Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

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«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

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«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

30 gennaio 2009

Critica della scienza e movimenti



[Titolo originale: Critica della scienza e della tecnologia nei movimenti dagli anni '70 a oggi, a cura del Centro di Iniziativa "Luca Rossi" di Milano, relazione tenuta durante un incontro con alcuni partecipanti ai Comitati No Tav della Val Susa svoltosi a Rovereto il 15 dicembre 2005. Tratto da Guerra Sociale]
 
Questo testo deve intendersi come uno «scalettone», forse utile per discutere, ma comunque privo di ogni pretesa di esaustività. È suddiviso in tre parti: nella prima, a partire da tre «date chiave», vengono proposti taluni elementi di riflessione; nella seconda si dà conto di «alcune esperienze di critica della scienza e della tecnologia prodotte dal movimento, in Italia, dall’inizio degli anni Settanta a oggi» (attraverso l’enumerazione di opuscoli, libri e riviste); la terza parte, infine, vede la sintetica presentazione di «due contributi teorici: Bordiga e Cesarano», che lo scrivente considera di primaria importanza. Alla vaga astrattezza della «conclusione» hanno, nel frattempo, posto rimedio le concretezze valsusine. Il limite principale di questa relazione (dimenticanze a parte), a mio parere, sta nel considerare pressoché esclusivamente la «produzione scritta», che delle esperienze di movimento costituisce solo un elemento (e non sempre il più significativo). Ma carenze di conoscenza e di tempo mi hanno impedito di fare altrimenti. Impareremo vivendo.

1. Tre date chiave 

1828 — Il medico bostoniano Jacob Bingelow introduce l’uso moderno della parola tecnologia, definendola come «il complesso […] dei principî, dei processi e delle terminologie dei principali mestieri, soprattutto di quelli che comportano applicazioni della scienza e che possiamo definire utili, perché tornano a vantaggio della comunità, oltre a garantire una remunerazione a coloro che vi si dedicano».
«Vantaggio della comunità» e «remunerazione a coloro che vi si dedicano». Qui sta il punto! Come ha rilevato David F. Noble: «La tecnologia moderna che si ispira alla scienza è stata caratterizzata fin dall’inizio dagli imperativi sovrani delle manifatture: l’utilità e il profitto. Fin dalla nascita, la tecnologia moderna non è stata nulla di più e nulla di meno che la trasformazione della scienza in uno strumento di accumulazione del capitale» (Progettare l’America. La scienza, la tecnologia e la nascita del capitalismo monopolistico, trad. it. Einaudi, Torino, 1987).
E viceversa, come ha sostenuto Edward Palmer Thompson (Customs in Common. Studies in Traditional Popular Culture, Merlin, London, 1991) facendo infuriare gli economisti ortodossi, l’idea che le nuove tecnologie creino nuovi lavori e aumentino la ricchezza sociale, come teoria ovunque applicabile, è una sciocchezza mai dimostrata: se qualcosa di simile è accaduto (ma a quali costi!, e a partire da ben precisi assetti di potere economico, politico e militare) nei Paesi culla del capitalismo, l’esperienza di gran parte del mondo restante è di segno diametralmente opposto. La potenza del capitale ha distrutto le società tradizionali del cosiddetto Terzo Mondo senza permettere alla loro popolazione l’accesso al mondo industriale. Aggiunto a una squilibrata crescita demografica, questo impatto ha sottoposto a un brutale spossessamento una gran parte dell’umanità, gettandola nella più totale miseria. Miseria che è sempre socialmente prodotta, non mai frutto di una naturale scarsità o di un insufficiente sviluppo delle forze produttive.
Perché, come ha dimostrato l’antropologo americano Marshall Sahlins (L’economia dell’età della pietra. Scarsità e abbondanza nelle società primitive, trad. it. Bompiani, Milano, 1980), la scarsità, lungi dall’essere statuto delle società di cacciatori-raccoglitori del Paleolitico o delle società tradizionali basate sul «modo di produzione domestico», è semmai l’assioma – e il destino – del sistema capitalista, dove l’insufficienza dei mezzi rispetto ai fini è assunta come punto di partenza di ogni attività economica e dove, fuori del regno delle idee, gli uomini e le donne vengono violentemente separati dai loro mezzi di sussistenza e impoveriti, affinché non possano fare altro, se vogliono sopravvivere, che trasformarsi in proletari. 

[Merita di notarsi che gli Autori sopraccitati sono tutti e tre strettamente legati al movimento di critica della civiltà capitalista manifestatosi negli ultimi quarant’anni: David F.Noble (cui si deve, fra l’altro, La questione tecnologica, trad. it. Bollati Boringhieri, Torino, 1993) fu «bruciato» al MIT e alla Smithsonian Institution, venendo poi giubilato dall’amministrazione dell’Harvey Mudd College di Claremont (California) in quanto «anti-technology», mentre Lorna Marsden, presidente della York University di Toronto, lo definì «anti-science» e «anti-intellectual» prima di licenziarlo.
Edward P.Thompson (1924-1993) fonda nel 1952 la rivista «Past and Present», attraverso la quale vuol far udire la voce delle classi lavoratrici e farne conoscere la storia, oscurata da più di tre secoli di ruggiti imperiali («Io cerco di riscattare dall’enorme condiscendenza dei posteri il calzettaio povero, il cimatore luddista, il tessitore a mano “antidiluviano”, l’artigiano e operaio specializzato “utopista” e perfino il seguace deluso di Joanna Southcott», scriverà nella prefazione all’indimenticabile Rivoluzione industriale e classe operaia in Inghilterra, libro mai più ripubblicato in Italia dopo l’edizione del 1969). Uscito dal Partito Comunista di Gran Bretagna dopo i «fatti d’Ungheria» del ’56, con il Manifesto di maggio partecipò alla nascita della New Left. Nominato professore di storia all’Università di Warwick nel 1965, Thompson abbandona definitivamente l’insegnamento nel 1971, in solidarietà con il movimento studentesco e per protesta contro le amministrazioni universitarie. Dopo aver criticato strenuamente i governi laburisti del 1964-70 e del 1974-79, negli anni Ottanta si spende senza risparmio contro il thatcherismo e nel movimento antimilitarista. L’allievo più conosciuto di E.P. Thompson, Peter Linebaugh, è autore (insieme con Marcus Rediker) di The Many-Headed Hydra (trad. it. I ribelli dell’Atlantico. Marinai e rinnegati: la storia perduta di un’utopia libertaria, Feltrinelli, Milano, 2005). Questo libro celebra l’Idra dalle molteplici teste, capaci di rinascere una volta tagliate, simbolo del popolo dei diseredati (marinai, schiavi, soldati, plebaglia, ma anche gruppi organizzati come i pirati e gli affiliati a sètte religiose radicali), e la contrappone a Ercole, simbolo di Ordine e Progresso, l’eroe della classe dominante britannica nei secoli che vanno dal regno di Elisabetta I all’ascesa al trono di Vittoria.
Infine, l’eminente antropologo statunitense Marshall Sahlins (nato nel 1930) partecipò al movement negli anni Sessanta e alle lotte contro la guerra del Vietnam, prima di trascorrere due anni a Parigi, dove ebbe modo di vivere il Maggio ’68.] 

1930 — Negli Stati Uniti, l’approvazione della Legge sulle Piante (Plant Act) sconvolge la distinzione tra vivente e inanimato prima unanimemente riconosciuta (in base alla quale solo l’inanimato poteva essere oggetto di un brevetto), sostituendole una nuova opposizione: quella tra i prodotti della natura (inanimato + vivente vegetale o animale) e l’attività dell’uomo.
Sulla base di questa distinzione, il vivente può d’ora in poi essere scomposto in vivente naturale e vivente artificiale: basta un intervento umano attivo sulla struttura del vivente perché esso prenda de jure, lo statuto di «vivente artificiale» e, pertanto, lo statuto di «cosa» o «bene». Situandosi «fuori della natura», l’uomo-capitale può rendersene giuridicamente signore.
Il Plant Act pone così la premesse giuridiche per la capitalizzazione del settore agro-alimentare e, più in generale, del vivente (che sfocerà infine, all’inizio degli anni Settanta, nell’ingegneria genetica e nelle biotecnologie).
Il «brevetto della vita» e la connessa vicenda degli accordi sui diritti di proprietà intellettuale (TRIPs) dimostrano, ancora una volta, come avesse ragione quel napoletano il quale, una cinquantina d’anni or sono, scriveva che la pretesa alla proprietà intellettuale è, fra tutte, la più infame.
«La veduta della natura che si acquisisce sotto la signoria della proprietà privata e del denaro, è l’effettuale dispregio, la pratica svalutazione della natura, che certo esiste nella religione ebraica, ma esiste solo come vanteria. In questo senso Thomas Müntzer dichiara insopportabile “che tutte le creature siano state rese proprietà, i pesci nell’acqua, gli uccelli nell’aria, i vegetali sulla terra – anche la creatura dovrebbe diventar libera”» (Sulla questione ebraica di Karl Marx, nella traduzione di Luciano Parinetto). La vecchia rappresentazione predatoria e signoresca della natura, in cui l’uomo dominato dal valore che si autovalorizza entro un processo di crescente autonomizzazione compensa la sua reale impotenza sociale nel dominio fantasmatico della natura, questa vecchia rappresentazione compensatoria vuole ora diventare performance, realtà prodotta, addirittura l’unica realtà validata dai protocolli di adeguatezza alla Modernità, così come la declina il totalitarismo del Capitale Senile. 

1973 — Le disgrazie non giungono mai sole: inaugurazione della centrale atomica autofertilizzante Phœnix a Marcoule (Francia) e produzione di un ibrido di grano e segala.
La vicenda del nucleare è paradigmatica: sotto il dominio reale del Capitale Totale non si può distinguere un uso civile «buono» delle tecnologie di punta da un loro uso militare «cattivo», una ricerca «buona» da un impiego «cattivo», un uso «controllato» e «pubblico» da uno «privato». È un continuum di comando, business, servitù e demenza.
Ciò viene riconosciuto, benché (ovviamente) in modo più neutro e con parole più sobrie, anche da analisti e sociologi della scienza: «In effetti queste discipline [l’Autore sta parlando dell’Artificial Intelligence e dell’Artificial Life] – la cui difficile collocazione nell’area scientifica o in quella tecnologica testimonia la costituzione di un continuum fra scienza e tecnologia che costituisce uno degli eventi originali del XX secolo – non hanno come finalità dichiarata la sola conoscenza dei fenomeni legati all’intelligenza o alla vita. Esse, in verità, mirano esplicitamente alla “riproduzione” del proprio oggetto di indagine e, si badi bene, non nella sola e classica accezione della “riproducibilità” di ipotesi sullo stato del mondo, ma esattamente nel senso di una ricostruzione dell’oggetto naturale sulla base di qualche suo modello» (Massimo Negrotti, L’organismo si fonde con la macchina; la vita artificiale, in Atlante del Novecento, Utet, Torino, 2000, vol. II).
A chi assegnare la palma della demenza nel campo delle clonazioni? A Francis Fukuyama (un oscuro funzionario del dipartimento di Stato USA «lanciato» nel 1988 sul palcoscenico del «pensiero unico» a opera della Fondazione Olin: prodotti chimici), con la sua tesi su di una «post-umanità» in cui realizzare per via biotecnologica «ciò che gli specialisti dell’ingegneria sociale non sono stati in grado di fare»? Oppure al biologo evoluzionista britannico Richard Dawkins, il quale a proposito dell’ibridazione uomo-scimpanzé ha scritto che «il mondo che verrebbe tanto sconvolto da un evento così secondario, come un’ibridazione, è veramente un mondo specista, dominato dalla mente discontinua»? [Ultimora: entra in corsa e guadagna subito le posizioni di testa Giuseppe Stalin, che a metà degli anni Venti «finanziò un piano segreto per generare in laboratorio “un nuovo essere invincibile”», sognando «un’armata costituita da umanoidi dotati di una forza prodigiosa e di un cervello sottosviluppato: “Poco sensibili al dolore, resistenti e indifferenti alla qualità del cibo”. Il Politburo del PCUS nel 1926 approvò il progetto e incaricò l’Accademia delle Scienze di studiare come produrre “macchine da guerra viventi”» (nonché forza-lavoro gratuita, da sfruttare nelle miniere di carbone, per lo scavo di canali, per la costruzione di strade e ferrovie in Siberia e nelle regioni artiche). Il progetto, che fu affidato al famoso genetista Ilia Ivanov, ottenne l’appoggio anche dell’Istituto Pasteur di Parigi. Di fronte ai ripetuti fallimenti, la ricerca fu bloccata all’inizio degli anni Trenta, ma l’allevamento georgiano delle scimmie per l’ibridazione sarebbe stato smantellato solo nel 1991. Cfr. Giampaolo Visetti, URSS, l’esercito degli uomini-scimmia, «la Repubblica», 18 dicembre 2005.]
Sono gli stessi toni deliranti, lo stesso terrorismo modernista che si udirono alla i Conferenza di Ginevra sugli usi pacifici dell’energia nucleare nel 1955: mirabolanti promesse circa le centrali elettronucleari (tecnologicamente sicure, prive di effetti ambientali dannosi e capaci di produrre uno sviluppo economico illimitato), le possibilità d’impiego controllato delle esplosioni atomiche (per spianare montagne e costruire canali) e una serie di benefìci in campo medico (radiologia diagnostica e terapeutica). Lì, probabilmente, ebbe inizio l’èra della completa prostituzione della comunicazione, della scienza e della medicina agli imperativi del capitale e dello Stato (che negli Stati Uniti, nel trentennio ’44-74, ha comportato, fra l’altro, centinaia di fughe radioattive intenzionali e 4 mila esperimenti di radiazione su cavie inconsapevoli: bambini affidati a istituti assistenziali, malati gravi, uomini di colore, carcerati e minatori). 

2. Su alcune esperienze di critica della scienza e della tecnologia prodotte dal movimento, in Italia, dall’inizio degli anni Settanta a oggi 

Il Sessantotto, l’«autunno caldo», la controcultura e i movimenti di liberazione delle donne producono una sferzante critica sociale del sapere tecnico-scientifico, del ruolo degli specialisti, del nesso sapere-potere. «Quel che viene contestato è il ruolo professionale, inteso come esercizio del potere legittimato dall’esclusività delle competenze tecniche e, insieme ad esso, la pretesa neutralità del sapere scientifico» (scheda sui «Movimenti nelle professioni», in Il Sessantotto, la stagione dei movimenti. 1960-1979, Edizioni Associate, Roma, 1988). Come scrive Primo Moroni nel libro L’orda d’oro 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale (2ª ed. Feltrinelli, Milano, 2005), «tra le dinamiche interne alla forma di lotta non vanno dimenticate quelle che riguardano il campo delle scienze o della scienza tout court. Qui non ci sono unicamente le innovazioni tecnologiche elaborate per controllare la conflittualità operaia, c’è anche il mondo della medicina e della psichiatria, i problemi della salute del corpo e della mente. Gli anni Settanta sono stati una critica radicale e innovativa, senza ritorno, del medico come “tecnico del capitale”, dello psichiatra come “tecnico del controllo”. Già in queste definizioni è contenuto il percorso critico che porterà alcuni “tecnici” delle istituzioni totali a mettere in discussione il proprio ruolo, seguendo un analogo percorso praticato dagli intellettuali dissidenti degli anni Sessanta».
Passeranno diversi anni prima che questo colpo venga assorbito, l’Esperto possa reindossare i suoi paramenti sacri e il Sapere possa cercare nuovamente di riautentificarsi come Potere Buono.
Nel ’68, Einaudi pubblica il libro L’istituzione negata. Rapporto da un ospedale psichiatrico, a cura di Franco Basaglia (60 mila copie vendute, tra il ’68 e il ’72). «L’impatto formidabile del lavoro di Basaglia non è solamente dovuto al suo rendere visibili gli orrori dell’istituzione manicomiale e l’umanità dolente dei reclusi (si sarebbe trattato in questo caso di un semplice compito di denuncia di tipo riformista), ma dal suo andare alle radici della funzione della psichiatria e della figura del “folle”, del “matto”, come figure e funzioni tutte interne alla logica di dominio del capitale» (P.Moroni). Nel 1972 compaiono i «Fogli di informazione», a cura di Agostino Pirella e Paolo Tranchina. Partendo dall’esperienza dell’Ospedale Psichiatrico di Gorizia e dal gruppo che fa capo a Franco Basaglia, la critica del manicomio come istituzione totale si allarga all’insieme delle istituzioni e strutture basate sulla segregazione e l’esclusione.
Oltre all’esperienza basagliana, non si possono non ricordare qui i nomi di Sergio Piro e Giorgio Antonucci, la diffusione in Italia di Fare della malattia un’arma dell’SPK [Collettivo Pazienti Socialisti dell’Università di Heidelberg] da parte del Collettivo Editoriale Genova (Genova, s.d.), la Psicopatologia del non-vissuto quotidiano. Appunti per il superamento della psicologia e per la realizzazione della salute di Piero Coppo (già partecipe di «Ludd»), l’allegra brigata degli «analisti selvaggi», le riviste «Il piccolo Hans» e «L’Erba voglio», nonché il cospicuo utilizzo che nel movimento, intorno alla metà degli anni Settanta, si fece di Szasz e Goffman (autori, rispettivamente, de Il mito della malattia mentale e di Asylum), Foucault, Deleuze e Guattari.
Nel ’73-74 sia l’Assemblea autonoma dell’Alfa Romeo (organo: «Senza padroni») sia l’Assemblea autonoma di Porto Marghera (organo: «Lavoro zero», bollettino ciclostilato) producono studi e autoinchieste su comando capitalista, sfruttamento e nocività (si veda anche Mortedison di Giovanni Rubino e Corrado Costa, 1974). I frutti di questo filone di ricerca «operaia» continueranno poi a comparire su riviste e pubblicazioni come «CONTROinformazione», «Primo Maggio», Il comando cibernetico e «Metroperaio».
E la critica passerà per mille rivoli dalla «fabbrica» al «sociale», dalla «produzione» alla «riproduzione». A mo’ d’esempio di questi transiti, citiamo il n. 467 di «Casabella» (marzo 1981). In questo fascicolo, dedicato al tema Condizione femminile e condizione abitativa, le tipologie e tecnologie dello spazio domestico sono «smontate» e criticate, alla luce degl’insegnamenti di Sigfried Giedon (L’èra della meccanizzazione, trad. it. Feltrinelli, Milano, 1967), Werner Hegemann (La Berlino di pietra. Storia della più grande città di caserme d’affitto, trad. it. Mazzotta, Milano, 1975), Henri Lefebvre, Michel Foucault ecc. Tra i saggi più significativi, quello delle tedesche Barbara Duden e Gisela Bock. Quest’ultima in quegli anni animava, insieme con Karl Heinz Roth e Angelika Ebbinghaus, la rivista «Autonomie. Materialien gegen die Fabrikgesellschaft», molto legata al filone italiano dell’Autonomia Operaia. Sul n. 13 di questa rivista (Neue Folge, 1983), dedicato a Imperialismus in den Metropolen. Der technologische Angriff, va segnalato Sabotage, una ben documentata ricerca sulle pratiche di sabotaggio condotta sul filo del divenire dell’esperienza proletaria.
Nelle Otto tesi per la storia militante «Primo Maggio» cercherà di trarre da queste esperienze una visione della scienza di portata generale: «Proviamo ad assumere […] il punto di vista operaio sulla scienza. Scienza come macchinario, quindi scienza come “potenza ostile” alla classe, secondo la felice espressione marxiana nei Grundrisse, lavoratore intellettuale come lavoratore produttivo, inserito nel ciclo di socializzazione del capitale o nell’apparato di legittimazione del comando. […] In conclusione: scienza e tecnologia come una cosa sola, materializzata in macchinario, “potenza ostile” alla classe, oggetto ambedue di un processo parallelo di liberazione, da parte della classe e del lavoro intellettuale, concreto o potenziale. Non appena la classe e il lavoro intellettuale si muovono in maniera antagonista enormi processi cognitivi s’innescano all’interno dello scontro, come prodotto dello scontro, una forza-invenzione latente si libera e si traduce in conoscenze specifiche, nuove tecniche e nuove scienze» («Primo Maggio, n. 11, inverno 1977-78).
All’inizio del 1974 Giulio Alfredo Maccacaro, direttore dell’Istituto di Biometria dell’Università di Milano, assume la direzione di «Sapere», mensile di divulgazione scientifica fondato nel 1935 da Carlo Hoepli.
[Maccacaro, ex partigiano della Brigata Barni, attiva nell’Oltrepò pavese, fin dall’inizio degli anni Cinquanta si era impegnato in coraggiose e spesso solitarie battaglie contro le baronie medico-universitarie (Toglie il respiro il nitrile nei corridoi, / mentre marciano in divisa baroni plebei: / vanno in processione col camice, il regolo, i quiz / la superbia, l’ignoranza e la routine) e in difesa delle loro vittime, come quei bambini ricoverati nella clinica pediatrica dell’università di Pisa, costretti a ingoiare colture di germi «noti come capaci di accompagnarsi a episodi acuti di gastroenterite», nel 1953; o quei neonati costretti a respirare gas nervino alla Clinica del lavoro di Milano, oppure a convivere per tutta la vita con eczemi causati volontariamente, sempre all’Università di Milano, alla clinica dermatologica. Per non parlare del «caso Sirtori», direttore generale dell’Istituto Gaslini di Genova, che aveva somministrato a due bambini di 3 e 2 anni e a un ragazzino di 8, affetti da epatite virale, l’azotriopina, un farmaco che invece di curare la malattia ne potenziava gli effetti, così da riuscire a fotografare il virus.
Nei primi anni Settanta Giulio Maccacaro avvia una sua inchiesta sulle vittime del talidomide, il «sedativo maledetto» responsabile di migliaia di casi di focomelia in Europa. E scopre che il farmaco era stato commercializzato in Italia da almeno sei industrie, causando come minimo un centinaio di focomelici, nessuno dei quali risarcito. Pochi mesi prima, il 18 ottobre 1970, aveva pubblicato sulla rivista «L’Astrolabio», in collaborazione con Renato Boeri, Elvio Fachinelli e Giovanni Jervis, una controperizia sull’autopsia di Giuseppe Pinelli, arrivando a una conclusione tanto argomentata nei dettagli quanto semplice: «Suicidio impossibile» (Giampiero Borrella, Un uomo da non dimenticare. Giulio Maccacaro, http://www.mobydick.it/giorno/maccar.html). Infine, a metà degli anni Settanta, segue con passione la vicenda dei militanti della RAF incarcerati e sottoposti alla «tortura dell’isolamento», collaborando alla redazione del libro 1975, tortura in RFT (Collettivo editoriale 10/16, Milano, 1975), e il disastro ambientale di Seveso:
«Data: 10 luglio 1976; luogo: Seveso e altri comuni della Brianza; colpevole: ICMESA di Meda; mandante: HOFFMANN - LA ROCHE di Basilea; complici: governanti e amministratori italiani di vario livello (centrale, regionale, locale); arma: organizzazione scientifica di produzioni tossiche; reato: lesioni e danni di varia natura e gravità; vittime: lavoratori, popolazione, ambiente. […] Un po’ per ignoranza, un po’ per cercare di evitare che le donne incinte della zona ricorressero all’aborto terapeutico per molto tempo la scienza ufficiale cercò di minimizzare i danni da diossina. Ci fu addirittura un cretino, tal Trabucchi professore all’università di Milano, che si offrì di mangiare l’insalata di Seveso per dimostrare che non faceva danno. […] Intanto la Hoffmann organizzava congressi su congressi dove potevi chiedere qualunque cosa, anche l’odalisca in camera, purché accettassi acriticamente e diffondessi le tesi tranquillizzanti della multinazionale. Risultato: giornali scientifici considerati seri come “The Lancet” pubblicarono soffietti a favore della tesi dell’innocuità della diossina; in Svizzera nessun giornale parlò mai del disastro di Seveso» (da «Sapere», n. 796, novembre-dicembre 1976, editoriale di Giulio Maccacaro). Si veda anche il volume Gli erbicidi: usi civili e bellici. Il Viet Nam, i Veterani USA, Seveso. Effetti Tardivi sull’Uomo e l’Ambiente, a cura di Luigi Bisanti, Coneditor, Milano, 1985, che contiene gli atti di un convegno promosso e organizzato dal Comitato Italia-Vietnam di Milano. Inoltre: Attualità del pensiero e dell’opera di G.A. Maccacaro, a cura del Centro per la salute «Giulio A. Maccacaro» di Castellanza, Milano, 1988.]
Per caratterizzare lo spirito che dovrà animare la nuova serie della rivista, Maccacaro scrive: «L’iniziativa si concentra su un solo tema: scienza e potere. Il potere costituito dal capitale e il potere rivendicato dal lavoro. La scienza come fattore di moltiplicazione del primo e come fattore di liberazione del secondo: dunque non opera di divulgazione della scienza ma opera scientifica, cioè fondata sull’analisi dell’esperienza delle masse, di propaganda delle sue contraddizioni, come la percepiscono dall’interno gli operatori del settore, ma soprattutto come la vivono, oggettivamente e soggettivamente, quelli che, “esterni”, dal settore vengono lavorati. Far parlare chi di scienza muore e chi, sapendolo o no, di scienza fa morire. Riscoprire il primato politico della lotta dei primi che sola si può porre come momento unificante per la liberazione dei secondi».
«Fare scienza» significa sempre lavorare «per» o «contro» l’uomo: sulla base di quest’impostazione critica «Sapere» si occupa di crisi energetica ed ecologia, del cancro da lavoro, della diossina a Seveso e delle varie nocività industriali, di demografia, di informatica e organizzazione del lavoro, di alimenti industriali, genetica, psichiatria, psicologia e studio dell’intelligenza, del rapporto fra medicina, economia e potere.
Sulla scorta di quest’esperienza, nel 1976 nascono «Medicina democratica», movimento di lotta per la salute, in collegamento con varie realtà sociali e di fabbrica dell’Italia settentrionale, a partire dal CdF della Montedison di Castellanza, e «Geologia democratica», emanazione di un organismo costituitosi a Milano a dieci anni dalla «catastrofe costruita» del Vajont (la definizione è di Tina Merlin), che affronta criticamente questioni quali l’approvvigionamento idrico, l’inquinamento, la fame, le alluvioni, il dissesto idrogeologico e la difesa del suolo.
Dopo la morte di Maccacaro, avvenuta il 16 gennaio 1977, all’età di 53 anni, il gruppo redazionale della rivista «Sapere» viene velatamente accusato dal PCI di «fiancheggiare» la lotta armata e sostituito con uno più «morbido» e «responsabile». Gli elementi più vicini all’ispirazione di Maccacaro daranno in seguito vita alla rivista «SE. Scienza/esperienza», diretta da Giovanni Cesareo.
Nel marzo 1974, sotto la direzione di Dario Paccino (che l’anno precedente aveva pubblicato un importante libro presso Einaudi, L’imbroglio ecologico), inizia ad apparire «Rosso Vivo», foglio mensile di lotta ecologica (redazione milanese: Ettore Tibaldi). Nell’articolo di apertura del n. 0 si legge: «Il mondo del padrone va in rovina, e allora ecco l’imbroglio ecologico: il tentativo di far credere che siamo tutti sulla stessa barca. […] Questo mondo Nero Morto, è il suo mondo […] il nostro mondo, la società libera dallo sfruttamento, dalla servitù del lavoro nasce dalle rovine di questo […] diamogli la spallata finale. Questo è quello che intendiamo dicendo Rosso Vivo. Perché ci interessa la vita e non vogliamo che acqua, cielo, terra, cervelli siano inquinati e avvelenati dal padrone […] fino a oggi abbiamo lasciato giocare su questo terreno solo il padrone. È stato uno sbaglio […] crediamo che sempre più questo è un terreno reale di scontro […] Per questo abbiamo fatto un giornale […] che deve nascere dal movimento reale».
Dal 1974 al 1986 la rivista di Paccino, che grossomodo fa politicamente riferimento a Via dei Volsci, tratterà di salute, alimentazione, suolo e territorio, questione urbana, nucleare e risorse energetiche, carceri e manicomi, lavoro, sottosviluppo ed emigrazione, minoranze, guerra.
Verso la metà degli anni Settanta, come portato diretto all’interno dell’editoria ufficiale dell’elaborazione di movimento, vanno segnalate almeno quattro iniziative: le collane “Scienza e politica” (a cura di Marcello Cini e Giulio A.Maccacaro) e “Medicina e potere” (a cura dello stesso Maccacaro) presso Feltrinelli, la collana “Salute e società” (anch’essa sotto la direzione editoriale di Maccacaro) per ETAS/Kompass e, presso Bompiani, la collana “La scienza critica” (a cura di Gian Battista Zorzoli).
 In apertura della collana “Scienza e politica” si legge: «In ogni caso importava nascondere l’intreccio tra scienza e profitto: negare che la scienza sia strumento modulabile per il potere della classe dominante, arma teleguidabile del comando imperialista. Ma Vietnam, rivoluzione culturale cinese, maggio francese, autunno caldo italiano hanno scoperto quell’intreccio, rovesciata questa negazione. Così come il rifiuto della delega e la domanda di partecipazione, l’affermazione della soggettività operaia e la lotta all’organizzazione capitalistica del lavoro hanno posto le premesse per una critica di massa del feticcio scientista». Fra i testi apparsi in questa collana va ricordato almeno L’ape e l’architetto, che nel 1972 aprì in Italia il dibattito sulla «non neutralità della scienza». [Il PCI cercò di squalificarne gli Autori – Marcello Cini, Giovanni Ciccotti, Michelangelo de Maria e Giovanni Jona-Lasinio – definendoli «epistemologi della domenica»; e fu a proposito di questo libro che Giorgio Bocca incluse il fisico Marcello Cini fra i «cattivi maestri» che avrebbero avviato una generazione verso il «terrorismo» (Bocca non usò le virgolette). Al riguardo, si veda l’autobiografia di Marcello Cini, Dialoghi di un cattivo maestro, Bollati Boringhieri, Torino, 2001.]
Questi temi vengono ripresi nella presentazione al libro che inaugura nel 1975 la collana “La scienza critica” (La spirale delle alte energie. Aspetti politici e logica di sviluppo della fisica delle particelle elementari, di Angelo Baracca e Silvio Bergia): «Tra i frutti essenziali della recente “rivoluzione culturale” studentesca c’è la consapevolezza della non neutralità della scienza».
Infine l’ipotesi di lavoro che “Medicina e potere” si propone di verificare e approfondire è che «la medicina – come la scienza – sia un modo del potere: che, anzi, nella conversione e gestione scientifica di dottrine e pratiche, contenuti e messaggi, enti e funzioni, ruoli e istituti, divenga propriamente potere, sostanza e forma del suo esercizio».
 Nel febbraio 1976 compare il primo numero dei «Quaderni di controinformazione alimentare», pubblicati dalla CLESAV, la cooperativa libraria e editoriale della Facoltà di Agraria di Milano. La rivista, che già nel nome rimanda all’esperienza pratico-teorica della controinformazione, tratta estesamente dell’industria alimentare, denuncia l’uso di additivi e la presenza di contaminanti, affronta la questione della costruzione di un movimento di consumatori, pubblica documentazioni e inchieste su singoli cibi, ospita dibattiti sulla macrobiotica, schede su erboristeria ecc.
Oltre ai «Quaderni di controinformazione alimentare» la CLESAV ha pubblicato «Coordinamento agricoltura» (1975-1977) e importanti testi critici sull’industria agro-alimentare, la questione dei monopolî delle sementi, il ciclo capitalista della fame, l’apartheid.
Su questi temi va ricordata anche un’esperienza come quella dei «Quaderni d’Ontignano», editi dalla Libreria Editrice Fiorentina (quella che aveva pubblicato Lettera a una professoressa della Scuola di Barbiana, L’obbedienza non è più una virtù di don Milani e i testi della Comunità dell’Isolotto). Fra i titoli più significativi dei «Quaderni d’Ontignano» segnaliamo: I miti dell’agricoltura industriale, di F.M.Lappè e J. Collins; Wovoka, la proposta rivoluzionaria dei nativi americani; La rivoluzione del filo di paglia, di Masanobu Fukuoka.
«El Salvanèl el vegnirìa a eser en folet dispetos che l’abita su per le nose montagne. Nà volta i lo conoseva tuti… ancòi, i mateloti no i sa gnanca chi che l’è! El Salvanèl l’ha sempre defendù le val, i boschi e tuti i scròzi ’ndo che ’l vive. Bòm come ’l pam con chi che ’l zuga con lu, dispetos e anca catìf quan’ ché l’om el vol far el furbo, e darghe da entender che l’è el parom del mondo, quan’ che ’l prova a profitarsene de lu, de la so casa, de la so bontà. Da ’sto folet, l’om l’ha ’mparà tùt quel che serve per poder viver sui monti, a provar rispèt per la tera ’ndo che se vive»: così recita l’incipit di una delle riviste («El Salvanèl», n. 1, gennaio 2005) che mi donaste la sera del «Van der Lubbe».
Proviamo ora a mettere in costellazione el Salvanèl roveretano del 2005 con i Kabouters amsterdamesi del ’69: «Van Duijn, uno dei teorici del Provotariato, dopo lo scioglimento del movimento, si è ritirato su un’isola remota dei Paesi Bassi, in una fattoria di coltivazioni biodinamiche. Qui ha ascoltato rapito i racconti di un contadino che non usa le macchine a motore per i lavori agricoli, non volendo spaventare gli gnomi, senza il cui aiuto i prodotti della terra non crescono bene. La cosa colpisce la fertile fantasia di Van Duijn, che vede nello gnomo il simbolo perfetto con cui sostituire la bicicletta bianca dei Provos. […]
«Perché gli gnomi? Perché sono creature attive, inafferrabili, dotate di poteri magici, maliziose e amiche della natura e degli animali. Secondo Paracelso, gli gnomi sorvegliano i tesori della terra, “affinché non vengano trovati tutti lo stesso giorno, siano distribuiti a poco a poco, non a qualche persona solamente, ma a tutte”. (Una spiccata attenzione ecologista ed egualitaria, quella che qui dimostra il buon Filippo Teofrasto Bombasto. E non a caso. Infatti Paracelso, oltre a socializzare liberamente i suoi saperi come “medico dei poveri” e a battersi per tutta la vita contro la iatrocrazia accademica e ignorantissima, fu un “fiancheggiatore” dei movimenti rivoluzionari del “pover’uomo comune” che scossero l’Europa centrale nel primo ventennio del Cinquecento passando poi alla storia col nome di Guerra dei contadini.)
«Gli gnomi hanno inoltre la capacità di spostarsi attraverso la terra senza impedimenti, come fanno i pesci nell’acqua e gli uccelli nel cielo. Grandi riciclatori (una loro attività classica è quella di risuolare le scarpe) e molto generosi (chi è che fabbrica i giocattoli per Babbo Natale?), gli gnomi sono i guardiani della Pentola dell’Oro (una conoscenza occulta). Parlano la lingua degli animali, gironzolano intorno alle amanite, spipazzando sereni e facendo un check-in quotidiano alla natura. Inoltre, c’è una leggenda che ha a che fare con loro e che riguarda proprio Amsterdam: si narra che nel 1300 in città vivessero dei piccoli esseri che erano tenuti in condizione di schiavitù dagli uomini. Un giorno si ribellarono e scomparirono, lasciando gli uomini nei guai. Da allora gli abitanti del borgo di Amsterdam impararono che tutti devono avere pari dignità di cittadini e pari diritti.
«Dalla sua esperienza nella fattoria di Loverendale, Van Duijn ricava De boodschap van een wijze Kabouter (Il Messaggio da uno Gnomo Saggio). Questo libro, uscito nel settembre del ’69 e destinato a conoscere un grosso successo in Olanda, espone un progetto di riconciliazione tra natura e cultura, unica via d’uscita da una società nevrotica, capitalista e tecnocratica. Le preoccupazioni ecologiste abbozzate dal movimento Provo vengono riprese e approfondite da Van Duijn, che ha trovato ispirazione nei testi del fondatore dell’Antroposofia, Rudolf Steiner, di Domela Nieuwenhuis, di Erich Fromm e soprattutto in quelli di Kropotkin. Quest’ultimo aveva elaborato una visione della natura in contrasto con la filosofia capitalista e con quella marxista, entrambe basate sul culto dell’Homo faber, il dominatore della natura. A differenza di Marx, che vedeva nella centralizzazione e concentrazione di grandi masse operaie nelle metropoli un’esperienza che, per quanto traumatica, avrebbe favorito la presa di coscienza rivoluzionaria, prima tappa verso la conquista del potere da parte del proletariato, l’anarchico russo propugnava il decentramento e la creazione di piccole officine collegate a orti e giardini. Egli non vedeva evoluzione e rivoluzione come due movimenti antitetici, ma come fattori complementari. Van Duijn, per parte sua, dichiara che la rivoluzione ecologica deve partire dalla città e lancia una campagna per far diventare Amsterdam “Città degli Gnomi”. Il primo passo sarà quello di trasformare la città in una grande fattoria biodinamica, con tanto di pecore che pascolano sui tetti delle case, per riprendere contatto con la natura. Come sempre in anticipo sui tempi, da Amsterdam viene lanciata la parola d’ordine di smantellare le industrie nocive e inutili e frenare la crescita economica (in precedenza, solo Amadeo Bordiga aveva avuto il coraggio di affermare, già negli anni Cinquanta, simili “eresie”)» (Matteo Guarnaccia, Gioco magia anarchia: Amsterdam negli anni Sessanta, Cox 18 BOOKS, Milano, 2005).
El Salvanèl e i Kabouters: non siamo qui di fronte a uno di quei dialoghi sotterranei che accomunano nel movimento i vivi, i morti e i nascituri, come s’è visto nella Libera Repubblica di Venaus? E sentite cos’altro affermavano gli Gnomi batavi: «L’amanita della nuova società trarrà il suo nutrimento dalla linfa del tronco che sta marcendo, finché l’avrà consumato tutto. La vecchia società svanirà davanti ai nostri occhi, dopo che l’avremo consumata completamente. Ovunque spunteranno le amanite della nuova società. Anelli fatati di Città degli Gnomi si confedereranno in una rete mondiale: il Libero Stato di Orange» (Orange come presa in giro della casa regnante olandese e dei razzisti sudafricani).
[Altre iniziative editoriali e pubblicazioni che è opportuno citare:]
«Senza tregua» e «Rosso Vivo» pubblicano un numero speciale Contro la produzione di morte (23 settembre 1976).
Nel 1977 il Collettivo Controinformazione Scienza (Brescia) pubblica Kapitale e/o scienza. Per un dibattito di base non specialistico sul Kapitale, la scienza, la tecnologia, la nocività e altre cose di cui sentiamo spesso parlare ma di cui non si parla quasi mai, Calusca Edizioni, Milano.
Agli inizi del 1978 «Rosso» individua quattro settori d’intervento e dibattito: fra questi vi è la lotta allo «Stato nucleare ed alla produzione di morte».
All’inizio del 1978, a Milano, esce il n. 0 di AAM, come strumento di coordinamento fra le esperienze alternative in materia di agricoltura, alimentazione, medicina. Analoga funzione svolge «Kontatto».
«Re nudo», Stampa Alternativa, Arcana Edizioni, «Riza psicosomatica» pubblicano una ingente quantità di materiali su comunitarismo, modi di vita alternativi, agricoltura biologica, riciclaggio, alimentazione, medicine «altre» ecc.
Nel 1979 iniziano ad apparire i quaderni di scienze, storia e società «Testi & Contesti», cui collaborano scienziati e ricercatori come Angelo Baracca, Elisabetta Donini, Anna Lorini, Stefano Ruffo ecc. La rivista, edita da Clup-Clued, vuole approfondire quei percorsi che a partire dagli anni Sessanta avevano progressivamente messo in luce come «non solo il potere dominante condizionava e condiziona l’uso del prodotto ma gli stessi metodi, i criteri epistemologici e culturali che sono alla base dei risultati della ricerca erano condizionati dai gruppi di potere».
Lo stesso anno le Edizioni Filorosso pubblicano La scienza operaia contro lo Stato nucleare, un testo in cui sono raccolti una serie di scritti apparsi su «Rosso» (n. novembre 1977; n. 22-23, gennaio 1978 e n. 29-30, maggio 1978), «Senza tregua» (n. speciale, 1978), «I Volsci» (n. 2, marzo 1978 e n. 6, ottobre 1978), «La Voce Operaia» (n. 309, marzo 1978) e «Il rosso vince sull’esperto» (n. speciale, 1977).
Le Edizioni Anarchismo pubblicano: L’inquinamento, a cura di La Hormiga (1977); Vroutsch, La radioattività e i suoi nemici (1979); Michèle Duval, Grandezza e decadenza dei seguaci dell’amianto (1979) e Pierleone Porcu, Contro la tecnologia nucleare, dal dissenso alla lotta insurrezionale (1986).
La Salamandra, Antistato-Elèuthera e Agalev traducono Murray Bookchin, esponente di punta dell’«ecologia sociale». Inoltre Elèuthera pubblica, sia in forma di libro sia sulla rivista «Volontà», numerosi contributi su genere/scienza, bioregionalismo, città sostenibile, progettazione naturale ecc.
Il Centro di Documentazione di Pistoia, oltre a dare conto puntualmente da più di trent’anni, tramite il suo bollettino, delle produzioni culturali e critiche del movimento, nella collana «Altrascienza», pubblica una serie di testi su armi chimiche, nucleare, pesticidi, ambientalismo, imballaggi, agricoltura educata / agricoltura avvelenata, rischio alluvioni e difesa dei fiumi, effetto serra ecc.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, in modo tra loro indipendente, «Anarchismo», l’Accademia dei Testardi e La Fiaccola fanno conoscere in Italia l’elaborazione dell’«Encyclopédie des Nuisances» (Enciclopedia delle nocività), una dozzina d’anni prima che Bollati Boringhieri la «scoprisse» (come avrebbe poi «scoperto» la rivista «Tiqqun»).
Parafrasando Shakespeare l’«Encyclopédie des Nuisances» così riassumeva i proprî intenti: «Vi sono certo più nocività sulla terra e nel cielo di quante ne potrà mai recensire un’enciclopedia. Ma si può cominciare da una qualsiasi di esse, se si prosegue consequenzialmente, per fare apparire contemporaneamente la loro unità, che non è detta da nessuno, e l’aspetto particolare che si può combattere». «Dopo più di due secoli, e nonostante essa pretenda, nella sua modestia, di essere ancora ben lontana dall’aver dispensato tutti i suoi benefìci, è evidentemente giunto il momento di giudicare dai fatti la produzione mercantile: ha in effetti trasformato il mondo abbastanza perché si possa valutare che cosa ci ha portato, e non ancora abbastanza perché non ci si possa più ricordare di che cosa ci ha privato. […] La nostra aspirazione è mostrare concretamente come la società di classe contenga (nasconda e rimuova) la possibilità del suo superamento, e come la sua lotta contro questa minaccia la porti ai peggiori eccessi in fatto di nocività; […] mostrare come ciascuna delle specializzazioni professionali che compongono l’attività sociale consentita arrechi il suo contributo alla degradazione generale delle condizioni di esistenza; […] mostrare la produzione delle nocività nel suo insieme come sviluppo autoritario la cui arbitrarietà è l’immagine capovolta e da incubo della libertà possibile nella nostra epoca. Contemporaneamente, si tratta d’indicare, là dove sono individuabili, le vie di superamento della presente paralisi storica, che le classi proprietarie sognano di rendere irreversibile riempiendola di protesi».
All’inizio degli anni Novanta vanno ricordate almeno queste esperienze:
– «Ludd 2000. Le mille ragioni della distruzione», Quadrimestrale di analisi e documentazione sulle nuove tecniche del potere post-industriale (supplemento ad «Anarchismo»);
– il libro La mal’aria. Aids e società capitalista neomoderna, a cura del Gruppo T4/T8, Calusca City Lights, Milano, 1992;
– la proposta editoriale di Quattrocentoquindici (1992): da Il tempo dell’Aids di Michel Bounan a Medicina maledetta e assassina ai titoli successivi (Il nemico è l’uomo, di Bertrand Louart: «Marx dice che le rivoluzioni sono la locomotiva della storia universale. Ma forse le cose stanno in modo del tutto del tutto diverso. Forse le rivoluzioni sono il ricorso al freno d'emergenza da parte del genere umano in viaggio su questo treno»; Free Internet: una bella trovata; OGM: Ordine Genetico Mondiale, di Christian Fons ecc.);
All’attacco della civiltà tecnologica, a cura degli Amici di Ned Ludd, Gratis, Firenze, 1993;
– la traduzione, nel 1993, presso Nautilus, di Treni ad alta nocività. Perché il Treno ad Alta Velocità è un danno individuale ed un flagello collettivo, pubblicato in Francia due anni prima dall’Alleanza per l’Opposizione a Tutte le Nocività;
– infine, una serie di esperienze legate al movimento della «Pantera» e ai suoi lasciti, soprattutto a Roma: Assalti Teorici, Avanzi di scienza. Scuola, università, tecnologia e capitale, Calusca Edizioni, Padova, 1994; Biotecnologie. Le frontiere nello sfruttamento della natura, a cura del Collettivo di Fisica e Filosofia, Roma, Università degli Studi «La Sapienza», s.d. [ma 1997]; L.A.S.E.R., Scienza Spa. Scienziati, tecnici e conflitti, DeriveApprodi, Roma, 2002.
Sulle esperienze attuali e/o del più recente passato – dall’edizione autoprodotta delle Osservazioni sulla agricoltura geneticamente modificata e la degradazione delle specie alla traduzione italiana di «Los Amigos de Ludd - Bollettino d’informazione anti-industriale», dalle «Crestomazie acratiche» all’attività del Comitato per la Difesa della Salute nei Luoghi di Lavoro e nel Territorio (Operai, carne da macello. La lotta contro l’amianto a Sesto S.Giovanni), da Scanzano al No Tav – è qui superfluo dilungarsi: ne sapete più voi dello scrivente. 

3. Due contributi teorici: Bordiga e Cesarano 

Amadeo Bordiga 

Gli argomenti trattati da Bordiga su fogli come «Il programma comunista» o «Battaglia comunista» erano affatto inattuali negli anni del secondo dopoguerra, ma sono oggi al centro del dibattito sul futuro del Pianeta. Bordiga cercò di definire su basi materialistiche i rapporti tra riproduzione/evoluzione della specie ed economia produttiva; si occupò dei guasti della civiltà urbana, del peso della sovrappopolazione sulla crosta terrestre, dell’innaturalità delle catastrofi cosiddette «naturali» (testi successivamente raccolti in Drammi gialli e sinistri della moderna decadenza sociale. 1951-1953); parlò di agricoltura (Mai la merce sfamerà l’uomo) e ambiente; soprattutto intraprese, in anticipo di lustri, la sistematica demolizione del mito della «produttività», cui contrappose la diminuzione del tempo di lavoro. (Su questi temi si veda l’introduzione redazionale a Murdering the Dead. Amadeo Bordiga on Capitalism and Other Disasters, Antagonism Press, London, 2001.)
Tre brani valgano per tutti: 

a) «La Tecnica […] pretende di essere un valore assoluto, al di fuori di ogni «partita doppia» […]. Ebbene, mai il ciarlatanismo, il corbellamento del proprio simile, il gabellamento più sfrontato delle menzogne, hanno attinto così alto livello, come in questa epoca in cui siamo “scientificamente” governati giusta i canoni della “tecnica”. […] Non vi è potente fregnaccia che la tecnica moderna non sia lì pronta ad avallare, e rivestire di plastiche verginali, quando ciò risponde alla pressione irresistibile del capitale e ai suoi sinistri appetiti» (Politica e «costruzione», 1952).
Bordiga scrisse queste parole nell’epoca d’oro della Big Science, quando la ricerca scientifica aveva assunto dimensioni e forme industriali, con megaprogetti – in primis il Progetto Manhattan per la costruzione della prima bomba atomica, comprendente «un complesso di laboratori grande quanto l’intera industria automobilistica degli Stati Uniti» (Bertrand Goldschmidt, cit. in Richard Rhodes, L’invenzione della bomba atomica, trad. it. Rizzoli, Milano, 2005) –, pianificazione di lungo periodo, forte sostegno da parte degli Stati nazionali (nascita nel secondo dopoguerra dei primi enti governativi per la ricerca, come la Commissione per l’Energia Atomica statunitense) e sinergie fra industrie, università e fondazioni private (come la Ford e la Rockefeller). Come non pensare che il ciarlatanismo e la fregnaccia attingano vertici inauditi, ora che, dopo le crisi e le ristrutturazioni degli anni Ottanta e Novanta, «il mondo della ricerca deve rivolgersi a istituzioni di credito, banche, organizzazioni internazionali che trasformano la scoperta scientifica in un’operazione finanziaria e imprenditoriale» (L.A.S.E.R., Scienza Spa, cit.), ora che i titoli tecnologici girano vorticosamente in Borsa, nei circuiti del fittizio per antonomasia, là dove «il denaro passa velocemente di mano in mano, prima di scomparire non si sa dove»? (Battuta che circolava a Wall Street, quand’era ancora lecito fare dell’ironia.) 

b) In un testo del 1958 Bordiga sfotte la «soggezione reverenziale per i “valori” capitalistici di libertà, civiltà, tecnica, scienza, potenza produttiva – termini tutti che noi, con Marx originario e uscito dal getto incandescente della fornace rivoluzionaria, non vogliamo ereditare, ma spazzare via con odio e disprezzo inesausti» (Le lotte di classi e di Stati nel mondo dei popoli non bianchi, storico campo vitale per la critica rivoluzionaria marxista). 

c) E in Proprietà e capitale, distruggendo il concetto di proprietà (anche di sé e del proprio corpo: «pura scempiaggine») e con ciò «tutta la ideologia borghese di potere e di sovranità giuridico-politica propria dei democratici», Bordiga cita Marx: «Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte di singoli individui apparirà così assurda come la proprietà privata di un uomo da parte di un altro uomo. Anche un’intera società, una nazione, e anche tutte le società di una stessa epoca prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla, migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive» (Il Capitale, III, p. 887). 

Giorgio Cesarano 

Nei primi anni Settanta, la consapevolezza che la catastrofe del capitale minaccia realmente la sopravvivenza dell’umanità e del Pianeta e la scommessa (all’insegna della parola d’ordine la vita contro la morte) sulla vitalità della specie che ha dato buona prova di sé nel ciclo di lotte allora appena conclusosi, sono tratti che accomunano le posizioni, pur diversificate, di tutta la corrente radicale (La véritable scission dell’I.S., Camatte, Cesarano). In particolare è di quest’ultimo che si vuole qui parlare.
Il 1973 è l’anno dello «shock petrolifero», delle domeniche senz’auto, dell’austerità, dell’affacciarsi di prospettive di «crescita zero». Giorgio Cesarano pubblica Apocalisse e rivoluzione: i tempi delle contraddizioni capitalistiche si stanno facendo stretti, ed è necessario che la dialettica rivoluzionaria incalzi il processo catastrofico in cui il capitale si scontra con i limiti termodinamici della biosfera. La nuova giovinezza che il capitale si è accordata dopo la Seconda Guerra mondiale è stata possibile solo sulla base di una negazione sistematica delle necessità ecologiche; gli squilibri sono ormai tali e tanti che anche i difensori del sistema avvertono la necessità di introdurre dei correttivi e giocano la carta dell’«autocritica».
Secondo Cesarano tutte le contraddizioni si assommano per disegnare la prospettiva dello scontro ultimativo che oppone la specie umana al capitale, giunto a colonizzare non solo l’estensione fisica del Pianeta ma la stessa interiorità dei suoi schiavi. La corporeità vivente è chiamata a insorgere contro il pericolo di annichilamento cui la espone la potenza autonomizzatasi e indementita del capitale e a superare i limiti di tutte le rivoluzioni «storiche».
In Apocalisse e rivoluzione sono delineati «i termini essenziali di una critica della “politica” che mentre individuava nella “politica” le strutture reificate dell’ideologia, introduceva a un ampliamento dell’ottica radicale diretto ad aprire il campo della critica a una dimensione totale dello scontro in atto, definito come il processo della rivoluzione “biologica”. Si trattava […] di uno scritto d’occasione, sollecitato dal “Rapporto del M.I.T.” (I limiti dello sviluppo, Mondadori), in cui le scienze più “nuove” del capitale anticipavano mistificatoriamente la partitura di quella crisi energetica che poco più tardi avrebbe occupato la “scena della storia”».
E l’anno dopo (1974) nel Manuale di sopravvivenza Cesarano scrive: «È tempo di vedere il movimento reale come il concreto avanzare della specie, e dell’individuo, verso l’affermazione dell’essere, al di là di ogni coazione a distruggersi. È tempo soprattutto di conoscere nella propria presenza la presenza materiale e “storica” del possibile. La rivoluzione parte dal corpo: dalla corporeità del desiderio che si conosce come materialmente possibile».
Questa prospettiva approda a una Critica dell’utopia capitale, inconclusa a causa del suicidio dell’Autore, avvenuto nel luglio 1975. In questo ponderoso testo Cesarano sviluppa l’analisi del dominio del capitale nella fabbrica della persona, attraverso la mortificazione e lo sfruttamento del corpo organico, l’alienazione linguistica, l’introiezione delle regole valoristiche e scambiste, la conformazione di tutti i livelli dell’esperienza agli imperativi del lavoro, del consumo, della rappresentazione, fino al punto che le donne e gli uomini vivi incarnano l’astrazione morta dell’essere-capitale e colgono il reale e il loro stesso esserci solo attraverso quest’astrazione: siamo al tentativo finale del capitale di realizzare l’antropomorfosi e al dispiegamento della sua mortifera essenza.
Per contro si ha il processo dialettico di costituzione della Gemeinwesen (comunità, essere comune dell’uomo), accesso degli uomini all’autogenesi creativa, inveramento delle loro potenzialità come esseri viventi e sociali, infine armonizzati nell’universo naturante. «Mentre tutto l’esistente non è che un deserto dominato dal capitale, la passione “muta” dei corpi si appresta a esplodere, affermandosi come “totalità naturante”, battendo in breccia i progetti cibernetici o di clonazione – che chiuderebbero per sempre la partita –, e rivelandone il carattere utopistico» (Francesco «Kuki» Santini, Apocalisse e sopravvivenza).
Ma invece dell’autogenesi creativa abbiamo avuto l’autodistruzione delle soggettività rivoluzionarie, il riflusso, la sconfitta, il pentimento di molti e un imperio del capitale che non esita a propagandare e a materiare le ideologie più reazionarie e decrepite. 

4. Conclusione 

«Quando un grave pericolo è alle porte le vie di mezzo portano alla morte,» recita un proverbio tedesco. Occorre praticare il «punto di vista della totalità», operare un «rovesciamento di prospettiva» tanto teorico che pratico. Ogni prospettiva e ogni lotta che non coinvolga la società nella sua totalità, restando parcellizzata e settoriale, finisce per essere recuperata dallo Stato delle Cose e inserita nella combinatoria del capitale.
La «iatrogenesi dell’in-salute», la Mucca Pazza e il pollo alla diossina, Seveso e Bophal, l’inquinamento elettromagnetico e la miriade di nocività vecchie e nuove, i 1200 morti sul lavoro all’anno, la Rivoluzione verde degli anni Cinquanta e l’odierna «pirateria dei semi», Chernobyl, Tokaimura e Los Alamos, lo «spettro della clonazione umana e l’ombra di Frankenstein», le guerre («etniche» o «umanitarie», di «bassa intensità» o high-tech: tutte le guerre, esclusa la Guerra Sociale), la rottura accelerata degli equilibri climatici e il saccheggio delle risorse naturali, lo sprofondare di aree sempre più vaste del Pianeta in crisi annichilenti sono altrettanti capitoli del Romanzo del Diavolo in corpo: l’insaziabile fame di plusvalore del capitale e le sue mastodontiche contraddizioni.
E allora? «Mirabile coincidenza: per salvare quel poco di esistenza umana che la cancrena della produzione mercantile non ha ancora disastrosamente conquistato […] serve una rivoluzione sociale; perché la rivoluzione sociale resti possibile, occorre difendere ciò a partire dal quale una vita libera dovrà essere costruita, e da dove solo si può ancora concepirla, e giudicare tutto il resto» («Encyclopédie des Nuisances»).

28 gennaio 2009

Contro la giustizia



[Titolo originale: Per regolare i conti, di Lopez Vargas, in Diavolo in corpo - rivista di critica sociale, n.3, 2000.]
Inviolabilità
Se si pensa che nella tradizione cristiana già il primo uomo apparso sulla terra disobbedisce al precetto divino ed incorre per questo nella punizione, e che a commettere il primo omicidio è un suo diretto discendente, è evidente come l'origine della giustizia si perda nella notte dei tempi, nascendo in risposta al problema posto da chi disturba l'ordinamento sociale ed economico. Motivo per cui dichiararsi contro la giustizia risuona all'orecchio dei più come uno scherzo di cattivo gusto, una provocazione, una follia, specialmente in un'epoca giustizialista come quella che stiamo attraversando. Un luogo comune di secolare solidità vuole infatti che non si possa avversare la giustizia, perché ciò significherebbe essere a favore dell'ingiustizia, del sopruso, della tirannia. E questa convinzione è penetrata talmente a fondo nell'animo umano, che tutti coloro che nel corso della storia hanno criticato la giustizia, si sono sempre premurati di specificare di essere contrari solo ad un suo particolare operato, a una sua cattiva gestione, a una sua applicazione considerata errata. Ma la giustizia in sé, la giustizia in quanto tale, è sempre stata considerata un concetto inviolabile.
Dati per scontati sia il disordine della condotta umana che la necessità di porvi un freno attraverso la giustizia, il solo dubbio capace di macchiare la nobiltà di questa misura riguarda al più la rettitudine di chi è incaricato ad amministrarla. La dea munita di spada e bilancia per manifestarsi ha bisogno di sacerdoti, i quali a volte possono non dimostrarsi all'altezza del compito affidatogli. Tutte le discussioni sulla giustizia si esauriscono qui, con la richiesta di un giudice umano capace di rompere con le tradizioni di una magistratura mummificata e fossilizzata negli articoli di un codice feroce. Per esprimersi "realmente", la giustizia non ha bisogno di un giudice funzionario, nemico naturale di chi ha violato il codice e che distribuisce sentenze in maniera automatica, ma di un giudice che faccia sentire il soffio dell'eguaglianza e della fratellanza nelle assoluzioni come nelle condanne. Perché - ci viene detto - è la legge che deve essere fatta per l'uomo, e non l'uomo per la legge. Chissà!
Soggezione
"Giustizia (s.f.): un articolo che lo Stato vende, in condizioni più o meno adulterate, al cittadino, a ricompensa della sua fedeltà, delle tasse e dei servizi resi." (Ambrose Bierce)
In effetti esiste più di un buon motivo per cui le critiche alla giustizia hanno avuto come oggetto principale la sua pretesa neutralità. Se è vero che Giustizia è sinonimo di Virtù - di una virtù oserei dire trascendentale che, se magari non è più espressione della volontà divina, rimane comunque lontana dalle meschinità umane - dall'altro lato non si può nascondere che essa si manifesta concretamente grazie a leggi fatte dall'uomo. E l'uomo, si sa, non è perfetto.
Qualcuno ci ha tramandato che l'origine della parola legge derivi dalla forma indeuropea légere, cioè leggere. La Legge che tutti noi dobbiamo osservare è stata scritta, poco importa se sulle tavole di Mosé o in un codice. La questione cruciale appare subito chiara: chi ha scritto la legge? Evidentemente chi ha avuto il potere di farlo. E perché lo ha fatto? Altrettanto chiaramente, per difendere i propri privilegi. Motivo per cui la legge, in quanto tale, è necessariamente arbitraria poiché obbedisce agli interessi di chi può imporla, vale a dire di chi detiene l'autorità. Dietro la retorica che la vuole un nobile ideale perseguito dall'essere umano, la giustizia non è altro che un modo di avallare un determinato sistema di valori. Non a caso le interdizioni che sono state imposte nel corso della storia sono così diverse tra loro, che non si potrebbe trovare una sola pratica universalmente considerata come "criminale", neanche l'incesto o il parricidio. Se la Giustizia fosse davvero uno strumento superiore, i cui principi normativi toccano l'essenza dell'essere umano, le sue leggi sarebbero eterne ed universali e l'uomo troverebbe la propria realizzazione attraverso il loro adempimento. Invece queste leggi cambiano continuamente - a seconda dell'ordinamento sociale, politico ed economico che devono regolamentare - e questo può significare una cosa sola: attraverso le leggi si manifesta un volere umano, non certo divino.
Ma riconoscere il carattere arbitrario della giustizia non comporta di per sé una sua messa in discussione. Per quanto di parte, la giustizia appare comunque indispensabile. Nel mito che Platone fa esporre a Protagora nel dialogo omonimo, si dice che finché gli uomini non impararono l'arte della politica, che consiste nel rispetto reciproco e nella Giustizia, non poterono riunirsi in città e furono attaccati dalle fiere. Il rispetto della giustizia permetterebbe quindi agli esseri umani di convivere. Ancora oggi, è opinione diffusa che il venir meno delle regole su cui si fonda la nostra civiltà scatenerebbe gli istinti più feroci. Senza un'autorità, rappresentata dallo Stato, che ne moderi gli appetiti, i singoli individui non sono in grado di vivere assieme. Lasciati a se stessi, gli individui sostituirebbero la forza della legge con la legge della forza (la polizia come unico baluardo contro il dilagare di omicidi, stupri e stragi di innocenti).La giustizia nasce quindi dalla constatazione che nell'individuo non c'è legge, non c'è ordine. Lo Stato nasce a posteriori così come le regole, le leggi, le convenzioni morali, e poggia sul ribollente magma dell'anomia morale. L'individuo si sottomette allo Stato soltanto perché ritiene di aver bisogno di salvaguardare e stabilizzare i suoi rapporti. Costruisce un ordine esterno per placare il disordine che cova dentro di sé, ma una tale organizzazione non avrà mai nulla a che fare con la sfera interiore, con l'animo umano e le sue più segrete (e paurose) pulsioni. L'individuo, essere mostruoso, deve lasciar il posto al cittadino, al soggetto dello Stato, il solo in grado di vivere senza causare danni poiché scrupoloso osservatore dei precetti della giustizia. La legge è quindi ciò che ci lega, nel suo duplice significato: ciò che ci unisce, il nodo del vincolo sociale, è anche ciò che impedisce i nostri liberi movimenti.
Una simile concezione la dice lunga sul conto del mondo che la adotta, i cui abitanti necessitano di proibizioni esterne in mancanza di una propria consapevolezza interiore, si sentono uniti da una comune competitività e non dalla solidarietà, si percepiscono come se ognuno fosse il secondino dell'altro e pensano che la libertà rappresenti una catastrofe per la loro esistenza, anziché considerarla come ciò che potrebbe darle un senso. Purtroppo, tutto ciò non è straordinario. Siamo talmente addomesticati da un'educazione che fin dall'infanzia cerca di sedare in noi lo spirito di indipendenza e di promuovere quello di soggezione, siamo talmente abituati a una vita controllata da uno Stato che ne legifera ogni aspetto - nascita, sviluppo, amori, amicizie, alimentazione, morte - che alla fine perdiamo ogni iniziativa, ogni autonomia, ogni capacità di affrontare e risolvere direttamente i problemi che la vita ci pone.
Ecco perché, all'interno di ogni Stato, una nuova legge è considerata come il rimedio per tutti i mali. Invece di cercare di risolvere il problema comprendendone le cause, si comincia col chiedere una legge che vi metta riparo. La strada fra due città è impraticabile? Occorre una legge che regoli il traffico. Un esecutore della legge ha abusato del suo potere? Occorre una legge che ordini ai gendarmi di essere più rispettosi. Gli industriali intendono ridurre i salari? Occorre una legge che difenda gli interessi dei lavoratori. Insomma, per affrontare i conflitti che sorgono dall'attività dell'uomo servirebbe soltanto una legge appropriata. Attraverso l'applicazione della giustizia, lo Stato pretende di moderare e gestire questi conflitti. Si può quindi constatare che la giustizia non elimina i conflitti, e non li previene affatto. Niente e nessuno può farlo. La giustizia si limita a normalizzarli, a codificarli. Così facendo, li aggrava e ne provoca degli altri fino ad arrivare all'assurdità del rimedio "criminogeno", rimedio peggiore del male.
Da parte loro, i nemici dello Stato hanno pensato di risolvere il problema in altro modo, attribuendo ogni contrasto umano al funzionamento dello Stato stesso. Una volta che la "criminalità" viene definita come la reazione a un'organizzazione difettosa della società, appare più concreta la possibilità di sopprimerne le cause trasformando i rapporti umani. L'abolizione del crimine e della carcerazione è stata infatti una delle preoccupazioni primarie del comunismo utopico, che sostituì alla rassegnazione gaudente dei cristiani di fronte al peccato, una ricerca razionale dei rimedi all'esistenza del male. I suoi grandi principi erano semplici: il furto e l'omicidio non hanno più ragione d'essere nel momento in cui la proprietà privata e la famiglia lasciano il posto all'esistenza comunitaria. Se la felicità è garantita per tutti, gelosia e risentimento svaniscono portandosi con sé gli atti di violenza generati da questi sentimenti. Una simile armonia sembra essere però ben lontana dalla realtà delle passioni umane e non può essere immaginata senza un poderoso riduzionismo. I vari tentativi effettuati in passato di sperimentare praticamente l'utopia hanno sempre generato conflitti, che non ne volevano sapere di scomparire d'un tratto, rivelando l'astrazione della felicità proposta. Contro lo Stato e la sua giustizia, l'armonia sociale non saprebbe realizzarsi che a prezzo di costumi austeri e frugali. "Ho letto gli scritti di qualche celebre socialista - faceva notare Victor Hugo nel maggio 1848 - e sono rimasto sorpreso nel vedere che abbiamo, nel diciannovesimo secolo qui in Francia, tanti fondatori di conventi". In effetti, l'arcadia socialista non prometteva la felicità che a placidi cenobiti. I suoi fautori arrivarono spesso alla perfezione totalitaria poiché - per estirpare l'energia pericolosa presente nell'essere umano ed evitargli ogni occasione di scontro con altri - teorizzarono una minuziosa organizzazione di ogni istante di vita.
Astrazione
Dunque lo Stato pretende che l'essere umano sia naturalmente cattivo, per legittimare la propria esistenza. Nelle sue mani, la giustizia è un'arma contro la minaccia della barbarie. I nemici dello Stato, invece, pretendono che l'essere umano sia essenzialmente buono, per sostenere l'inutilità dello Stato. Nelle loro mani, la giustizia è una siringa da usare per scopi terapeutici. E se invece l'essere umano non fosse né buono né cattivo, ma semplicemente in preda ai suoi tormenti, cosa resterebbe della giustizia? Se la vita non avesse una meta universale, non dovesse scoprire alcuna verità, se la natura umana non avesse alcuna essenza, se non esistesse nulla di giusto da contrapporre a ciò che è sbagliato, giacché esiste solo ciò che è mio e ciò che non lo è, non è forse vero che ogni norma che regoli il comportamento umano diventerebbe un insopportabile sopruso?
Di fatto, se la giustizia ricorre alla polizia per imporsi, è proprio perché il carattere della giustizia è poliziesco. La tutela delle condizioni essenziali della convivenza civile - di cui la giustizia si fa garante - si traduce praticamente nel controllo della pace sociale all'interno dello Stato (o della Comunità); l'obbligo per ciascuno di uniformare il proprio comportamento a quanto dettato dalla legge, pena la privazione della libertà, non garantisce affatto l'equità della giustizia ma ne indica soltanto la ferocia. Una norma valida per tutti non è affatto equa, essendo astratta e, quel che è peggio, essa trasforma anche noi in astrazioni. La giustizia che punisce l'omicidio con la reclusione a vita o con la morte non sa chi sia la vittima, chi l'assassino e quali le ragioni del suo gesto, né conosce fino in fondo tutte le conseguenze. Con la farsa delle circostanze "aggravanti" e di quelle "attenuanti", la giustizia tenta di immettere un tocco di vita nelle sue sentenze, senza per altro riuscirvi, in quanto è consapevole della propria freddezza. Ma la condotta umana non può essere codificata, ha molteplici cause ed è frutto dell'incontro casuale di circostanze e di caratteri diversi. Una norma non può racchiudere questa totalità, non la può cogliere nella sua unicità, è costretta a fare astrazione dalla realtà concreta dei singoli se vuole imporsi a tutti. Ma i conflitti che sorgono fra esseri umani non sono astratti, sono reali. Sono il risultato di rapporti sociali concreti, della diversità degli interessi, dei sogni, del carattere degli individui. Nella sua astrazione, la giustizia isola l'individuo separandolo dal rapporto e dall'ambiente sociale in cui il suo atto ha avuto luogo, negandone così il significato.
Ancor di più, la giustizia separa l'individuo-accusato dal dibattito che lo riguarda delegando la sua autonomia, come avviene nel resto della vita sociale, ai suoi rappresentanti: gli avvocati. Così come i cittadini delegano allo Stato il compito di decidere come vivere la loro vita, così delegano alla giustizia il compito di come risolvere i loro conflitti. In quanto meccanismo separato di risoluzione dei conflitti, la giustizia non viene meno se si conferiscono le sue funzioni ad un'altra entità, posta al di sopra degli individui, ma più fluida, rinnovabile, sottoposta ad elezioni o controllata da assemblee popolari. Una giustizia "più umana" non cesserebbe di essere una macchina per separare il Bene dal Male, di esprimersi indipendentemente dai rapporti sociali e quindi inevitabilmente contro di essi.
Vendetta
Il sogno di ogni totalitarismo è quello di bandire la violenza (fatta eccezione per quella dello Stato, naturalmente). Se tutti obbedissero ai dettami della Giustizia, non ci sarebbero conflitti, non ci sarebbe violenza. Ma un mondo senza trasgressione, senza conflitti, senza disordine, è un enorme campo di concentramento. Un mondo pacificato è un mondo che ha rinunciato ai rumori della sua maggiore ricchezza, la diversità, a favore della quiete dell'omologazione. Per quanto deprecabile, la violenza è una caratteristica umana. Il punto non è di assegnare allo Stato il monopolio della violenza, né di trasformare ogni individuo in un perfetto non violento. Non si tratta di cancellare i conflitti dalla nostra vita, ma di affrontarli nella loro singolarità. E la loro risoluzione va ricercata da coloro che ne sono direttamente coinvolti, senza delegarla a istituzioni esterne (lo Stato), senza delimitarla in spazi circoscritti (tribunali), senza accontentarsi di risposte automatiche scritte da altri (codice penale).
Ora la Giustizia, risposta pubblica al "problema" dei conflitti, definisce con un termine spregiativo la risposta individuale a questo stesso problema: “vendetta”. Tanto la giustizia è nobile, tanto la vendetta è abietta. Ad essa si accompagna l'eccesso, il sopruso, l'approssimazione. Come se la giustizia non fosse in sé eccesso, sopruso, approssimazione.
Paradossalmente, per definire questa esecrata determinazione dell'individuo di non delegare a nessuno la risoluzione dei propri contrasti con altri, si è scelto un vocabolo dalla ben strana origine. La vindicta, infatti, era la verga con cui si toccava lo schiavo che doveva essere posto in libertà. Spada della giustizia e verga della vendetta sono entrambe in mano a chi detiene il potere, è vero, ma se la prima è promessa di punizione e castigo la seconda reca con sé il sapore della libertà. In realtà, nulla dimostra che la vendetta sia la strada obbligata per chi rifiuta la giustizia. Solo all'interno di una logica economica di compensazione, tanto cara al capitalismo, ad una offesa deve corrispondere un'altra offesa di pari entità. La giustizia regola i conti e questi, alla fine, devono sempre tornare. E' questo un lascito dell'eredità delle rivoluzioni liberali borghesi che, dovendo assicurare a ciascun cittadino un trattamento identico di fronte alla legge, dovevano garantire al meccanismo delle decisioni amministrative un funzionamento identico per ognuno.
Ma un conflitto non ha soluzioni a senso unico, perché contempla infinite possibilità (anche l'indifferenza o la lontananza). In ogni modo, solo chi lo vive sulla propria carne può conoscere la risposta, che non può essere codificata. Motivo per cui con l'autonomia dell'individuo la giustizia scompare, e con essa anche l'ingiustizia.
Non si deve credere infatti che negare la giustizia significhi affermare l'ingiustizia. Non più di quanto negare l'esistenza di Dio implichi l'adorazione di Satana. In fondo, non aveva tutti i torti Hobbes, pensatore non sospetto di simpatie sovversive, quando affermava che la Giustizia consiste semplicemente nel mantenimento dei patti e che pertanto dove non c'è Stato - cioè un potere coercitivo che assicuri il mantenimento dei patti - non c'è né giustizia né ingiustizia.

27 gennaio 2009

La velocità, per correre dove?

Qualcuno di voi di sicuro si dice ancora che la macchina lo libera. Essa lo libera provvisoriamente in una maniera, una sola, ma che sfugge alla sua immaginazione; la macchina lo libera, in qualche misura, dal tempo; essa gli fa "guadagnare del tempo". Tutto qui. Ma guadagnare del tempo non è sempre vantaggioso. Quando si va verso il patibolo, per esempio, è preferibile andarci a piedi.
George Bernanos, La libertà per fare cosa?, 1947

Anche le valli liguri, come la Valsusa ed il Mugello, si apprestano ad essere lo scenario di nuovi scempi, di nuove devastazioni. Secondo i nostri solerti amministratori, infatti, le montagne dell'entroterra genovese dovranno accogliere i cantieri del TAV Genova-Milano, quelli della Gronda (30 km di autostrada da Chiavari a Bolzaneto, 15 trafori, 3 corsie per carreggiata per un ampiezza di 30 metri) ed un inceneritore a Scarpino.
La Valsusa sta dimostrando concretamente, con la sua opposizione, che i lavori della Torino-Lione potranno proseguire con estrema difficoltà, e solo grazie alla progressiva e continua militarizzazione della valle. Sta dimostrando che non possono bastare i tentativi di dissuasione e disinformazione per convincere le popolazioni, locali e non, a rinunciare alle proprie ragioni, alla possibilità di decidere sul territorio in cui si vive, in virtù del benessere economico esclusivo della Patria e dell'Europa, del Progresso, dello Sviluppo.
Infatti, se da un lato il TAV sarà una boccata d'ossigeno per l'industria del cemento, per la Fiat, l'Eni e per altri trafficanti - come già accaduto per tutte le opere realizzate nel corso degli anni e magari rimaste incompiute -, dall'altro esso verrà utilizzato unicamente per il trasporto merci, e da coloro che hanno fatto del business il senso della vita e necessitano di fare la tratta Genova-Milano in 50 minuti: amministratori pubblici e privati, gestori della politica, dello spettacolo, non viaggiatori ma merci-uomini che se potessero si sposterebbero alla velocità della luce, alla velocità del profitto.
Ecco a chi serve l'Alta Velocità, ecco dove devono correre i suoi committenti ed i loro amici, ecco il suo evidente carattere "di classe". Ecco perché, a sentir loro, è un'opera del tutto irrinunciabile!
Dietro le presunte necessità e benefici di queste opere, che ci vengono spacciati come collettivi - quelle di diminuire il trasporto su ruote, decongestionare il traffico, smaltire la “rumenta” che produciamo - e al di là delle contestazioni di chi le ritiene speculazioni finanziarie, o semplicemente inutili o non risolutive, si nascondono unicamente le necessità di sopravvivenza del Progresso: questi progetti e i loro apparati di ricerca - dal Tav, dalla Gronda e dagli inceneritori, fino al nucleare ed al biotech -, sono del tutto indispensabili al Capitale, alla sua fuga in avanti, al suo plurisecolare tentativo di annientare la comunità umana.
Da Hiroshima a Bhopal, dalla Haven a Seveso, dalla Prestige a Scanzano, ogni progresso dell'Economia è una regressione della vita, ogni sua avanzata un passo indietro per ogni prospettiva di rovesciamento dell'esistente.
Il senso dell'opposizione radicale alle nocività, alla loro devastazione ambientale ed umana, sta nel riconoscere nello Sviluppo un modello incompatibile con una vita degna di essere chiamata tale, nell'intraprendere una lotta per riconquistare quello che vorrebbero definitivamente strapparci, l'autonomia e la libertà per ricostruire le nostre esistenze.
Il Progresso, con i suoi disastri continui a cui tenta di porre rimedio producendone di nuovi, non è che un treno che corre all'impazzata su un binario morto. Sta a noi farlo deragliare, sta a noi fermare la corsa verso il patibolo.

alcuni abitanti delle vallate
alcuni nemici del progresso industriale

[Genova, febbraio 2006; tratto da Guerra Sociale]