivamente la direzione dell'Unione Sovietica, come dimostrazione del carattere sovranazionale del movimento operaio (12). Questa proposta, inutile dirlo, fu accolta molto freddamente da Stalin e dai suoi amici.

2.

Gli scritti di Bordiga sulla natura capitalista dell'economia sovietica, in contrasto con le analisi dei trotskisti, si concentrano principalmente sul settore agricolo. Egli cercò di dimostrare come nei kolkhoz e nei sovkhoz (il primo era una sorta di cooperativa agricola, il secondo una fattoria statale che impiegava lavoratori salariati) vigessero relazioni sociali di tipo capitalista (13); inoltre sottolineò come gran parte della produzione agraria dipendesse dalla piccola proprietà contadina (Bordiga scriveva nel 1950!), e riuscì a predire molto accuratamente i tassi in base ai quali l'Unione Sovietica avrebbe importato grano, dopo esserne stata una grande esportatrice, tra il 1880 e il 1914.
Abbiamo già visto come le ragioni che portarono Bordiga a enfatizzare il ruolo dell'agricoltura, siano inerenti il periodo che precede la Rivoluzione russa. Come abbiamo accennato, per Bordiga il capitalismo si concretizzava innanzitutto in una rivoluzione agraria: la trasformazione capitalistica dell'agricoltura; è questo uno dei motivi per cui diede dei rivoluzionari anti-stalinisti un giudizio diverso da quello di Bucharin. Bordiga introdusse una nuova distinzione tra Lenin e Trotsky. Molti di coloro che distinguono Lenin da Trotsky sono stalinisti o maoisti; Bordiga rovesciò completamente le carte degli stalinisti. Usando una formulazione di Lenin, egli definì la Rivoluzione russa come una “doppia rivoluzione” (14), che, in virtù della presa del potere da parte del proletariato, aveva reso possibile la realizzazione dei compiti della rivoluzione borghese, nella fattispecie la distruzione delle relazioni sociali pre-capitaliste in agricoltura. Il grande prototipo della Rivoluzione russa, era certamente rappresentato dal 1789 francese. I trotskisti hanno sempre sostenuto che, nell'aprile 1917, «Lenin divenne trotskista», accettando la tesi della rivoluzione permanente. Tuttavia, Lenin era d'accordo con Trotsky solo su alcune sfumature. Questo distanza divenne chiara nelle formulazioni leniniane del 1920-1922 sulla natura del nuovo regime, e specialmente negli interventi di Lenin al Congresso del Partito bolscevico del 1921, nell'ambito della polemica contro la Prima Opposizione Operaia, che vedeva nel regime sovietico un “capitalismo di stato”. In risposta a queste critiche, Lenin sostenne che il capitalismo di stato sarebbe stato un gigantesco passo in avanti rispetto a ciò che la Russia effettivamente era – vale a dire un capitalismo di piccoli produttori, con un partito politico operaio che controllava lo stato (15). Secondo Bordiga, il partito politico della classe operaia venne distrutto dallo stalinismo, quello che rimase fu il capitalismo dei piccoli produttori. L'uso da parte di Lenin del termine “stato operaio con deformazioni burocratiche”, all'inizio degli anni Venti, era molto diverso dall'uso che ne fece Trotsky nel 1936. Non è possibile, né tanto meno necessario, ricapitolare qui l'intera evoluzione di chi si espresse su tale questione. Quelle che si nascondono dietro questi differenti giudizi tattici, sono due opposte concezioni del marxismo. Quello che è importante per Trotsky e i trotskisti, è che il carattere permanente della rivoluzione sia stato congelato in date “forme di proprietà” e, più tardi, si sia espresso nello sviluppo accelerato delle forze produttive (16). Per Bordiga, lo sviluppo delle forze produttive era semplicemente la prova del carattere borghese del regime sovietico. Egli capovolge il ragionamento degli stalinisti, affermando che il problema di Trotsky non era stato quello di sottovalutare i contadini, ma quello di sopravvalutare la possibilità che i contadini e la rivoluzione agraria dei piccoli produttori potessero avere qualcosa a che fare con la rivoluzione proletaria (17).
Nella concezione di Bordiga, Stalin, e più tardi Mao e Ho Chi-min, sono stati niente più che “grandi rivoluzionari romantici”, nel senso del XIX secolo, cioè rivoluzionari borghesi. Egli intuì che i regimi stalinisti che sorsero dopo il 1945, avevano soltanto il compito di estendere la rivoluzione borghese – cioè l'espropriazione degli Junker prussiani da parte dell'Armata Rossa – attraverso la loro politica agraria e lo sviluppo delle forze produttive. Alle tesi “ultrasinistre” del gruppo francese “Socialisme ou Barbarie”, che denunciava il carattere di capitalismo di stato del regime sovietico, dopo il 1945, Bordiga replicò con un articolo intitolato Avanti barbari!, nel quale definiva l'aspetto rivoluzionario borghese dello stalinismo come il suo unico contenuto reale (18). (Non è necessario essere d'accordo con Bordiga, per riconoscere che questo era un punto di vista più coerente rispetto alla stupidità dell'analisi trotskista all'indomani del 1945, che considerava gli stalinisti dell'Europa dell'Est, in Cina o in Indocina, come dei timidi “riformisti” ansiosi di vendersi all'imperialismo).

3.

II progresso dell'impianto teorico di Bordiga, rispetto a quello di Trotsky, risiede soprattutto nella sua critica dell'assunto, contrabbandato all'interno del trotskismo e tra coloro che si spacciano per trotskisti, che Stalin e lo stalinismo rappresentino il “centro” tra la “destra” di Bucharin e la “sinistra” di Trotsky. È quantomai arduo immaginare come la vittoria della destra di Bucharin nel dibattito sull'industrializzazione avrebbe potuto danneggiare maggiormente il movimento internazionale dei lavoratori, di quanto non abbia fatto il trionfo del “centro” di Stalin. Chiunque voglia tracciare acriticamente la linea della continuità marxista di Trotsky dopo il 1924, tacitamente accetta questa distinzione tra destra e sinistra, e le sue conseguenze. Trotsky scrisse, nel 1936: «II socialismo ha dimostrato il suo diritto alla vittoria non nelle pagine del Capitale, ma con il linguaggio dell'acciaio, del cemento e dell'elettricità» (19). Estendendo la teoria della rivoluzione permanente dalla formazione dei Soviet (1905 e 1917) alle forme della proprietà statale e allo sviluppo delle forze produttive (la prova del carattere socialista “burocraticamente deformato” del regime sarebbe la sua capacità di sviluppare l'industria “nell'epoca della decadenza dell'imperialismo”), Trotsky giunse al culmine di ciò che definisco “il carattere di rivoluzione borghese sostitutiva” del marxismo della Seconda e della Terza Internazionale.
I trotskisti del dopoguerra (per i quali naturalmente Trotsky non può essere considerato responsabile) considerarono l'industrializzazione dei regimi stalinisti, nello stesso periodo in cui il Terzo Mondo non dava alcun segno di sviluppo, come la prova definitiva del loro carattere “socialista deformato”. Contro questa posizione, Bordiga sostenne viceversa che «il comunismo non è qualcosa che possa essere costruito»; il compito dello “sviluppo delle forze produttive” non è un compito cui debbano assolvere i comunisti. E aggiunse: «È proprio vero, in Unione Sovietica si stanno gettando le basi del socialismo». Per Bordiga, questa constatazione equivaleva alla prova del carattere borghese della società russa.
Una corrente che ha rotto con la deviazione filo-stalinista del trotskismo, senza però addentrarsi in un'analisi dell'eredità del dibattito degli anni Venti, è stata quella rappresentata dal gruppo di Schactman e dalla sua analisi del “collettivismo burocratico”. La versione degli anni Quaranta di questa teoria, attribuisce allo stalinismo un dinamismo tale da consentirgli di conquistare il mondo (20), facendone in tal modo il sostituto del socialismo, in quanto forma di società atta a soppiantare il capitalismo – tesi che recentemente la storia ha dimostrato essere fallace. Nella critica di Schactman, l'intera enfasi è posta sulla questione della democrazia, che viene qui ritenuta essenziale. II socialismo è effettivamente concepito come un “collettivismo democratico”, cosicché la sua assenza, e l'assenza degli aspetti formali del capitalismo, vengono collocate sotto la categoria del “collettivismo burocratico”. In altre parole, le divergenze di questa tendenza rispetto allo stalinismo e al trotskismo, si risolvono nel fatto che, per Schactman, ciò che avvenne in Russia tra il 1917 e il 1921 ebbe un carattere “anti-democratico”. Naturalmente, anche questo aspetto ha una sua importanza; tuttavia, assumendo questo punto di vista, si deve tacitamente accettare l'esistenza di una “linea di continuità” tra Trotsky e “il Lenin di Trotsky”, e ignorare l'intuizione di Bucharin e la sua predizione sul destino dello Stato russo. In altre parole, questa prospettiva (la tendenza di Schactman è molto lontana dalla critica marxiana dell'economia politica) si risolve nella contrapposizione burocrazia/democrazia; dunque, al pari di Trotsky, introduce di frodo una intera serie di “compiti” propri della rivoluzione borghese, che già si erano insinuati nel marxismo della Seconda e della Terza Internazionale. A parte Bordiga, nessuno, nell'ambito della sinistra rivoluzionaria anti-stalinista, ha mai menzionato il compito di «sviluppare le forze produttive» come una prova che l'Unione Sovietica non fosse uno “Stato operaio”; per i trotskisti, in particolare, si trattava della prova definitiva (all'interno dello schema nazionalizzazioni-pianificazione) che li conduceva alla conclusione opposta.

4.

Ma Bordiga disse qualcosa di più. Ingegnere di professione, egli manifestò una sorta di rigidità teorica che fu tanto esasperante, quanto efficace nel permettergli di vedere le cose in modo differente. Egli riteneva essenzialmente che il “programma comunista” fosse stato fissato una volta per tutte da Marx ed Engels nel 1847, nel Manifesto, e avesse trovato conferma, l'anno seguente, con la nascita di correnti comuniste all'interno del movimento operaio francese e di quello internazionale. Bordiga era convinto che Marx ed Engels avessero elaborato una metodologia “invariante”, e che gli “innovatori” fossero destinati a diventare prima o poi abili filistei borghesi, avviati sulla strada del bernsteinismo, o qualcosa di simile. Questo commovente insistere sui principi fissati nel 1848, tuttavia, lo portò a conclusioni stupefacenti riguardo alla dimensione complessiva della tradizione marxista, che era stata dai più completamente dimenticata. Bordiga pensava che l'essenziale sulla “questione russa” fosse stato scritto prima della morte di Marx (1883) (21): si riferiva alla corrispondenza di Marx con i populisti negli anni Settanta del XIX secolo, ai due metri cubi di note sull'agricoltura russa che egli lasciò alla sua morte (Marx non portò a compimento II Capitale, proprio perché, nell'ultimo decennio della sua vita, fu affascinato da questa materia), alle diverse prefazioni al Manifesto, nonché agli scritti del periodo 1878-1883, in cui Marx si occupò della Russia. (22). La cosa fondamentale, per Bordiga, era la scoperta della comune rurale russa da parte di Marx, e l'opinione di questi, elaborata tra il 1878 e il 1881, che sulla base della comune russa si sarebbe potuta letteralmente saltare la fase capitalista dello sviluppo storico, persino in assenza di una rivoluzione in Occidente; e che i contadini, prima della conversione capitalistica dell'agricoltura, avrebbero potuto giocare un ruolo centrale in questo processo. Marx scrisse, nella famosa lettera a Vera Zasulich: «Se la Russia seguirà la strada intrapresa dopo il 1861, essa perderà la più grande possibilità di saltare la fase fatale del regime capitalista che la storia abbia mai offerto a un popolo. Come tutte le altre nazioni, essa sarà sottomessa alle inesorabili leggi di quel sistema» (23). Verso fine della sua vita, Marx decise che la Russia aveva perso questa possibilità, e parlò in questi termini con i populisti russi. Secondo Bordiga, la citazione precedente rappresenta il nocciolo dell'eredità marxiana sulla “questione russa”, e «il processo sanguinoso dell'accumulazione capitalista» una profezia, che sarebbe stata portata a compimento da Stalin. I lavori di Marx sulla Russia finirono in archivi polverosi, dove rimasero per 80 o 90 anni, per essere ripresi, negli ultimi anni, da figure quali Jacques Camatte e Theodor Shanin.(24)
È difficile dipingere un ritratto completo di Bordiga, senza menzionare il suo atteggiamento nei confronti della democrazia. Egli, fieramente, si definì “un antidemocratico”, e pensava che anche Marx ed Engels lo fossero. (La sua relazione con la questione agraria comincia a farsi più chiara). L'ostilità di Bordiga nel confronti della democrazia non ha nulla a che fare con il banditismo staliniano. In realtà, egli considerava il fascismo e lo stalinismo come punti culminanti della democrazia borghese (25). Per Bordiga, democrazia significa soprattutto manipolazione della società come massa senza forma. A questa democrazia egli contrappone la dittatura del proletariato messa in atto dal partito comunista fondato nel 1847, basata sui principi e i programmi enunciati nel Manifesto. Egli fa spesso riferimento allo spirito dell'affermazione di Engels che «nell'epoca della rivoluzione tutte le forze della reazione si coalizzarono contro di noi sotto la bandiera della vera democrazia» (come, invero, fecero tutte le fazioni opposte al bolscevichi nel 1921, dai monarchici agli anarchici, lanciando il motto “I soviet senza i bolscevichi!”). Bordiga contrastò fermamente l'idea secondo cui lo spirito rivoluzionario fosse il prodotto di un processo democratico di correnti pluraliste. Alla luce della storia degli ultimi settant'anni, la sua prospettiva, sebbene non priva di limiti, ha il merito di sottolineare che il comunismo (come tutte le formazioni sociali) consiste soprattutto nel suo contenuto programmatico, espresso attraverso diverse forme. Egli sottolinea che, per Marx, il comunismo non è un ideale da raggiungere, ma un movimento reale nato dalla vecchia società, con una serie di obiettivi di programma (26). Negli ambienti della Nuova sinistra degli anni Sessanta, dove si presumeva che la questione economica fosse stata risolta dalla affluent society, il dibattito si svolgeva esclusivamente attorno alla contrapposizione tra burocrazia e democrazia, e attorno alle forme di organizzazione, portando a un formalismo metodologico rivelatosi completamente privo di senso quando, dopo il 1973, la crisi economica mondiale avrebbe cambiato tutte le regole dello scontro.
In un contesto diverso, Bordiga tentò di identificare la classe capitalista in Russia, sostenendo che esisteva come classe in formazione negli interstizi dell'economia russa. Per lui il concetto di capitalismo di stato era un nonsenso, perché lo stato poteva essere solo uno strumento per difendere e realizzare gli interessi di una classe; sostenere che lo stato fosse in grado di fare qualcosa come lo stabilire un modo di produzione, costituiva un abbandono del marxismo. Per Bordiga, l'Unione Sovietica era una società in transizione verso il capitalismo.(28)
Legata alla concezione di Bordiga del ruolo del partito comunista, la critica di questo formalismo ebbe conseguenze politiche. Bordiga si oppose risolutamente alla svolta a destra del Komintern del 1921; come segretario generale del PCd'I egli rifiutò di applicare la strategia del “fronte unico” decisa dal Terzo congresso; egli rifiutò, in altre parole, di unificare il nuovo PCI “bordighista” con l'ala sinistra del PSI, con la quale egli aveva appena rotto. Bordiga aveva una visione completamente diversa del partito rispetto a quella del Komintern, che era stata adattata al riflusso rivoluzionario del 1921, attraverso il trattato commerciale anglo-russo, Kronstadt, l'instaurazione della NEP, la messa al bando delle correnti e la sconfitta dell'Azione di marzo in Germania. Per Bordiga, la strategia dei partiti comunisti dell'Europa occidentale per combattere il riflusso, attraverso l'assorbimento dell'ala sinistra della socialdemocrazia previsto dal “fronte unico”, era una completa capitolazione nei confronti della controrivoluzione. Questo era il nodo della critica alla democrazia. Perché, proprio nel nome della “conquista delle masse” il Komintern sembrava pronto a qualsiasi concessione programmatica alla sinistra socialdemocratica. Secondo Bordiga, il programma era tutto, una scatola per raccogliere numeri non era niente. Il ruolo del partito, in un periodo di riflusso era quello di preservare il programma e di continuare il lavoro di propaganda ed agitazione, fino alla successiva fase di ripresa, e non di diluirlo per dare la caccia a un'effimera popolarità. Si può pensare che questa concezione possa portare al mondo ristretto di una setta, cosa che indiscutibilmente i bordighisti divennero; tuttavia essa ha il merito di mettere in rilievo un'altra verità, che l'ala trotskista dell'Opposizione internazionale di sinistra e i suoi eredi hanno trascurato: il fatto che i partiti di massa fuori dalla Russia furono assorbiti dallo stalinismo alla metà degli anni Venti, trova le sue radici nella svolta del 1921. Non è assolutamente necessario accettare il punto di vista anti-democratico di Bordiga, per rendersi conto di questo fatto: egli sbagliò completamente nel rifiutare il ruolo dei soviet e dei consigli del lavoratori in Russia, Germania e Italia. Ma sulle conseguenze “sociologiche” che il fronte unico del 1921 avrebbe avuto sul futuro del partiti comunisti occidentali – la loro “bolscevizzazione” dopo il 1924 – Bordiga fu nel giusto e il Komintern ebbe torto. Infatti, storicamente, la base sociale dello stalinismo post-1924 entrò nei partiti comunisti occidentali attraverso la tattica del “fronte unico” adottata nel 1921 (29). Bordiga fornì una chiave per comprendere la degenerazione del movimento comunista mondiale dopo il 1921 (piuttosto che a partire dal 1927, con la sconfitta di Trotsky), senza impantanarsi in semplici vuoti richiami a una “maggiore democrazia”. L'astratta diatriba formale tra burocrazia e democrazia, dal cui punto di vista la corrente trotskista considera quel periodo cruciale della storia del Komintern, si separò da ogni contenuto di programma. Bordiga per tutta la sua vita, si definì un “leninista” e non polemizzò mai direttamente con Lenin; ma la sua valutazione completamente diversa della congiuntura del 1921 e delle sue conseguenze per il Komintern, la sua opposizione a Lenin e Trotsky a proposito del “fronte unico”, getta una luce precisa sulla svolta, che viene generalmente ignorata dagli eredi dell'ala trotskista dell'Opposizione internazionale di sinistra degli anni Venti.

5.

L'idea di Bordiga che il capitalismo consista nella rivoluzione agraria, è forse la chiave della storia del Novecento; essa certamente è la chiave di quasi tutto ciò che la sinistra ha chiamato rivoluzionario nel XX secolo, ed è pure la chiave per ripensare la storia del marxismo e il suo coinvolgimento nell'ideologia dell'industrializzazione delle regioni arretrate dell'economia mondiale.
Bordiga non ha ovviamente fornito direttamente il mezzo della “derussificazione” delle lenti attraverso le quali il movimento rivoluzionario internazionale vede il mondo, ma lo sviluppo ulteriore della sua concezione della questione agraria lo può consentire. Alla metà degli anni Settanta, la “questione russa” e le sue implicazioni erano l'inesplicabile “paradigma” della prospettiva politica della sinistra in Europa e negli Stati Uniti, e solo quindici anni dopo sembrano essere già storia antica. Questo era l'ambiente politico dove gli studi minuziosi dello sviluppo, mese per mese, della Rivoluzione russa e del Komintern, dal 1917 al 1928, parvero la chiave di lettura di tutta la storia universale. Se qualcuno diceva di ritenere che la Rivoluzione russa era stata sconfitta nel 1919, nel 1921, nel 1923, nel 1927, nel 1936 oppure nel 1953, si poteva sapere ciò che questi pensava su qualunque altra questione politica mondiale: la natura dell'Unione Sovietica e della Cina, la natura del partiti comunisti in tutti i paesi del mondo, la natura della socialdemocrazia, la natura dei sindacati, del Fronte Unico, del Fronte Popolare, dei movimenti di liberazione nazionale, di estetica e filosofia, la relazione tra partito e classe, l'importanza dei soviet e dei consigli del lavoratori, e chi avesse ragione tra Bucharin e la Luxemburg sull'imperialismo.
È sufficiente enumerare i principali eventi della storia mondiale dopo il 1975, per osservare come il modo di vedere il mondo sia profondamente cambiato; dobbiamo soltanto evocare la realtà degli anni Ottanta, della Gran Bretagna della Thatcher, dell'America di Reagan, della Francia di Mitterand, della Russia di Gorbaciov, della Cina di Deng, cioè della crescente ondata neoliberista (nel senso del termine di von Hayek e von Mises) che ha sommerso lo statalismo della socialdemocrazia, dello stalinismo, del keynesismo e del bonapartismo del Terzo Mondo. Una completa conoscenza della Rivoluzione russa tra il 1917 e il 1928, e della “visione del mondo” da essa derivata, non ci può aiutare molto a capire la Cina e la sua evoluzione dopo il 1976, la Russia sotto Gorbaciov, la crescita del paesi di nuova industrializzazione, la guerra tra Cina, Vietnam e Cambogia, il crollo dei partiti comunisti dell'Europa occidentale, la totale emarginazione del Partito Laburista inglese, del Partito Democratico americano e della SPD tedesca da parte della destra, l'evoluzione verso il neo-liberismo di Mitterand, la comparsa di importanti correnti “anti-stataliste” anche in regimi mercantilisti come il Messico e l'India. Si possono aggiungere a questa lista anche il movimento operaio in Polonia, caratterizzato da una forte dose di nazionalismo clericale, il revival del fondamentalismo islamico, giudaico e cristiano, la deindustrializzazione, l'alta tecnologia e la formazione di nuovi strati borghesi. Nessuno di questi eventi discredita il marxismo, ma tutti essi discreditano la universale tendenza della sinistra occidentale degli anni Settanta, a vedere la realtà attraverso le lenti ereditate dalla Rivoluzione russa e dal suo destino.
La parte migliore della fase eroica della socialdemocrazia tedesca e del bolscevismo russo non è stata sufficiente a servire da guida per questa nuova realtà, sebbene, alla luce dei fatti, una “terza via” conseguente non si era mai fatta illusioni sulle formazioni politiche stataliste che hanno cominciato a crollare dalla metà degli anni Settanta. Questa “terza via”, accettando L'imperialismo di Lenin in connessione con altre analisi dei primi tre congressi del Komintern, ha condiviso con lo stalinismo le ipotesi sotterranee di una incapacità del mercato mondiale capitalista di industrializzare una qualsiasi parte del Terzo Mondo, venendo quindi ugualmente gettata nella confusione dalla nascita dei paesi di nuova industrializzazione (30). Ma c'è una confusione a un livello più profondo, quella che colpisce al cuore l'identità rivoluzionaria derivata dalla II e dalla III Internazionale. Se noi guardiamo la mappa dei partiti comunisti di massa o dei regimi esistenti in Europa tra il 1920 e il 1975, essa coincide quasi esattamente con la mappa degli “stati dispotici illuminati” tra il 1648 e il 1789. Vale a dire: Francia, Germania, Russia, Spagna, Portogallo, Svezia (dove era il più importante partito comunista scandinavo, il solo che sopravvisse alla seconda guerra mondiale senza diventare una setta). Partiti comunisti di massa sono assenti in Gran Bretagna, Stati Uniti, Olanda, Svizzera (e nei paesi ex-coloniali di lingua inglese, come l'Australia, la Nuova Zelanda e il Canada). L'unica evidente eccezione è il PCI. Ma l'Italia produsse i prototipi degli stati assolutisti illuminati con le sue importanti città-stato mercantili , e le basi regionali del PCI sembrano correlarsi con le differenti esperienze regionali durante la fase storica dell'ancien regime. Infine, il PCI è stato il più socialdemocratico dei grandi partiti comunisti occidentali dopo il 1956; questa naturalmente è l'unica ragione per la quale esso è riuscito a sopravvivere.
La connessione tra la presenza di uno stato dispotico illuminato nel 1648 e quella dei partiti comunisti di massa o degli stati stalinisti nel 1945 è la questione agraria. Questo tipo di stato, con la Francia come prototipo, fu creato per accelerare l'introduzione del capitalismo nell'agricoltura. Coscientemente o meno, esso si comportò con i suoi contadini allo stesso modo dello stato sovietico dopo il 1928, e dei regimi capitalisti liberali del XIX secolo. Gli stati assolutisti illuminati colpirono i contadini attraverso le tasse per avere una fonte di accumulazione. Questi metodi erano una risposta al successo delle “società civili” già apparse nei paesi “calvinisti”, che si basavano sulle prime trasformazioni capitalistiche dell'agricoltura, soprattutto e in primo luogo in Inghilterra. Il capitalismo è prima di tutto una rivoluzione agraria. Prima che sia possibile avere industrie, città e proletariato urbano, è necessario rivoluzionare la produttività agricola per ottenere un surplus che consenta di liberare la forza-lavoro dalla terra. Quello che non fu completato nel 1648 (la fine della Guerra del Trent'anni e quindi la fine delle guerre di religione), dovette essere portato a termine dallo stato con un'azione dall'alto. Questo creò la tradizione mercantilistica continentale che, dopo la Rivoluzione francese, continuò nel XX secolo come mercantilismo più maturo. Questa tradizione caratterizzò il Secondo Impero di Luigi Napoleone (1852-1870) e soprattutto la Prussia di Bismarck e la Germania dominata dalla Prussia (32). Quest'ultima, in particolare, dopo l'unificazione della Germania nel 1870, fu emulata a livello mondiale da tutti i paesi di più recente sviluppo, a partire dalla Russia.
Qui, il quadro elaborato da Barrington Moore va al cuore del problema: il decennio 1860-70 ha rappresentato una congiuntura fondamentale. Si ebbero, in questa decade, i seguenti avvenimenti: la guerra civile americana, l'unificazione della Germania, l'unificazione dell'Italia, l'emancipazione dei servi della gleba in Russia e la restaurazione Meiji in Giappone; si potrebbero aggiungere lo sviluppo industriale del Secondo Impero in Francia e la creazione della Terza Repubblica, ma sarebbe superfluo. Sembrerebbe che, se una nazione non era riuscita a riorganizzarsi internamente prima del 1870, essa non avrebbe avuto più alcuna possibilità di entrare nel ristretto circolo delle nazioni industrializzate, nel 1914. Dei sei paesi menzionati (fatta eccezione ancora una volta per la Francia) quattro conobbero negli anni tra le due guerre degli stati totalitari o autoritari. Tra i paesi più importanti, solo quelli che parteciparono significativamente alla prima economia capitalistica nord-atlantica (Gran Bretagna, Stati Uniti e Francia) riuscirono a evitare la soluzione autoritaria negli anni Trenta; e solo gli Stati Uniti, tra i sei paesi succitati, furono riorganizzati entro gli anni Sessanta del XIX secolo. Questo è un importante indizio che dimostra la centralità dell'esperienza storica pre-industriale. Perché negli anni Sessanta del secolo scorso ci fu un evidente punto di svolta? La risposta sembra essere: la depressione mondiale del 1873, e in particolare la depressione agricola (33). Quando gli Stati Uniti, il Canada, l'Argentina, l'Australia e la Russia entrarono nel mercato mondiale del grano come grandi esportatori, si determinò essenzialmente la stessa contrapposizione del 1648: gli stati europei reagirono alla depressione agricola del 1873-1896 muovendosi tutti verso il protezionismo, per preservare le rispettive agricolture nazionali. Il caso più eclatante fu quello dell'alleanza “Ferro e Segale” realizzata tra gli industriali e gli Junker nel 1879, in Germania, alleanza che completò la sottomissione del capitalismo e del liberalismo tedeschi allo stato prussiano dominato dagli Junker. Ma scenari simili si realizzarono in Francia, nella penisola iberica, in Italia, nell'impero austro-ungarico. L'emergere sul mercato mondiale agricolo degli Stati Uniti, del Canada, dell'Argentina e dell'Australia determinò una linea di tendenza dello sviluppo, nel cuore del capitalismo avanzato, per oltre un secolo. Nel 1890, costava meno spedire il grano da Buenos Aires a Barcellona che non trasportarlo via terra per 100 miglia in Europa. I settori agricoli degli stati continentali persero qualsiasi rilevanza internazionale. L'impatto di questo stato di cose sullo sviluppo del movimento del lavoratori non ha finora ricevuto l'attenzione che meritava.

6.

La tradizione rivoluzionaria socialista e comunista è cresciuta essenzialmente all'interno dell'esplosione del Terzo Stato, dopo la Rivoluzione francese: in Babeuf, negli Arrabbiati e negli altri elementi radicali che si collocavano alla sinistra dei Giacobini; soprattutto nella rivoluzione del 1848 in Francia e nel resto dell'Europa (ivi incluso il movimento cartista, che conobbe il proprio apice in Inghilterra nel 1848). La tesi sembra convincente: la linea che conduce dal 1793-1794 al 1917-1921, passò dalla Francia alla Germania e alla Russia, attraverso le rivoluzioni francesi del 1830 e 1848; la Comune; l'ascesa dell'SPD del 1914; il 1905 e il 1917 in Russia; culminando nelle fallite insurrezioni rivoluzionarie del 1917-1921 in Germania, Italia, Inghilterra e Spagna, e negli scioperi insurrezionali che scoppiarono un po' ovunque nel mondo. Quest'ultima fase fu l'acme del “movimento operaio classico”. C.L.R. James ha parlato della necessità di superare il momento storico del crollo del fronte russo-tedesco nel 1917-1918; vale a dire che nel fallimento della rivoluzione tedesca e nella sconfitta dell'ondata rivoluzionaria mondiale, la rivoluzione mondiale ha avuto il suo momento migliore. Questa posizione è interna allo schema dell'ortodossia di Lenin e di Trotsky, che prevede che se la rivoluzione in Germania avesse tolto la Russia dal suo isolamento, il XX secolo avrebbe preso un corso completamente diverso. Questa visione della storia è un utile “stratagemma euristico” per evitare tutte le trappole della socialdemocrazia, dello stalinismo, del maoismo e del terzomondismo. Per vivere all'interno di questa tradizione, sia come trotskista, come sostenitore dello “terzo campo” o come “ultrasinistro”, si deve misurare la storia dal punto di vista dei soviet tedeschi e russi del 1917-1921. Questo non è affatto un brutto banco di prova per un giudizio storico; esso è certamente superiore al welfare state keynesiano, al successo del primo piano quinquennale staliniano, oppure alle comuni agricole ad alta intensità di lavoro in Cina, in quanto possibilità di una società socialista. Ma porta ad una impasse; porta a vedere la storia come se andasse riproposta una sorta di “strategia del Komintern del 1920”, riprendendo in mano la situazione là dove le rivoluzioni dell'Europa centrale e orientale contro gli Hohenzollern, gli Asburgo e i Romanov l'avevano lasciata. Tuttavia, un baratro storico separa quelle rivoluzioni, e il loro carattere duplice, dalla situazione attuale (34). La natura doppia della Rivoluzione d'Ottobre risiede nel fatto che una rivoluzione che realizzò gli obiettivi delle rivoluzioni borghesi, si trovava sotto la leadership della classe operaia; dopo di che il contenuto politico proletario fu completamente distrutto dalla controrivoluzione stalinista. Tracciare acriticamente una linea di continuità attraverso Lenin e Trotsky, come i più corretti continuatori di Marx nella prima parte del Novecento, considerare la Rivoluzione russa come la pietra angolare del XX secolo («il punto di svolta della storia, dove la storia ha sbagliato direzione», come ha detto qualcuno) significa sviluppare una visione complessiva della storia, prima e dopo il 1917. Significa soprattutto accettare la mitologia che la socialdemocrazia tedesca fosse un partito rivoluzionarlo prima che, nel 1890, oppure nel 1898 o nel 1914, divenisse preda del revisionismo. Se c'è un mito al fondo della prospettiva della «parte migliore della socialdemocrazia tedesca e del bolscevismo russo», che oggi è diventato particolarmente problematico, è quello, tinto di rosa, degli inizi della SPD. È attraverso questa visione che la sinistra internazionale è stata colonizzata dalle lenti dell'Aufklarung. che ebbero origine negli apparati degli stati dispotici illuminati.
È possibile osservare questa impasse a diversi livelli. Cominciamo con il materialismo volgare non marxista, che era il pane quotidiano del movimento operaio classico, originariamente raccolto attorno alla SPD, e più tardi al partito bolscevico e alla III (e IV) Internazionale.
Dopo la scoperta dei Manoscritti del 1844 e dei Grundrisse, delle “impronte” di Hegel nel Capitale, delle “Tesi su Feuerbach”, da parte di Lukacs, Korsch etc., sono in molti oggi a chiedersi: come ha potuto il movimento operaio classico essere assorbito dal “marxismo volgare”? Perché il materialismo pre-kantiano (cioè il materialismo che, diversamente da quello di Marx, non è passato attraverso il dialogo con l'idealismo tedesco e con Feuerbach) assomiglia così tanto al materialismo del XVIII secolo e all'Illuminismo anglo-francese, cioè all'ideologia della borghesia rivoluzionaria? Come si può arrivare a una spiegazione dell'egemonia storica del marxismo volgare, laddove il marxismo rigetta il giudizio psicologico-moralista in base a cui «essi hanno delle idee sbagliate»? La risposta non sembra così difficile: se il materialismo del movimento operaio storico, incentrato sulla SPD, nel periodo che va dal 1860 al 1914, e poi sulla Rivoluzione russa, è epistemologicamente poco diverso dal materialismo rivoluzionario di carattere borghese, ne consegue che il movimento operaio storico dell'Europa centrale e orientale non fu altro che un allargamento della rivoluzione borghese. Se ci mettiamo nella posizione degli ammiratori della prima eroica SPD, è difficile trovare un'altra spiegazione sensata. Questo, dopo tutto, non è molto lontano dalla teoria di Trotsky dello sviluppo combinato ed ineguale: dove la borghesia è debole ed incapace di uscire dall'ancien regime, il compito tocca alla classe operaia. (L'errore di Trotsky fu di credere che la classe operaia stesse facendo la rivoluzione socialista). Questo marxismo volgare includeva la “visione del mondo” espressa nei pamphlet popolari dell'ultimo Engels e negli scritti di Bebel, Kautsky, Wilhelm Liebkneckt, del Bernstein pre-revisionista e di Plekhanov - le eminenze grigie della Seconda Internazionale che educarono Lenin e i bolscevichi. Non va dimenticato che Lenin non abbandonò la prospettiva di Kautsky e della SPD prima del 1910-1912, e che nel 1914 non credette ai giornali che riportavano la notizia che la SPD aveva votato per i crediti di guerra. Egli era molto vicino a queste autorità. Scrisse L'imperialismo appunto per spiegare il collasso della SPD; Trotsky più tardi disse che era l'assenza di “leadership rivoluzionaria” a spiegare la sconfitta in Europa occidentale, dopo la guerra. Il ritratto, dovuto a Raya Dunayevskaya, di un Lenin che si precipita in una biblioteca di Zurigo nel settembre del 1914, per leggere la Logica di Hegel e capire la debacle della SPD, può essere o meno un apocrifo (35); nondimeno l'ultimo Lenin non ha alcun impatto sul marxismo ufficiale dopo il 1917, compresa la Quarta Internazionale. Le visioni filosofiche di Lukacs e di Korsch furono messe al bando dal Komintern nel 1923. Negli ambienti intellettuali della sinistra statunitense, alla metà degli anni Sessanta (prima della valanga di traduzioni dal francese, dal tedesco e dall'italiano del post-'68), forse il libro più sofisticato in lingua inglese utilizzabile sulla questione del retroterra filosofico del marxismo, era quello di Sidney Hook: Towards an Understanding of Karl Marx. Questo non era affatto un difetto; rifletteva piuttosto il fatto che l'impatto della scoperta dei primi scritti di Marx, della reale dimensione del suo debito verso Hegel nella critica al materialismo volgare (“Tesi su Feuerbach”), e di opere come I Grundrisse, andò oltre i piccoli circoli di specialisti solo dopo gli anni Cinquanta e Sessanta. Ma ci deve essere una ragione storica per questo. Non è solo questione di come, dove e quando questi testi furono pubblicati (I Grundrisse, per esempio, furono pubblicati per la prima volta in sole 200 copie, in tedesco, a Mosca, nel 1941).

7.

La chiave di questo anacronismo ideologico nella storia del marxismo e della classe operaia, chiaramente non si può trovare, come abbiamo detto prima, sentenziando che «essi avevano idee sbagliate». La risposta va ricercata ai livelli più profondi della storia dell'accumulazione e delle sue influenze sulla lotta di classe a livello internazionale. Ancora una volta la tradizione bordighista ha portato alla luce prospettive che erano completamente marginali nel dibattito generale degli anni Sessanta e Settanta, prospettive che io ritengo legate alla questione agraria, alla periodizzazione dell'accumulazione capitalista, al ruolo storico della socialdemocrazia e del bolscevismo, e al legame storico tra l'assolutismo illuminato dei XVII secolo e i partiti comunisti di massa del XX secolo.
La più importante elaborazione sviluppata per chiarire queste questioni, è stata quella dei “neo-bordighisti”, cioè delle correnti francesi non dogmatiche influenzate da Bordiga. La migliore di queste cercò di realizzare una sintesi tra Bordiga, che aveva dimenticato il significato storico dei soviet, dei consigli operai e della democrazia operaia, e che collocava ogni cosa dentro il partito, con l'ultrasinistra tedesca e olandese, che aveva glorificato i consigli operai e che indicava con il termine di “leninismo” tutto quello che di sbagliato era avvenuto dopo il 1917.
Tutte queste correnti considerano come elemento centrale un testo di Marx che, nel lungo periodo, potrebbe rivelarsi più importante di tutti gli altri materiali che vennero alla luce negli anni Cinquanta e Sessanta: il cosiddetto Capitolo VI Inedito del I Libro del Capitale. Non si conosce la ragione per la quale Marx lo abbia rimosso dalla versione originale del I Libro. Ma esso è una “fenomenologia dello spirito” materialista. Dieci pagine sono sufficienti per confutare la proposizione althusseriana per la quale nel suo ultimo periodo Marx avrebbe dimenticato Hegel. Ma la questione della continuità con il metodo di Hegel è la cosa meno importante. Le categorie fondamentali elaborate nel testo sono la distinzione tra il plusvalore assoluto e quello relativo, e la distinzione tra quelle che Marx chiama la fase estensiva e la fase intensiva dell'accumulazione, corrispondenti alla sussunzione formale e reale del lavoro al capitale. Queste categorie sono introdotte in modo molto teorico; Marx non tentò di applicarle alla storia in generale. Ma l'ultrasinistra francese ha cominciato a periodizzare la storia facendo uso di queste distinzioni. Le fasi estensive e intensive della storia del capitalismo non sono categorie proprie solo dei marxisti; esse sono state utilizzate anche dagli storici dell'economia borghese come elementi descrittivi. Una delle correnti cui abbiamo accennato riassume questa distinzione nella sua essenza come «la fase che svuota il lavoratore per lasciare solo il proletario» (37). In questa frase c'è la condanna di tutta la nuova scuola storica del processo lavorativo di Gutman. La transizione all'accumulazione intensiva è presentata nel Capitolo VI Inedito come «la riduzione del lavoro alla forma capitalistica più generale del lavoro astratto», la definizione concisa del processo lavorativo nella produzione di massa del XX secolo, nel mondo capitalistico avanzato. La “nuova storia del processo lavorativo” è in realtà un lungo canto di nostalgia della fase della sussunzione formale del lavoro sotto il capitale.
Il Capitolo VI Inedito ha fatto luce anche sulla rinascita hegeliana nel marxismo, e sul fatto che un serio interesse per le radici hegeliane di Marx apparve per la prima volta in Germania negli anni Venti (Lukacs, Korsch e la Scuola di Francoforte) e fu ripreso in Francia solo negli anni Cinquanta. Infatti, il marxismo volgare, in Francia, era diventato un'ideologia alla moda – tra l'intellighenzia – solo negli anni Trenta e Quaranta, cioè durante il Fronte Popolare e la Resistenza. Come spiegare questa iato di trent'anni tra la Francia e la Germania? La risposta ovvia è la grande superiorità nello sviluppo industriale della Germania degli anni Venti, al cui livello la Francia giunse solo negli anni Cinquanta. Sembrano esserci alcune connessioni tra il marxismo “hegelianizzato” e le condizioni di quella che definiamo accumulazione intensiva e sussunzione reale. È pure curioso il fatto che in Italia esistesse una cultura marxista “germanizzata” molto prima che in Francia. Questo deve essere posto in relazione, in qualche modo, alla condizione dell'Italia di ultima arrivata, in contrasto con la partecipazione della Francia alla prima economia capitalistica nord-atlantica e all'ondata rivoluzionaria borghese del 1770-1815. La tradizione giacobina francese, che si espresse nel razionalismo di Comte, Saint-Simon e Guesde, nell'idealismo kantiano di Jaurès o nel razionalismo della tradizione anarchica (con il suo credo nella scienza anti-clericale), e infine nel “positivismo laico e repubblicano” della Terza Repubblica, rimase inferiore al livello del pensiero tedesco post-kantiano. L'Italia è stata “germanizzata” negli anni Novanta del XIX secolo; la Francia solo negli anni Trenta e Quaranta del XX secolo.
La tradizione leninista e trotskista divide la storia del capitalismo in due fasi, separate dalla Prima Guerra Mondiale, che inaugurerebbe l'epoca della decadenza imperialistica. Le fonti teoriche di questa posizione – resa popolare per lungo tempo dall'Imperialismo di Lenin – sono da ricercarsi nell'analisi del capitalismo monopolistico prima della Prima Guerra Mondiale: Hobson, Hilferding e Lenin. Il capitalismo, nei giorni migliori della II Internazionale, appariva diverso dal sistema descritto da Marx. (È importante ricordare che il secondo e il terzo Libro del Capitale furono editi solo negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso [il XIX]; e la relazione della maggior parte dei militanti socialisti con l'economia marxista, si basava unicamente sul primo Libro o, più realisticamente, sui pamphlet popolari come Salario, prezzo e profitto).
Il capitalismo sembrava muoversi da una fase concorrenziale, o del laissez-faire, verso una fase caratterizzata dal monopolio, dall'imperialismo, dai cartelli, dall'intervento dello Stato, dal capitale finanziario, dalle conquiste coloniali, dalla corsa agli armamenti; tutti elementi definiti da Hilferding come “capitalismo organizzato” (1910). La Prima Guerra Mondiale segnò un punto di svolta. La Rivoluzione russa dimostrò che, per usare una frase di Lenin, «la rivoluzione proletaria si nasconde dietro ogni sciopero», e il periodo 1917-1921 andò molto vicino a confermarlo. Dopo un'effimera stabilizzazione, arrivarono il 1929, la depressione mondiale, il fascismo, lo stalinismo e la Seconda Guerra Mondiale, seguita a sua volta da incessanti guerre di liberazione nazionale. Chi, nel 1950, poteva negare che quella fosse “l'epoca della decadenza dell'imperialismo?” Questi fenomeni reali cementarono una visione del mondo che fu codificata nei primi anni del Komintern: la continuità con il marxismo volgare kautskiano del periodo pre-1914, la caratterizzazione della nostra epoca attraverso la categoria del capitale monopolistico, molto abilmente espressa dalle teorie di Bucharin e Trotsky sulla rivoluzione permanente e lo sviluppo combinato e ineguale, e dalla definizione data dal Congresso del Komintern, di questa epoca come quella della “decadenza imperialistica”.
Questa, almeno, fu l'espressione condensata di quella eredità, ripresa nei migliori tentativi della fine degli anni Sessanta e dell'inizio degli anni Settanta di ricongiunzione con il potenziale rivoluzionarlo del corridoio tedesco-polacco-russo del 1905 e del 1917-1921. Questa periodizzazione della storia moderna ci consente di vedere il mondo dal punto di vista della “Mosca del 1920”, e questo, ancora una volta, rende la comprensione della storia della Rivoluzione russa e del Komintern tra il 1917 e il 1928, così centrale e così piena di implicazioni. In questa storia, risiede la pietra filosofale sia dei trotskisti che di Schactman, che dell'ultrasinistra. Questo era pure il punto di vista di coloro che, alla metà degli anni Settanta, non nutrivano più alcuna illusione riguardo alla socialdemocrazia, allo stalinismo e al bonapartismo del Terzo Mondo, cioè di quelli che vi si opponevano dal punto di vista della democrazia dei lavoratori rivoluzionari organizzati nei soviet e nei consigli operai. Ad un certo livello, questa sembrò una spiegazione assolutamente coerente del mondo. La più alta espressione del movimento rivoluzionario dei lavoratori non aveva forse avuto luogo in Germania e in Russia? Da allora non era stato tutto un disastro e un incubo burocratico? Bordiga anticipò una critica di questo atteggiamento quando scrisse, ancora negli anni Cinquanta, che «il fatto che l'evoluzione sociale in una zona [l'Europa e gli Stati Uniti] sia passata da una fase a quella successiva, non significa che ciò che è successo al resto del pianeta non sia di alcun interesse sociale». Secondo quel punto di vista (condiviso allora anche da chi scrive), ciò che accadeva nel resto del mondo non rivestiva alcun interesse sociale. Si potrebbero proporre seriamente ai lavoratori europei e americani, come modello la Cina, la Corea del Nord, l'Albania o i movimenti di liberazione nazionali con i loro stati? Certamente no. Però questo punto di vista, pur essendo corretto, non era del tutto adeguato.

8.

Esso, infatti, tendeva a ignorare due realtà già in pieno sviluppo alla metà degli anni Settanta: il doppio movimento dell'industrializzazione del Terzo Mondo e dello sviluppo tecnologico intensivo (“high-tech”) dei settori avanzati, che avrebbe fatto andare in pezzi il movimento operaio occidentale su cui si basava l'intera prospettiva iniziale. Nel 1970, nel bel mezzo dell'euforia stalinista, maoista e terzomondista per le rivoluzioni burocratico-agrarie, era corretto e rivoluzionario guardare alla classe operaia occidentale come all'unica classe in grado di porre fine alla società divisa in classi. Era necessario, allora, abbandonare il ciarpame terzomondista, come oggi è necessario rigettare i suoi residui (per altro molto circoscritti). Ma ciò che è cambiato da allora, è il fatto che la deindustrializzazione in Occidente e l'industrializzazione nel Terzo Mondo (due facce della stessa medaglia) hanno creato autentici movimenti di lavoratori nel Terzo Mondo, di cui il più importante esempio è quello della Corea dcl Sud. Alla metà degli anni Settanta, il mondo sembrava molto simile a quello della descrizione che si poteva ricavare dalla visione originaria del Komintern, che abbiamo sopra riportato. I paesi che costituivano il cuore del mondo industriale nel 1914 (Europa occidentale, Stati Uniti e Giappone) rivestivano ancora negli anni Settanta lo stesso ruolo. Nei termini dell'analisi precedente, se una nazione non era riuscita a “riorganizzarsi internamente” intorno agli anni Sessanta del XIX secolo, non sarebbe potuta entrare nel club delle nazioni industrializzate nel 1914, e neppure nel 1975. Inoltre, la percentuale dei lavoratori impiegati nel settore manifatturiero nei paesi industrialmente avanzati, che raggiunse un massimo di circa il 45% in Germania e in Inghilterra, tra il 1900 e il 1914, nei primi anni Settanta era ancora vicina a questo valore, per l'area del capitalismo avanzato considerata nel suo insieme. Che cosa era cambiato nel frattempo? Il mondo capitalista avanzato era passato da una suddivisione (molto approssimativa) della forza-lavoro che vedeva il 45% della manodopera impiegato nell'industria, il 45% nell'agricoltura e il 10% nei servizi, ad una ripartizione radicalmente diversa: 45% nell'industria, 5-10% nell'agricoltura e 40-45 % nei servizi (per non citare la creazione di un ampio settore militare che si è largamente sviluppato solo dopo la metà del secolo).
Che cosa indica questo? Indica che la storia dello sviluppo capitalistico è la seguente. Nella fase 1815-1914, quella del capitalismo classico e concorrenziale, il sistema trasformò per prima cosa i contadini in operai (almeno in Inghilterra, Stati Uniti, Francia e Germania). Nel periodo seguente (ma in realtà già a partire dal 1890), cioè nella nuova fase del “capltalismo organizzato”, “monopolistico”, o se si vuole nell'epoca della “decadenza imperialstica”, esso continuò a ridurre il peso della popolazione rurale all'interno del mondo occidentale (ma anche in America Latina, nei Caraibi, nell'Europa meridionale e in Africa). Ma per fare cosa? Invece di continuare a espandere la forza-lavoro industriale, utilizzò il gigantesco aumento della produttività di un numero di forze- lavoro relativamente stabile, per sostenere una crescita continua del settore dei servizi (e della produzione di armi). Ma per ritornare al tema di base, i partiti comunisti ortodossi cominciarono a essere erosi e sostituiti da partiti di tipo socialdemocratico, integrati, proprio quando la popolazione agraria dei paesi in questione venne ridotta ad una percentuale trascurabile (5-10%) della forza-lavoro. Questo è quello che è accaduto, ad esempio, in Francia e in Spagna negli ultimi 15 anni. Questo è quello che non è avvenuto in Portogallo, proprio perché nella piccola produzione agricola portoghese è rimasta una percentuale importante della forza lavoro totale. Questo è stato il fondamento della trasformazione del PCI. Questo è quello che è avvenuto tempo fa nel Nord Europa e negli Stati Uniti. Infine, si tratta di un fenomeno che è in stretto rapporto coi problemi incontrati nell'Europa dell'Est e in Unione Sovietica, quando la fase estensiva dell'accumulazione fu completata e si passò alla fase intensiva, a cui l'Occidente era arrivato attraverso il periodo di crisi del 1914-1945. In breve, dall'assolutismo illuminato del XVII secolo ai partiti comunisti del XX secolo, la problematica è stata quella della fase estensiva dell'accumulazione e della trasformazione dei contadini in operai. L'ultima implicazione di questo fatto è la seguente: una società è pienamente capitalista solo quando una piccola percentuale della forza-lavoro è impiegata in agricoltura; in altri termini, una società è pienamente capitalista solo quando è passata dalla fase estensiva alla fase intensiva dell'accumulazione. Questo significa, in breve, che nel 1900 né l'Europa ne gli Stati Uniti erano paesi così capitalisti come il movimento socialista pensava che fossero, e che il movimento operaio classico, nella sua corrente principale, era anzitutto un movimento per spingere il capitalismo verso la sua fase intensiva. Per riassumere: l'avvento del capitalismo è da intendersi prima di tutto come una rivoluzione agraria.
La “questione agraria” ha ricoperto diversi significati nella storia della sinistra internazionale. Essa è sorta in connessione con le rivoluzioni dei contadini che accompagnarono le rivoluzioni francese e russa; con la capitalistizzazione dell'agricoltura nel Sud degli Stati Uniti, in seguito alla Guerra Civile; con la depressione agraria del 1873; con lo svuotamento delle campagne europee dopo la Seconda Guerra Mondiale. (Certo, si tratta di fenomeni in realtà distinti, che non possono essere affastellati insieme con leggerezza). Ma concentriamo l'attenzione sull'accumulazione intensiva legata alla riduzione della forza-lavoro agricola fino a un 5-10% della popolazione. Un'agricoltura capitalista è una agricoltura meccanizzata secondo il modello americano. In questo senso “la questione agraria” non fu risolta in Francia nel 1789, ma solo tra il 1945 e il 1973. La connessione tra l'agricoltura e l'accumulazione intensiva nell'industria sta nella riduzione del costo del cibo, e quindi della percentuale che esso copre nel consumo comlessivo dei lavoratori, riduzione che crea un potere di acquisto per i beni di consumo durevoli (ad esempio, l'automobile) che possono in questo modo diventare l'elemento centrale della produzione di massa del XX secolo.
Riassumiamo, e quindi torniamo ancora una volta a Bordiga e ai neo-bordighisti. Il marxismo volgare (il marxismo della II e III Internazionale) è stato l'ideologia degli intellettuali dell'Europa centrale e orientale, unitisi al movimento operaio in vista di una battaglia per il completamento della rivoluzione borghese. La sua stretta relazione con il materialismo borghese pre-kantiano e precedente il 1789 non è il risultato di un “errore”, ma una precisa espressione dcl contenuto reale del movimento che lo sviluppò. Questo contenuto ha senso all'interno di una periodizzazione della storia del capitalismo che è il completamento della teoria dell'“epoca della decadenza imperialistica” di Lenin e Trotsky, con i concetti di accumulazione estensiva (dominio formale) ed intensiva (dominio reale). Tutta la teoria del “capitalismo organizzato” e del “capitalismo monopolistico” sviluppata dalla II Internazionale, da Lenin e Hilferding, è quindi un occultamento della transizione dalla fase estensiva a quella intensiva dell'accumulazione. La prospettiva del “marxismo ufficiale” è quindi quella di una nascente élite statale, al potere o meno, il cui movimento dà origine a un'altra forma di capitalismo (dominio reale) che viene chiamato “socialismo”. Quel che è interessante in questa analisi è che essa evita qualsivoglia moralizzazione e offre come “base epistemologica” una spiegazione “sociologica”. Ancora una volta, si vede come questo strato sociale abbia sostenuto una forma illuministica di materialismo, nella misura in cui rappresentava l'amministrazione pubblica di un proto-stato in un regime di sviluppo del capitalismo, e che la visione economica di quel materialismo, codificata nella teoria leninista dell'imperialismo, era anche la visione economica di quello strato. Non si può trattare di marxismo: esso infatti tende a sostituire l'analisi delle relazioni sociali e delle forze produttive con una analisi delle “forze” (che richiamano alla memoria Duhring). Da Lenin e Bucharin, passando per Baran e Sweezy, Bettelheim e Amin, Pol Pot (con una degenerazione e una discontinuità enormi, ma ciò nonostante con un certo grado di continuità) la teoria del “capitale monopolistico” è stata la teoria dello stato burocratico. Essa è fondamentalmente una teoria contro la classe operaia. Considera il riformismo della classe operaia occidentale come una espressione dei super profitti dell'imperialismo, e oscura la differenza di interessi tra l'élite dello stato burocratico e la classe operaia (o i contadini, nei paesi sottosviluppati dove essa è al potere).
I neo-bordighisti francesi, in particolare Camatte, hanno dimostrato come, soprattutto in Russia, il marxismo sia stato trasformato da teoria della comunità materiale umana, ovvero di un movimento reale sorto dal capitalismo maturo, nella teoria di una realtà che era insita nel vecchio proto-capitalismo. Questo risulta particolarmente evidente dal contrasto tra le “posizioni marxiste” sulla questione russa sviluppate da Marx nel 1878-1883, e la polemica bolscevica contro l'ultima fase del populismo negli anni Novanta del XIX secolo. Qualsiasi cosa Marx avesse in mente nel suo studio sulla comune russa, vista come possibile base per un passaggio immediato al comunismo, egli non avrebbe mai scritto, come fece Trotsky nel 1936, che «il socialismo ora può confrontarsi con il capitalismo in tonnellate di acciaio e di calcestruzzo». Questo non vuol dire che non vi sia alcuna base per un discorso produttivistico nell'opera di Marx; ma significa semplicemente che l'abisso che separa Marx dal marxismo della II e III (e IV) Internazionale è precisamente il fatto che egli va oltre il materialismo “pre-kantiano” e va oltre la teoria del capitalismo monopolistico, che esprimono entrambi la visione del mondo di una classe di amministratori pubblici. Nella battaglia tra Lenin e i populisti russi, negli anni Novanta dell'Ottocento, volta a introdurre il marxismo deformato della II Internazionale in Russia, l'intera dimensione pre-1883 dell'analisi marxista della “questione russa”, riscoperta da Bordiga, era andata perduta dentro un coro produttivista. L'affermazione lineare, meccanicista del progresso, che è al cuore del pensiero dell'Illuminismo storico, e che fu assunta in una teoria “di fase” della storia dal marxismo volgare, non considera in alcun modo la comune agricola russa, come invece fece Marx. La Gemeinwesen (comunità materiale umana) contenuto del comunismo, viene soppressa dal produttivismo. Una volta al potere, i Bolscevichi presero gli schemi di riproduzione e le categorie del I volume del Capitale e le trascrissero nei loro manuali di economia pianificata, senza notare che queste rappresentavano una descrizione “ricardiana” del capitalismo che Marx capovolse nel III volume. Questo spianò la strada all'ideologia “mangia acciaio” dei pianificatori stalinisti, dopo il 1928. C'è un abisso tra Marx da un lato, e la II Internazionale e i Bolscevichi, dall'altro, che si esprime nella filosofia e nella teoria economica; e queste differenze corrispondono a differenti “epistemologie sociali” che hanno le loro radici nelle posizioni di due differenti classi, la classe operaia e la classe degli amministratori pubblici. In questo senso, è importante sottolineare come anche il meglio della socialdemocrazia tedesca e del bolscevismo russo siano stati avvinghiati senza speranza allo stato. Una ripresa del punto di vista rivoluzionario non può più identificarli come eredi diretti, ma come una deviazione per mezzo della quale il marxismo, fuso con lo statalismo, diventa estraneo a sé stesso.
In Occidente, oggi, diversamente dai rivoluzionari del 1910, noi viviamo in un mondo integralmente capitalista. Non c'è uno sviluppo capitalistico dell'agricoltura da portare a compimento, né alcuna “questione contadina” che il movimento operaio debba affrontare. Nello stesso tempo, nel bel mezzo di una profonda depressione economica le cui dimensioni sono le stesse della crisi degli anni Trenta, tutte le vecchie visioni rivoluzionarie si sono dissolte, e il senso di qualcosa che possa assomigliare a un mondo positivo oltre il capitalismo, è meno chiaro che mai. (La storia recente ha invece fornito molti esempi di alternative negative). Se comprendiamo che ciò che sta venendo meno, oggi, è in ultima analisi l'eredità degli stati assoluti illuminati e dei loro polungamenti moderni, possiamo vedere che gli strumenti concettuali in uso fino a non molto tempo fa, erano strumenti atti a completare la rivoluzione borghese, sviluppati da movimenti che in definitiva erano guidati da una classe di amministratori pubblici, effettivi o potenziali. Per liberare Marx da questa eredità statalista, dovremmo almeno iniziare a cercare di comprendere il mondo dal punto di vista «del movimento reale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi» (Manifesto del Partito Comunista).


NOTE:
1. B.Moore (1966), Social Origins of Democracyand Dictatorship, Boston.
2. A.Ulam (1960), The Unfinished Revolution, New York.
3. A.Gershenkron (1962), Economic Backwardness in Historical Perspective, Boston.
4. E. Preobrazhensky (1971), La nuova economia, Milano, capitolo II.
5. Si veda Struttura economica e sociale della Russia d'oggi (1976), Edizioni il Programma Comunista, Milano.
6. Si veda Storia della sinistra comunista (1964), Edizioni il Programma Comunista, Milano.
7. L'esposizione matura sul legame tra “questione agraria” e capitalismo si trova in A.Bordiga (1979), Mai la merce sfamerá l'uomo: la questione agraria e la teoria della rendita fondiaria secondo Marx, Firenze.
8. Cfr. Bilan d'une revolution in “Programme communiste”, nn. 40-41-42, Ottobre 1967-Giugno 1968.
9. L'evoluzione della previsione di Bordiga di una grossa crisi mondiale nel 1975, è presentata in F.Livorsi (1976), Amadeo Bordiga, Editori Riuniti, Roma, pp. 426-444.
10. Per una analisi puntuale della critica di Bucharin a Preobrazhensky, si veda Bilan d'une revolution, op. cit., pp.139-140. Contro i superindustrialisti di sinistra Bucharin sosteneva che la classe operaia sarebbe stata «costretta a costruire un apparato amministrativo colossale... II tentativo di sostituire i piccoli produttori e i piccoli contadini con la burocrazia produce un apparato tanto colossale, che le spese per il suo mantenimento sono incomparabilmente piú grandi delle spese improduttive dovute alle condizioni anarchiche della piccola produzione: in definitiva, l'intero apparato economico dello stato proletario non solo non facilita ma anzi ostacola lo sviluppo delle forze produttive. Esso porta direttamente all'opposto di ció che si prefiggeva".
11. L'aspetto “bucharinista” della valutazione di Trotsky della sinistra stalinista dopo il 1928, è rilevato in Bilan d'une revolution, op. cit. , p. 148.
12. Questo intervento fu fatto al Sesto Comitato Esecutivo allargato del Komintern nel 1926, ibidem, p. 38.
13. Sulla natura capitalista del kolkhoz, cfr. Bilan d'une révolution, op. cit., pp. 172-179.
14. II concetto di Bordiga di “rivoluzione doppia” è disseminato in tutti i suoi scritti. Per un esempio si confronti A.Bordiga (1975), Russie et revolution dans la theorie marxiste, Spartacus, pp. 192 e seguenti.
15. V.I.Lenin (1921), Sull'imposta in natura (Importanza della nuova politica e sue condizioni), in Opere Complete, volume XXXII, pp. 309-344, presenta 1'analisi di Lenin della relazione tra capitalismo di piccoli produttori e capitalismo di stato nel 1921.
16. Le formulazioni, molto liriche, di Trotsky sulla crescita delle forze produttive nello “stato operaio” stalinista, si trovano nella sezione di apertura de La rivoluzione tradita.
17. Questa è la formulazione di Bilan d'une revolution, op. cit., p. 95.
18. Citato in L. Grilli (1982), Amadeo Bordiga: capitalismo sovietico e comunismo, Milano, p. 282.
19. L.Trotsky (1968), La rivoluzione tradita, Roma, p. 8.
20. Cfr., per una piú completa esposizione di questo punto di vista, M.Schactman (1962), Bureaucratic Revolution, New York.
21. Cfr. A.Bordiga, Russie et revolution dans la theorie marxiste, op. cit., pp. 226-297, per una analisi dell'evoluzione del pensiero di Marx sulla comune russa e la perdita da parte della Russia della “chance storica” di saltare la fase capitalista.
22. Marx aveva perfino nascosto la dimensione del suo lavoro a Engels, il quale si infuriò quando capì che gli studi sulla questione russa erano stati la vera causa del mancato completamento del Capitale. Sul profondo coinvolgimento di Marx nel problema dell'agricoltura russa negli ultimi dieci anni della sua vita, cfr. il saggio di T.Shanin, Late Marx, in T.Shanin (1983), Late Marx and the Russian Road, New York. Si veda anche J.Camatte, Bordiga et la revolution russe: Russie et necessité du communisme, in “Invariance”, anno VII, serie II, n. 4.
23. La lettera di Marx del novembre 1877 è stata pubblicata in tedesco in M.Rubel (1972), Marx-Engels: Die russische Kommune, pp. 49-53. 
24. Cfr. nota 22.
25. Le analisi del fascismo italiano del periodo 1921-24 della corrente di Bordiga, senza dubbio in parte opera di Bordiga stesso, si trovano in Communisme et fascisme (1970), Ed. Programme Communiste, Parigi.
26. Come Marx scrisse nel Manifesto, «il comunismo non è un ideale che debba essere realizzato»; al contrario, esso non è «che il movimento reale che si sta svolgendo sotto i nostri occhi». Per un'analisi del comunismo come movimento reale, cfr. J.Barrot (1972), Le mouvement communiste, ed. Champs Libre, Parigi.
27. Per una critica del formalismo che consegue alla visione del problema del socialismo come un problema di “forme di organizzazione”, cfr. il saggio di J.Barrot (1972), Contribution à la critique de l'ideologie ultragauche (Leninisme et ultragauche), in Communisme et question russe, ed. de la Tete de Feuilles, Parigi, pp. 139-178.
28. Questo è stato elaborato da L.Grilli, op. cit., p. 38.
29. Un parallelo nella stessa Russia fu la “leva di Lenin”, attraverso cui il partito fu inondato da membri malleabili, inesperti o semplici carrieristi, facilmente manipolabili dagli stalinisti contro la “vecchia guardia”. Il corrispettivo a livello internazionale di questa trasformazione nell'Internazionale Comunista furono figure come Cachin nel PCF oppure Thaelmann nel KPD.
30. Sulla nascita dei paesi di nuova industrializzazione e il loro impatto sull'ideologia dominante, confronta N.Harris (1986), The End of the Third World, Penguin, Harmondsworth.
31. Sulla capitalistizzazione dell'agricoltura inglese, si veda R.Brenner (1985), The Agrarian Origins of European Capitalism, in T.H.Ashton e C.H.E.Philpin (a cura di), The Brenner Debate, Cambridge University Press, Cambridge, pp. 217-327.
32. Sulla tradizione mercantile e il suo impatto cfr. R.Szporluk (1988), Communism and Nationalism. Karl Marx vs. Friedrich List, Oxford.
33. Per una discussione dell'impatto post-1873 della depressione agricola, cfr. H.Rosenberg (1967), Grosse Depression und Bismarckzeit, Berlino.
34. L'“ultrasinistro” olandese Herman Gorter confusamente, ma correttamente, già nel 1921 colse l'irrilevanza della questione agraria per i lavoratori occidentali, come l'essenza della differenza tra la Rivoluzione russa e ogni possibile rivoluzione in Occidente; una differenza minimizzata da Lenin nel suo L'estremismo malattia infantile del comunismo. Cfr. H.Gorter (1921), Offener Brief an den Genossen Lenin, Berlino. 
35. R.Dunayevskaya (1975), Philosophy and Revolution, New York, capitolo III.
36. K.Marx (1969), II Capitale: Libro I, Capitolo VI inedito, Firenze.
37. Cfr. i pamphlet del gruppo francese Negation (1975), Lip and the Self-Managed Counter-Revolution, (tradotto in inglese da Black and Red, Detroit).
38. Rita di Leo (1970), Gli operai e il sistema sovietico, Bari, capitolo I, fornisce una buona analisi dell'uso sovietico del I Libro del Capitale, come un manuale da cui furono poi sviluppate le categorie del processo di pianificazione