Les Mauvais Jours Finiront interrompe (temporaneamente?) le pubblicazioni. Resta comunque on-line affinché rimangano accessibili i documenti pubblicati. L'Autore considera il lavoro di cernita, editazione, elaborazione dei materiali sin qui svolto, come propedeutico alla nuova esperienza – per molti versi affatto diversa – alla quale prende parte, quella del gruppo informale / rivista "Il Lato Cattivo". (Gennaio 2012)
(blog)

«(...) la rivoluzione non ricerca il potere, ma ha bisogno di poter realizzare le sue misure. Essa risolve la questione del potere perché ne affronta praticamente la causa. È rompendo i legami di dipendenza e di isolamento che la rivoluzione distrugge lo Stato e la politica, appropriandosi di tutte le condizioni materiali della vita. Nel corso di questa distruzione, sarà necessario portare avanti misure che creino una situazione irreversìbile. Bruciare le navi, tagliarsi i ponti alle spalle. La vita nova è la posta in gioco e, al contempo, l'arma segreta dell'insurrezione: è dalla capacità di sovvertire le relazioni materiali e trasformare le forme di vita che dipende la vittoria.
«La violenza rivoluzionaria sconvolge gli esseri, e rende gli uomini artefici del proprio divenire. Essa non si riduce a uno scontro frontale, reso improbabile dall'evidente squilibrio di forze esistente; e gl'insorti scivolerebbero sul terreno del nemico se adottassero una logica militare tout court. La guerra sociale mira piuttosto a dissolvere che a conquistare. Non temendo di mettere in gioco passioni, immaginazione e audacia, l'insurrezione si fonda sulla dinamica dell'autogenesi creativa.»

(«NonostanteMilano»)

* * *

«Nel corso dei quindici anni rappresentati simbolicamente dalla data del ‘68, apparve una differente prospettiva (...): il rifiuto della forma-partito e dell’organizzazione sindacale; il rigetto di qualsivoglia fase di transizione volta a creare le basi del comunismo, considerate già pienamente esistenti; l’esigenza di una trasformazione della vita quotidiana – del nostro modo di mangiare, abitare, spostarci, amare etc.; il rifiuto di ogni separazione tra rivoluzione «politica» e rivoluzione «sociale» (o «economica»), cioè della separazione tra la distruzione dello Stato e la creazione di un nuovo genere di attività portatrice di rapporti sociali differenti; la convinzione, infine, che ogni forma di resistenza al vecchio mondo che non lo intacchi in modo decisivo e tendenzialmente irreversibile, finisca inevitabilmente per riprodurlo. Tutto ciò può essere riassunto con un’espressione ancora insoddisfacente, ma che adottiamo a titolo provvisorio: la rivoluzione come comunizzazione

(Karl Nesic, L'appel du vide, 2003).

* * *

«È la situazione in cui il proletariato si trova, a innescarne l’azione: la coscienza non precede l’atto; si manifesta solo come coscienza dell’atto stesso.»

(Gilles Dauvé, Le Roman de nos origines, 1983)

16 ottobre 2008

Medicina maledetta e assassina*


Appunti per una critica della scienza medica
di F.B.
La scienza medica moderna, in quanto elemento integrante della totalità sociale capitalista, non può essere considerata indipendentemente dal contesto storico che l'ha prodotta e che la alimenta, plasmandola fin dentro i suoi presupposti epistemologici.
Essa, in effetti, altro non è se non un dispositivo di disciplinamento e adattamento forzoso dei corpi a condizioni sociali vieppiù ostili alla vita, sia dal lato ambientale (avvelenamento dell’aria, dell’acqua, dei cibi, radiazioni nucleari, effetto iatrogeno di molti farmaci etc.) sia da quello fisico-emozionale (attività umana separata in modo sempre più esteso e radicale dai desideri dell’individuo, noia e depressione indotte dalla riduzione della vita a mera sopravvivenza, soppressione del desiderio stesso attraverso un’educazione non solo repressiva ma sempre più asettica, anestetizzazione delle relazioni, stress connesso alla competizione sempre più esasperata ad ogni livello della vita sociale etc.)
Il suo modello epistemologico e la sua pratica terapeutica (laddove il primo si definisce come giustificazione della seconda) si basano essenzialmente su due postulati:
-         la discontinuità dell’unità vivente che, anziché essere percepita come una totalità coerente, dotata di un suo equilibrio energetico e omeostatico, viene smembrata in parti sempre più piccole e reciprocamente irrelate; il paradigma meccanicistico determina in tal modo una surrettizia identificazione della malattia con il processo patologico localizzato, che è viceversa soltanto la manifestazione terminale della perturbazione di un equilibrio complessivo - in altri termini confonde i sintomi con le cause;
-         la reificazione della malattia, rappresentata come un’entità a sé stante, estranea all’organismo e al suo vissuto,  piuttosto che come una reazione naturale dell’organismo stesso, tendente a ristabilire il proprio equilibrio, turbato dall’aggressione di agenti patogeni esterni e/o “interiorizzati” (attacchi subiti nel passato e rimasti fissati, a livello latente, nel corpo: un esempio su tutti, la corazza carattero-muscolare studiata da Wilhelm Reich); da qui un ormai generalizzato “trasferimento della capacità di curare sé stessi, o anche solo di percepirsi come unità reattiva, al medico e da lui a tanti specialisti quante sono le parti in cui l’essere umano è sezionato”(1).
La prassi terapeutica della scienza medica moderna sarà dunque volta non ad “assecondare la malattia e condurla a un esito positivo, cioè al superamento della malattia stessa” (2), mediante il potenziamento delle capacità reattive dell’organismo e il miglioramento delle condizioni ambientali in cui è immerso, bensì adattaccare il morbo per distruggerlo, facendo del corpo umano il campo di battaglia della farmaceutica e/o dell’asportazione chirurgica contro gli agenti patogeni” (3).
Ma la remissione/soppressione dei sintomi a livello della singola parte, quella che viene identificata come “malata”, non solo non elimina lo squilibrio generale che ne è alla base e l’insieme delle sue cause (per lo più di natura storico-sociale); ma aggrava tale situazione di squilibrio, compromettendo la coerenza reattiva dell’organismo vivente e portando, spesso, all’insorgere di nuove malattie, tanto nel singolo individuo, quanto a livello sociale (come dimostra la teoria della patocenosi)(4). Queste verranno in seguito fronteggiate dalla scienza medica, utilizzando gli stessi metodi che le hanno provocate. (Naturalmente la psichiatria e la definizione stessa di “malattia mentale” non sfuggono a questo modello).
In altri termini, la medicina meccanicista, specularmente al movimento del capitale, non fa che spostare le contraddizioni ad un livello sempre più alto di reificazione, spossessamento e desensibilizzazione dei corpi, in un continuo processo di adattamento e di accumulazione - di valore, potere, mezzi materiali e ideologia - partecipando in tal modo alla dinamica generale dell’organizzazione sociale capitalista e dei suoi dispositivi.
In definitiva si può affermare che gli scopi generali della medicina, così come della scienza moderna in generale (al di là delle possibilità immediate di profitto per l'industria farmaceutica, gli istituti di ricerca etc.) sono essenzialmente i seguenti:
-         Mistificare le cause reali del disastro che si dispiega intorno a noi, nella fattispecie quelle di natura sociale - lo dimostra il posto occupato nel modello ideologico dominante della scienza medica dalla eziologia specifica, dalla teoria infettivistica-virale e, oggi, dalla genetica.
-         Imporre ai corpi e alla natura il tempo del capitale e della sua valorizzazione: “il tempo della merce, del suo supporto fattivo, il lavoro, e della sua protesi gestionaria, la circolazione e l’amministrazione, deve essere totale. Il corpo umano, dunque, depauperato delle sue esigenze organiche vitali, non può funzionare che come una macchina”(5).
Tornare ad affermare, nella teoria quanto nella pratica, la vecchia massima della critica radicale per cui “la salute si realizza soltanto attraverso la soppressione della medicina”, è oggi più che mai urgente e necessario. Nella consapevolezza che qualsivoglia sperimentazione sul terreno dell’autogestione della salute e della riappropriazione della propria corporeità (e quindi anche dell’esperienza della malattia) trova un limite invalicabile nella presente organizzazione sociale e non può realizzarsi davvero se non attraverso la sovversione globale dell’esistente.
Note:
* Il titolo di questo articolo fa riferimento al bel libro di André Doria, pubblicato presso le edizioni 415, “una critica vissuta e radicale della medicina. Il diario della "malattia" e della sperimentazione medica di una compagna francese, André Doria, che alla fine sceglie la libertà, anche a costo della vita.”
(1) Gruppo T4/T8, La Mal’aria. Aids e società capitalista neomoderna, in AA.VV. (a cura del Gruppo T4/T8), La Mal’aria. Aids e società capitalista neomoderna, 1992, Colibrì, p.17.
(2) R.D’Este, L’AIDS come equivalente generale delle pesti neomoderne ed accumulazione forzata di medicina, in AA.VV. (a cura del Gruppo T4/T8), La Mal’aria. Aids e società capitalista neomoderna, 1992, Colibrì, p. 57.
(3) Gruppo T4/T8, op.cit., p.13. Non a caso, la medicina storicamente “ha assunto a modello la sfera bellica: sia nel linguaggio, pesantemente intriso di metafore guerresche, sia nell’organizzazione (standardizzazione, economie di scala, tecniche di gestione dei corpi), la quale, come anche quella della fabbrica capitalista, è debitrice dell’esperienza storica degli eserciti di massa, a partire dall’età moderna […], sia, infine, negli assunti di base della terapeutica.”, ibidem.
(4) "La patocenosi è l'insieme delle malattie presenti in una popolazione in un determinato periodo e in una determinata epoca. La patocenosi racchiude quindi un complesso di malattie, variabile sia quantitativamente che qualitativamente, in cui la frequenza di ogni malattia dipende da quella delle altre malattie o da fattori ambientali." (Wikipedia).
(5) R.D’Este, op.cit., p.57.

Bibliografia:
AA.VV. (a cura del Gruppo T4/T8), La Mal’aria. Aids e società capitalista neomoderna, Colibrì, Milano, 1992.
R.Dujany, Omeopatia, Red Edizioni, 1983
A.Doria, Medicina maledetta e assassina, Edizioni 415, Torino,...
M.Bounan, Il tempo dell'Aids, Edizioni 415, Torino, 1993 
R.Lewontin, Biologia come ideologia: la dottrina del DNA, Bollati Boringhieri, Torino, 1993.

7 ottobre 2008

1977 - Proletari se voi sapeste...




"A trent'anni dal 1977, abbiamo ritenuto utile mettere a disposizione ai viandanti della rete Proletari se voi sapeste…, nella convinzione che le riflessioni in esso contenute contengano spunti di attualità.

Che la rievocazione di eventi passati comporti un loro travisamento, è inevitabile. Il discrimine risiede nella prospettiva in cui ciò avviene: che lo si faccia per porre le condizioni del superamento della miseria presente è un conto, più antipatico dal nostro punto di vista è che ciò avvenga per fini esclusivamente commerciali e autocelebrativi. Fare nomi è inutile anche perché sono già citati nel testo che proponiamo.

Scritto all'indomani dell'anno di cui oggi ricorre il trentennale, Proletari se voi sapeste… è un tentativo, da parte di alcuni esponenti della “teoria radicale” di fare i conti con i limiti di quel movimento. Una tendenza che, per quanto assolutamente minoritaria in quel movimento, ne ha comunque prefigurato limiti e potenzialità. Potenzialità che oggi invece di problematizzare si rischia o di banalizzare in rivendicazioni para-sindacali o di ridurre a figure retoriche per la legittimazione di improbabili “saperi metropolitani”

Libreria Anomalia


http://www.libreriaanomalia.org/Insurrezione.pdf

Il minimo della vita

Il mondo che abitiamo si è andato via via riempiendo di oggetti prodotti dall'uomo allo scopo di rendere più agevole la vita e il superamento dei limiti che la natura ci impone. Ma quello che in realtà è successo è che il mito del Progresso ha alimentato e sostenuto la corsa al profitto di pochi, ottenuto attraverso il sacrificio di tanti e dell'ambiente di tutti, e che ciò con cui stiamo soffocando le nostre vite e i nostri spazi non solo non ci è davvero utile ma ci impoverisce.
Accettiamo divivere una vita al ribasso lontani dall'individuazione dei nostri desideri, barattiamo l'aspirazione a realizzarli con merci che riempiano il vuoto delle nostre esistenze. Non riusciamo a sostenere le paura che ci affollano la mente e ci affidiamo alle false promesse di sicurezza che ci vengono dagli stessi che ci tengono incatenati.

Non ci chiediamo quali siano le vere cause del disastro che si consuma intorno a noi tra guerre, miseria, avvelenamento dell'ambiente e catastrofi che, provocate o meno che siano dall'attività umana, comunque ci trovano incapaci di affrontarle e sopravvivere. L'abitudine alla delega ci consegna a chi ci vuole convincere che l'unica salvezza sia perfezionare la tecnica e non fermarsi prima che sia troppo tardi.

Notizie Da Nessun Luogo - Bollettino di Critica Anti-Industriale

[Volantino scritto e distribuito a Bologna intorno al 2005] 

TAV - Sempre più veloce

Il piacere del viaggio, inteso come avventura e scoperta, è una cosa; la necessità, imposta, di spostarsi il più velocemente possibile, è tutt'altro. L'Alta Velocità non è altro che la risposta a questa falsa necessità: quella di percorrere il maggior spazio nel minor tempo possibile. Ma di quale spazio e di quale tempo si sta parlando? Su e giù da Torino a Parigi e da Parigi a Torino, ciascuno, aggrappato alla sua ventiquattrore, alla stazione di arrivo troverà lo stesso hamburger, la stessa Coca-Cola e la stessa noia che ha lasciato alla stazione di partenza.
Con l'Alta Velocità sarà possibile raggiungere la stessa noia, la stessa Coca-Cola e lo stesso hamburger in cinque ore piuttosto che in dieci.
Embé?! E' tuttoqui il progresso, la cui ideologia tanto spesso ferma la critica, e che ci fa spalancare la bocca stupiti e ammirati? Ebbene sì. Ed è questa la prima menzogna che va smascherata.
Il risparmio di tempo, spacciato come bisogno umano e desiderabile da chiunque, non risponde invero che agli interessi del Capitale e della sua reputazione: la riduzione della vita quotidiana ad una rincorsa di momenti del tutto equivalenti, una corsa necessariamente veloce e affannosa, per non lasciar spazio a pensieri e desideri che non siano soddisfabili con una nuova merce da consumare, sia essa un pic-nic in famiglia, una pizza con gli amici o una giornata di sci.
Tutta qui la nostra vita? Parrebbe di sì. Paradossalmente, solo quando ogni istante è diventato uguale all'altro, lo spostarsi il più velocemente possibile è diventata una conquista.
C'è chi lamenta che l'Alta Velocità sventrerà le valli,devasterà gli orti, seccherà i gerani sulle finestre e terrà sveglio chi ha la sfiga di vivere nei dintorni del suo passaggio.
Vero, ma c'è molto di più.
Con l'Alta Velocità non si perpetra solo un'attacco alla vita di alcune vallate, ma al senso della vita stessa.
L'Alta Velocità è un inequivocabile segno dei tempi in cui la menzogna è necessaria al Capitale per la sua conservazione. E proprio qui sta il punto.
Progresso, economia, produzione, esaurita la loro funzione di ottimizzare le risorse umane, vengono mantenute in vita e fatte girare a vuoto, per una folla di creduloni impauriti che non osano liberarsene. A chi somministra tutto ciò, non è rimasto più nulla di buono da fare; per continuare ad esistere deve perciò accontentarsi di fare qualcosa di nocivo: i treni ad Alta Velocità, per esempio.
Essi, come il Capitale, corrono all'impazzata su un binario morto.
Riusciremo a far deragliare entrambi?

IL TRENO AD ALTA VELOCITÀ 
È UN DANNO INDIVIDUALE E UN FLAGELLO COLLETTIVO

Notizie Da Nessun Luogo - Bollettino di Critica Anti-Industriale

[Volantino scritto e distribuito a Bologna intorno al 2005]

Genova 2001 - La fine delle illusioni

Uno spettro torna ad aggirarsi per l'Europa. Dopo interminabili anni di una pace sociale fatta di sfruttamento, alienazione, miseria e sofferenza, la rabbia degli oppressi ritorna finalmente nelle strade per notificare la condanna a morte di un'organizzazione sociale inconciliabile con la specie umana e il pianeta. il 20 e 21 luglio, a Genova, la contestazione al G8 è presto approdata, per decine di migliaia di manifestanti, a una critica pratica del capitalismo e dello Stato. Lo dimostrano i duri e generalizzati scontri con le forze dell'ordine, la devastazione e l'incendio di  moltissime banche e di alcuni commissariati, l'attacco al carcere di Marassi, i saccheggi dei supermercati, spontanee esplosioni di una conflittualità sociale mai sopita.
La determinazione con cui gli insorti di Genova hanno affrontato le forze di polizia, travalicando gli angusti limiti della disobbedienza civile e della protesta democratica, smaschera nei fatti l'illusione concertativa, con cui i racket politici avevano cercato di disinnescare ogni radicalità e autonomia possibile. Ridicolo e schifoso appare far passare quello che è stato un momento di resistenza di massa per una degenerazione provocata da pochi "professionisti" del disordine, arrivati da chissà dove e infiltrati o addirittura manovrati dalla polizia. La sommossa di Genova ha ridicolizzato le manovre politiche di tutti coloro che hanno provato a strumentalizzarla; per questo motivo costoro fanno a gara con le guardie nel calunniarla e nel chiamare alla repressione.
Come sempre, di fronte al radicalizzarsi dello scontro all'incrinarsi del consenso, la classe dominante e il suo Stato reagiscono nell'unico modo possibili: con la violenza. L'omicidio di Carlo Giuliani, i massacri e le torture perpetrate a Genova sono l'ennesima dimostrazione di quanto valga la pena reclamare diritti e le garanzie democratiche di cui lo Stato si sbarazza tranquillamente non appena non bastano più a garantire l'ordine e a mascherare lo sfruttamento di classe. Il gioco si fa duro... Le illusioni democratiche, garantiste e riformiste crollano miseramente. Gli insorti della volontà di vivere non le rimpiangono.
La società capitalista non sa produrre altro che miseria, isolamento, disastri ecologici, epidemie, guerre, fame, sofferenza.
Ma un mondo nuovo prende forma, sulle macerie dell'economia.
Avanti compagni!
Il momento storico è grave; la guerra sociale scalpita e il nemico di classe incalza. Fuggiamo le trappole della gerarchia, della burocratizzazione e specializzazione dei ruoli, ma senza abbandonarci all'inconcludenza di un ribellismo privo di strategia. Che la prospettiva rivoluzionaria sappia superare la gabbia delle scadenze spettacolari imposte dal potere, per imporre ovunque, nel quotidiano, là dove la reificazione soffoca la vita e la conflittualità diffusa abbisogna più che mai di intraprendere percorsi di organizzazione autonoma e di riappropriazione della coscienza storica negata, una guerra senza quartiere alla separazione e all'autorità. La comunità umana urge.
Per l'abolizione delle classi e dello Stato.
Per il comunismo libertario.
viva la rivoluzione sociale!

Comitato rivoluzionario di salute pubblica

Droga e società capitalista neomoderna


Alcune tesi interpretative sul Drago

di Riccardo D'Este
 
Stampa popolare francese del principio dell'Ottocento Le monde renversé, Le-loup, Le Mans

Uno  
Ogni discorso intorno alla droga che non parta dai suoi presupposti fondamentali è, se va bene, fuorviante e mistificatorio e, sennò, direttamente collusivo con la società presente che la produce e riproduce. I presupposti essenziali sono i seguenti:
* la droga è una merce al più alto livello di concentrazione economica e spettacolare;
* la droga, nel suo consumo e nella sua diffusione, nasce da bisogni individuali e collettivi frustrati, irrealizzati e costretti in una one way, in una strada a senso unico;
* la droga ed i suoi fruitori vengono usati per il controllo sociale allargato;
* la droga può provocare gravi malattie (come il carcere, la comunità terapeutica, l'aids eccetera) non tanto per la sua qualità intrinseca come sostanza, ma per la voluta interdizione sociale di cui il proibizionismo è l'aspetto più evidente;
* per questi stessi motivi, la droga produce criminalità, devianza, demenza ed ideologia, fenomeni che da sé sola non potrebbe produrre o produrrebbe in misura assai limitata;
* la droga, infine, assume il suo completo senso neomoderno, fronte alla glaciazione sociale ed alla scomparsa di qualsiasi ipotesi credibile di progresso (produttivo, intellettuale, etico eccetera), solo se riveste i panni del Drago, figura mitica ricorrente ma che trova la sua massima angoscia descrittiva nei troppo popolati deserti contemporanei.
Due 
Prima di affrontare partitamente i sei presupposti fondamentali enunciati sopra, sono necessarie alcune chiarificazioni metodologiche, di merito ed attinenti alla politica (ovviamente massmediatizzata).
Per quanto concerne il metodo, assumiamo come droga la definizione corrente, il concetto di sostanza stupefacente, facendolo solo per comodità analitica e non certo per adesione ideologica. Senza volerci dilungare su quanto abbiamo già scritto in altre occasioni, ci pare immediatamente palese che l'uso di altre sostanze, a partire dall'automobile (che così finalmente smette di sembrare forma per tornare a ciò che non ha mai smesso di essere: sostanza), all'uso di condizioni sociali precostituite, dalla famiglia alla discoteca, possa rientrare a giusto titolo nell'uso di droghe, talora pesanti, spesso pesantissime. Se, del tutto provvisoriamente ed in attesa di un adeguato manuale per districarci tra le droghe nella società contemporanea, intesa anch'essa come drogata e drogogena nonché neomoderna, accettiamo l'equivalenza droga=sostanza "stupefacente" (quando evidentemente la stupefazione non è più materia dei nostri desertici giorni) soltanto perché, per l'appunto, è un oggetto del contendere; su questo, in particolare, si esercitano e sviluppano interessi, ideologie, repressioni di Stato e riproduzioni di capitale. Accettiamo, quindi, di scendere al livello della falsificazione per colpire duramente il falso, al livello del nemico per sostanziare vieppiù la nostra inimicizia radicale verso l'esistente.
Riguardo al merito, va subito affermato che la "sostanza stupefacente" (droga) determina assai poco la figura sociale del "drogato". Vi sono due sovraimpressioni ideologiche che è tempo di svelare e vedremo di farlo con esempi. Se il bevitore di Campari o di Glen Grant non viene immediatamente definito come alcolista, solo per il fatto di assumere quelle sostanze (si parla di alcolista o alcolizzato solo ad alti livelli di dipendenza), se i fumatori non vengono usualmente chiamati tabagisti, se non nel linguaggio sedicente scientifico ed in casi di elevata intossicazione, se al termine "automobilista" o "lavoratore" o "padre" non viene quasi mai data una connotazione negativa, ed anzi spesso ne ha una positiva, mentre sono evidenti l'assuefazione ed i danni che questi ruoli reiterati producono, il frequentatore di sostanze cosiddette stupefacenti è per ciò stesso un "drogato". E ciò anche nel caso di consumatori rapsodici o nel caso di consumatori di sostanze a bassissimo o nullo rischio di assuefazione, ma comunque indicate come "stupefacenti". Il linguaggio svela l'ideologia di cui si nutre, così come l'ideologia denuncia palesemente i suoi linguaggi. Queste merci, dunque, hanno una sovraimpressione: sono droghe e pertanto drogano. E la valenza sedicente morale vi è sempre sottesa.
La seconda sovraimpressione è ancora più sottile: nei sostrati del concetto di drogato vengono inserite immediatamente delle connotazioni repulsive che consentono la repressione o, del pari, il tentativo di recupero. «Rapina nel posto x: erano probabilmente drogati». La rapina, moralmente riprovata da una società normalmente rapinatrice, in questi casi viene in qualche modo "spiegata" dalla presunta natura dei responsabili. Lo stesso direttore generale degli Istituti penitenziari, Niccolò Amato, in una recentissima intervista al giornale torinese "La Stampa" sostiene che i comportamenti delittuosi dei drogati sono essenzialmente di due tipi: quelli messi in opera per procurarsi la sostanza e quelli compiuti sotto l'effetto delle sostanze medesime. Se il primo aspetto (assolutamente vero) dovrebbe, da sé solo, mettere in crisi tutte le ipotesi proibizioniste, il secondo (sostanzialmente falso o comunque irrilevante) tende invece a ribadirle. Se un individuo, sotto l'effetto di sostanze definite stupefacenti, tende a commettere dei delitti, il compito della società è quello di difendersi e quindi di proibire queste sostanze criminogene. L'ironia è sin troppo facile. Prendiamo l'automobile come esempio. Molti possono commettere reati per potersi permettere un'automobile, specie se di lusso eccetera (vero) e molti li possono commettere sotto l'effetto dell'automobile medesima (vero), se per questi si intendono le varie stragi automobilistiche. Ma nessuno pensa di mettere sotto accusa, neppure sul terreno linguistico, l' automobilista, cioè l'automobilista in sé e per sé.
La droga, quindi, esiste non solo come merce materiale ma anche come merce immateriale: fonte di rappresentazione collettiva e di collettiva rimozione di ciò che vi sta alla base.
Va da sé che il drogato, inteso come fruitore occasionale o stabile di certe merci, le sostanze stupefacenti, esiste e possiede delle sue caratteristiche particolari. Ma non esiste il drogato come entità a sé stante, se non nelle menti ammalate degli specialisti; dopo la scomposizione delle classi socio logicamente intese, solo gli imbecilli possono approdare all 'ideologia di queste nuove "classi" del tutto surrettizie. E poco importa che uno sia pro, l'altro contro e l'altro ancora agnostico. Il drogato è una figura tipologica e topologica volutamente astratta dalle condizioni materiali che vi sono sottese e dalla vasta ricchezza dei comportamenti soggettivi. Né le altre definizioni, come tossicomane, tossicodipendente eccetera, valgono molto di più, se non nelle classificazioni sociologiche, criminologiche o mediche. Evidentemente, al fine dell' analisi, si può tipicizzare, e dunque fissare, un dato comportamento, ma questa tipicizzazione è ancora una volta riduttiva rispetto alla realtà, usa un procedimento che si vuole scientifico ma che in realtà è solo metodologia di metodologia ed avanti così. La vita, anche disperata e "deviata", sfugge alle statistiche, quanto i cultori delle statistiche sfuggono alla vita.
Per quanto attiene alla politica, è evidentissimo che su un simile problema, reale sulla pelle dei soggetti, si giocano importanti ruoli e sostanziosi poteri. Lo dimostra lo stesso modificarsi delle leggi, dato che le leggi sono un' espressione della politica, dei suoi giochi e dei poteri che sono in ballo.
Limitiamoci all'Italia. Nel 1954 gli USA, per mantenere meglio il controllo statalmafioso di una merce la cui domanda era in ascesa, imposero una legge fortemente repressiva: per valorizzare la merce bisognava ricorrere alla proibizione. Fu la spinta per la creazione di valore aggiunto, sebbene in Europa il problema allora non si ponesse se non a livelli individuali e limitatissimi. Nel 1975, quando la merce circolava già con una certa abbondanza ma senza essersi ancora del tutto affermata sul mercato, sotto spinte sedicenti liberali (in realtà volte al consolidamento ed all'allargamento del mercato) l'Italia adottò una legge che si pretendeva permissiva, anche se la condanna dell 'uso di droghe doveva rimanere, e non solo in campo etico, ma "mitigata" dal concetto di "modica quantità".
Dopo lunghi colloqui americani con Rudolph Giuliani, e sotto la spinta del mercato internazionale, Bettino Craxi nel 1988 si impuntò per far passare una legge fortemente sanzionatoria anche nei confronti dei consumatori, lasciando un ampio margine discrezionale e valorizzando le comunità terapeutiche (merce sociale ed ideologica). La ottenne nel 1990 ed è la legge che va sotto il nome di Vassalli-Russo Jervolino.
In questi ultimissimi tempi, sembra esservi un 'ulteriore "sterzata", assai pubblicizzata massmediaticamente, che dovrebbe correggere gli aspetti più ideologici e repressivi della legge oggi in vigore. Il mercato va stabilizzato ed è in questa chiave che va letta la proposta Amato-Pannella.
Da questo indecoroso balletto scaturiscono anche indicazioni politiche. La "droga" viene usata come cavallo di battaglia per sostenere questa o quella alleanza, per creare un'immagine del ceto politico. Se nel 1988 Craxi e chi lo sosteneva voleva mostrarsi come partito d'ordine, oggi, dopo il progressivo sfarinamento dei partiti, i suoi successori, fronte al nuovo partito d'ordine leghista, lamalfiano, neofascista eccetera, cercano di rivestire spettacolisticamente i panni dei difensori delle libertà. I repressori ed i recuperatori hanno in comune la difesa di questa società, la sua perpetuazione. E questa società deve essere terapeutica rispetto ad ogni sommovimento, individuale o collettivo che sia. Non per caso l'arco delle scelte possibili di comunità è vastissimo e va, per l'appunto, dai muscolosi repressori ai pallidi recuperatori: quello che importa è che la terapia e la cosiddetta risocializzazzione vengano imposte. Le leggi sono solo il suggello di tale percorso di autonomizzazione di una società che deve amministrarsi, essendo giunta al capolinea nella produzione di idee, di innovazioni materiali, di progettualità. Con la progressiva caduta dell'economia, la politica assume un ruolo centrale nell'amministrazione, determinando a sua volta una nuova economia, quella fondata sull'imposizione autoritativa di valore e di mercato. Il senso delle leggi va interpretato in questi termini.
Tre 
Il primo dei presupposti essenziali esposti all'inizio è che la droga, come merce, rappresenta uno dei più alti livelli di concentrazione economica e spettacolare che si conoscano nella società neomoderna. L'ossessivo processo di valorizzazione è sotto gli occhi di tutti e possiamo fare anche i conti della cuoca. Nel cosiddetto Stato degli Shan, tra Birmania, Laos e Thailandia, retto dal famoso Khun Sa (al proposito si veda Intorno al Drago, Nautilus, 1990), un grammo di eroina può costare, se la quantità acquistata è considerevole, non più del corrispettivo di 5.000 lire italiane, con ciò comprendendo anche la tangente che si deve versare per entrare in quel territorio. In Italia, a livello medio, viene a costare al consumatore circa 150.000 lire, dopo vari passaggi e vari tagli. Vogliamo porre, per ipotesi, che il costo dei passaggi vada a pari con il guadagno dovuto ai tagli? (E ciò non è comunque vero perché si sa, a dispetto di giornalisti e sedicenti esperti, che un chilo di eroina in Italia, e pura sopra il 75%, lo si compra con 50 milioni circa, sicché il grammo viene a costare 50.000 lire. E' altresì risaputo che la purezza, al dettaglio, difficilmente supera il 10%, di modo che i conti sono presto fatti. Da un grammo, che costava 50, ne vengono ricavati circa 7.7 per 150.000 che fa un milione e cinquanta, il che significa che in ogni grammo c'è un valore addizionale di un milione.) Ma ritorniamo pure all'ipotesi iniziale, spropositata per difetto. Quale merce si autovalorizza di 30 volte, pagati lautamente tutti i costi possibili? Nessuna, ideologia e spettacolo a parte, ma sarebbe un discorso diverso. (Per la cocaina la valutazione è analoga, se non maggiore. L 'hashish, il "parente povero" delle droghe, ha un'autovalorizzazione, tutte le spese pagate, solo di dieci volte!) Allora, in modo manifesto, la droga è una merce eccellente, cioè ad altissimo tasso di autovalorizzazione. Naturalmente a causa del proibizionismo che determina e sostiene il mercato. Tutto ciò dal punto di vista economico, cioè della cuoca.
Ma va considerato tutto l'indotto e qui si entra in un terreno che fluttua tra l'economico e lo spettacolare e che fa assumere una vigenza di valore assai superiore alla merce. Sarebbe futile qui calcolare quanti mercanti, quanti ricettatori, quanti poliziotti, quanti carabinieri, quante guardie di finanza, quanti secondini, quanti magistrati, quanti avvocati, quanti giornalisti eccetera ricavano la loro paga per il lesso dall'esistenza della droga e del drogato. E medici e psicologi e psichiatri. Nonché, ovviamente, i professionisti del supposto recupero della materia prima, il drogato.
Stampa popolare seicentesca, Il mondo alla riversa (Milano, Castello Sforzesco, Gabinetto delle stampe, Collezione Bertarelli)
Si giunge così, quasi scivolando, all'alto tasso di concentrazione spettacolare della merce droga. La droga non potrebbe avere il suo valore economico senza possedere uno specifico valore spettacolare, dato da un miscuglio di esibizione e di presunto rischio, da un 'immagine della trasgressività e dalla realtà repressiva e recuperatoria. Chi vende droga ha bisogno di chi vende recupero (comunità) e viceversa. Lo Stato, vigile, regola il traffico. Chi assume sostanze stupefacenti deve credere nella droga, poi odiarla, poi sperare di "recuperarsi socialmente" e via così, almeno in buona parte dei casi. Senza l'ideologia, le sostanze cosiddette stupefacenti sarebbero delle merci povere; con lo spettacolo diventano merci eccellenti, inferiori solo al danaro. (Si pensi soltanto al cosiddetto costo del danaro, del tutto fittizio e sovradeterminato.)
Eccoci: questa merce che si valorizza in progress e che per ciò ha bisogno di trafficanti e poliziotti, ma anche di giuristi e di mafiosi, di giornalisti e di politici, di Stato, è divenuta la merce per eccellenza della società neo moderna, quella in cui il valore d'uso è quasi irrintracciabile nella frenesia insensata del valore di scambio.
Eccoci: la fine storica del progresso ha determinato il suo mostro spettacolare: la riproduzione drogata e drogogena, supportata dalla drogorepressione.
Quattro 
La gamma dei bisogni umani a cui le droghe dovrebbero rispondere è vastissima. Le sostanze euforizzanti o calmanti o che alterano comunque gli stati di coscienza, cioè le cosiddette droghe, sono essenzialmente piacevoli, seppur in misura diversa ed a seconda della sensibilità di ciascuno, come tutti sappiamo. Infatti, neppure la caricatura di un Muccioli, già di per sé caricaturale rispetto all'intelligenza, potrebbe sostenere che la gente assume sostanze stupefacenti solo per farsi del male o per culto del Male. Le pulsioni tanatiche sicuramente esistono ed hanno il loro peso specifico nel processo di assunzione di droghe, ma sono assai più complesse, stratificate, profonde e soprattutto coinvolgono molte condotte umane anche al di fuori della droga.
Bisogna affermare in tutta serenità intellettuale che le droghe danno, o possono dare, degli effettivi piaceri, oltre alla simulazione dei medesimi. E' pur vero che la coazione a ripetere, insieme all' ossessiva ricerca del danaro necessario per procurarsi la sostanza e della rete di rapporti indispensabili per stare nel "giro" (e tutto ciò è essenzialmente collegato alla tossicodipendenza), è stressante e può diventare odiosa al punto da cancellare i piaceri iniziali o momentanei. Ma anche qui bisogna essere precisi, senza veli ideologici o moralistici. Spesso proprio questa iterazione fa parte dei "piaceri" della tossicodipendenza e peraltro già quasi quarant'anni fa William S. Burroughs, scrittore per certi altri versi insopportabile e neoavanguardista, affermava che la migliore sostanza è quella che dà più rapidamente assuefazione, proprio perché spesso il tossicodipendente cerca la dipendenza, la coazione a ripetere, vale a dire qualcosa che gli invada l'esistenza e ad essa dia un senso, ancorché stravolto. (Nella fattispecie, Burroughs esaltava, non senza evidenti venature di ironia, la straordinaria capacità di gregarizzazione dei tedeschi, inventori, dopo l'eroina Bayer, di un'eroina sintetica conosciuta come Eukodol e commercializzata in Italia come Eucodale, la cui capacità assuefattiva è decisamente superiore a quella dell' eroina "naturale".)
La questione è più semplice di quel che può apparire a prima vista. A chi va tutti i giorni, iterativamente, a scuola o al lavoro ed intrattiene, nella vita corrente e famigliare, rapporti che si riproducono indefinitamente può anche sembrare strano o malato che qualcuno cerchi l' iterazione nella e della droga, ciò che va sotto i nomi di "schiavitù", di "tunnel" eccetera. In realtà è proprio questo che molti drogati cercano: una normalità nell' (apparente) anormalità, una costanza nella (apparente) diversità. Il consumo di droghe che procurano assuefazione può riempire le giornate, può riempire intere vite, sinché morte non li divida. Nell'evidente impresentabilità ed insopportabilità della sopravvivenza coatta (scuola, lavoro, famiglia, soldi, consumi eccetera) la droga può sembrare un' avventura, un essere o trovarsi al di là di quei recinti. A cui, ovviamente, va aggiunto il piacere diretto che la sostanza può procurare. In una certa fase della sua evoluzione tossicomane, non vi è persona più attiva del consumatore di droghe ad alto tasso di assuefazione fisica o psichica (in particolare gli oppiacei o i derivati della coca): cerca e trova continuamente soldi, cerca e trova continuamente chi gli fornisce l'ambita sostanza, cerca e tro­va con ogni mezzo.
In una società che colonizza le esistenze di ciascuno può avvenire il paradosso: la schiavitù volontaria. L'horror vacui della sopravvivenza spinge a rifugiarsi in ogni apparente eccesso o, viceversa, in una normalità caricaturale.
La droga ha questo grande potere attrattivo: oltre ad offrire un qualche piacere, impone un ciclo di attività onnivore ed onnipresenti. In assenza di vita reale, il massimo grado di simulazione è ciò che compensa, o sembra compensare, la mutilazione e l'assenza. In una società in cui il consumo è tutto, naturalmente non può che trionfare il consumo più parossistico, specie se è eterodiretto e consente un alto tasso di profitto nell' amministrazione e per essa.
Cinque 
Non cadremo certo anche noi nell'iperbole dell'ultrasinistra minoritaria per cui la diffusione di droghe "pesanti" sarebbe stata voluta dai "padroni" per contrastare la sovversione sociale, inquinando le menti e le braccia migliori della nostra generazione. Ben labile sarebbe stata questa intenzionalità sovversiva se fosse bastata una manciata di polveri per ridurla in polvere. Il movimento è stato esattamente opposto: quando il "sogno di una cosa" non è stato all'altezza delle esigenze contemporanee, e spesso è diventato un incubo, quando il progetto rivoluzionario, o presunto tale, si è rivelato inconsistente e si è sgretolato nel suo possibile senso, riducendosi a microstorie politiche, di capetti senza abbastanza gregari e di gregari alla disperata ricerca di uscire dal gregariato, ma senza alcun progetto, allora la droga è stata un approdo anche per molti di quell'ultrasinistra che immotivatamente si autodefiniva rivoluzionaria. Vada sé che dopo un Brandirali o dopo un Sofri il cantuccio delle droghe possa sembrare caldo. Vada sé che tra un dirigente militante ed un normale spacciatore nessuno avrebbe dei ragionevoli dubbi. Vada sé che fra l'impotente schema operaista o la velleità anarchista o l'improbabile sicumera lottarmatista e la prepotente voglia di vivere degli individui si è facilmente insinuata la droga. Va da sé. Ma, come sempre, l'ultrasinistra parla solo di se stessa e per se stessa, come se a pochi metri dalla sua miopia ci fosse un altro continente, che forse c'è.
In realtà, la droga è un fenomeno intrinsecamente e profondamente sociale. Ha toccato gli ex ribelli quanto, se non più, i potenziali integrati. Possiede una valenza politica soltanto in seconda lettura. Perché possiede una sua particolarissima economia, frutto della società della riproduzione, dello spettacolo e dello spreco, e perché incatena i soggetti, quanto il lavoro se non di più, a quella iteratività che consente la continuazione della gestione politica. Il suo specifico uso politico sta nella falsa e coartata contrapposizione: drogaggio e recupero sociale.
Quando parliamo di controllo sociale allargato esprimiamo letteralmente quella che è la verità di fatto. Non è che la società matrigna si inventi forme di controllo sociale per impedire la crescita dei suoi antagonisti, anche se questo è un obiettivo intrinseco e dunque sempre presente. La società in quanto tale è votata al controllo, per il suo mantenimento, ed usa tutti gli strumenti opportuni per consolidarlo, estenderlo, allargarlo. La droga rappresenta controllo sociale non tanto perché disinnesca potenzialità sovversive, quanto perché i suoi fruitori vengono spinti alla coazione a ripetere ed all' auto gratificazione, alla rappresentazione di sé come "diversi". Il controllo si esercita attraverso l'anestesia; è, quindi, una misura intrinseca alla forma del dominio.
Chi potrebbe onestamente sostenere che la coca in sé è un male? Eppure è servita per secoli per far sopportare meglio la fatica ai contadini peruviani o colombiani eccetera, ed ancor oggi si risolve spesso in un input per attività per lo più irragionevoli. Chi potrebbe dire che l'alcol è in sé spiacevole? Eppure gli operai delle prime industrie inglesi, e non solo, con l'alcol potevano tollerare una condizione altrimenti inaccettabile, ed ancor oggi è veicolo di un'euforia altrimenti del tutto immotivata (si pensi agli hooligans, per esempio). Il controllo è preventivo ed anestetico, come dimostrano le grandi istituzioni: famiglia, scuola, (luogo di) lavoro, (fascino del) danaro eccetera, per tacere dell'ignominia dell'alienazione religiosa che, mutando i suoi panni nei vari continenti e riammodernando costantemente le sue forme, è uno degli esempi massimi della schiavitù in qualche modo volontaria e compartecipata.
La droga sta dentro il controllo sociale perché il controllo sociale è di per sé drogato. La sostanza stupefacente c'entra ben poco in questo meccanismo. Quello che invece c'entra è l'obbligo a movimenti quotidiani ossessivi, ad atteggiamenti più riproduttivi che produttivi.
Il controllo sociale attraverso il controllo dei fruitori di sostanze stupefacenti è esattamente di questo tipo: indotti determinati bisogni, il controllo diventa automatico, nel senso che le condotte dei singoli o dei gruppi divengono facilmente prevedibili. La previsione è la base del controllo. La proliferazione delle comunità terapeutiche, favorite da leggi proibizioniste, da investimenti economici, da interventi politici, nasce proprio dal bisogno di controllare e gestire interamente il ciclo. Come il cittadino diventa sempre più drogato, il drogato deve divenire sempre più cittadino. I concetti stessi di recupero e di risocializzazione sono, nella loro ripugnanza, assai indicativi: si recupera qualcuno ai valori glaciati di questa società, si risocializza qua­cuno rendendolo membro attivo (cioè totalmente passivo!) nella società della merce e dello spettacolo.
Sei 
La qualità intrinseca delle sostanze definite droghe spesso è assai irrilevante rispetto al peso che viene loro sovraggiunto dal contesto sociale e nell'uso che in certa misura viene favorito o consentito od obbligato. E ciò vale soprattutto per le malattie indotte dalla droga. Le droghe in quanto tali possono provocare varie alterazioni, a volte piacevoli ed umanamente positive ed a volte spiacevoli. Ed anche talune malattie in quanto sostanze (per esempio depressioni polmonari o epatopatie) e per il tipo di assunzione (ad esempio, le flebiti sono frequenti in chi ricorre all'uso dell'ago, così come riniti ed affezioni rinolaringee sono frequenti in chi ricorre all'inalazione). Ma le malattie più gravi sono quasi sempre determinate dall'interdizione sociale, dalle leggi e dalle morali, dalla condizione di minorità in cui il soggetto definito drogato viene a ritrovarsi. Per comodità e sveltezza di analisi, tralasciamo qui le malattie che in qualche misura possono essere considerate "minori" ed affrontiamo le tre più gravi: il carcere, la comunità terapeutica e l'aids.
Stampa popolare seicentesca, Il mondo alla riversa
Ad alcuni potrà sembrare bizzarro che si consideri il carcere come una malattia, ma, schiettamente, non sappiamo trovare dei termini migliori per definirlo. E' una malattia dell'intera società, è un forte riproduttore e diffusore collettivo di malattie, è direttamente patogeno rispetto ai soggetti che sono costretti ad attraversarlo. E' il segno di un morbo sociale e, a sua volta, è induttore di malattie specifiche, mentali e fisiche. E' pur vero, come si dice, che siamo tutti in qualche misura prigionieri dei nostri ruoli e dei comportamenti imposti, ma è altresì vero che il carcere è uno dei punti massimi di concentrazione dell' espropriazione, dell'innaturalità a cui tutti siamo sottoposti. Chi parla di un carcere "dal volto umano", di un carcere "a misura d'uomo", di uno strumento di risocializzazione, mente sapendo di mentire. L'unica cura riguardo a questa grave malattia è evidentemente l'abolizione del carcere medesimo, provvedimento non solo socialmente possibile e legittimo, ma umanamente necessario.
Esaminiamo il rapporto droga-carcere, e viceversa. Non ci rifacciamo a dati statistici precisi, perché per lo più confusi e spesso introvabili, eccettuate le più fredde descrizioni (tot detenuti per reati di droga, tot detenuti che si sono dichiarati tossicodipendenti eccetera), e soprattutto perché sono essenzialmente inaffidabili (la statistica è, per sua natura, una "scienza" appiattente, che dunque descrive solo ciò che già intende descrivere). Nondimeno tutti sappiamo che i frequentatori delle carceri - ed è significativo il delirante aumento in questo periodo della popolazione detenuta, nonostante il considerevole incremento delle "misure alternative" - in buona misura, in maniera diretta o indiretta, hanno a che vedere con le droghe. I dati ufficiali parlano di più di un terzo della popolazione carceraria, quantificandolo in 15.000-18.000, rispetto ad un totale che si aggira sulle 45.000 unità e che è in costante aumento. Secondo calcoli comparativi e fondandoci su esperienze ed informazioni dirette, sosteniamo che i detenuti che in qualche modo hanno a che fare con le droghe sono più della metà della popolazione prigioniera complessiva.
I perché di questa situazione sono di un' evidenza così palmare che ci si vergogna quasi ad affrontarli e discuterli. Le leggi proibizioniste hanno sicuramente un 'incidenza diretta (i reati specificatamente relativi alle droghe), ma assai di più indiretta, e cioè influenzando il mercato ed i suoi prezzi. Nei due sensi: quello del commerciante e quello del consumatore. Se una consistente fetta di società di affari, e non solo di origine malavitosa e mafiosa, si è riciclata nel traffico di stupefacenti è palesemente per l'altissimo tasso di profitto che questo tipo di attività commerciale consente, come si è già descritto. A parte piccole attività microimprenditoriali che possiamo definire quasi artigianali, si tratta per lo più di oligopoli diffusi territorialmente. Ma gli alti profitti determinano una serie di altre attività indotte che conducono al carcere. Non si parla soltanto, per esempio, del riciclaggio del danaro "sporco" (noi tuttavia non conosciamo danaro "pulito"), ma del potere che deriva da queste grosse potenzialità di investimento e che, da un lato, consente un ampio arruolamento di manovalanza a basso costo - non solo per il traffico in sé, ma anche per il reperimento di armi, per azioni violente eccetera - e, dall' altro, un costante intervento nelle e sulle strutture pubbliche per la realizzazione del plusvalore già accumulato. Questo dal lato del commerciante.
Dal lato del consumatore, i prezzi elevati delle sostanze spingono assai spesso ad attività delinquenziali (e di ciò tratteremo nel prossimo paragrafo) per far fronte a delle spese che altrimenti sarebbero ingestibili. Va da sé che i due aspetti spesso si intersecano: molti venditori diventano progressivamente consumatori, molti consumatori diventano progressivamente venditori o comunque collegati direttamente al ciclo della valorizzazione delle droghe.
Il carcere, dunque, è una delle malattie più fortemente determinate dalla merce droga e dal suo valore imposto.
La comunità terapeutica è la seconda malattia che vogliamo prendere in esame. Sappiamo che molti potranno stupirsi o addirittura scandalizzarsi, in quanto, vedendo la realtà con lenti che fanno apparire i fatti in modo rovesciato, credono, o fingono di credere, che la comunità terapeutica sia - ed il nome stesso indurrebbe a crederlo - la cura, o almeno una delle cure, rispetto alla vera malattia, cioè la droga. Questo è falso in senso stretto ed in senso ampio.
Non ci riferiamo soltanto a quelle comunità lager che usano metodi altamente coercitivi e che vanno piuttosto accomunate al carcere, ma all'essenza di tutte le comunità terapeutiche.
Lo scopo dichiaratamente salvifico della comunità si fonda su un assioma: la droga, ancorché fenomeno di diffusione sociale, è fondamentalmente un problema individuale e spinge i soggetti nell' emarginazione. Il còmpito della comunità è quello di rimodellare la personalità dell 'individuo e di renderla compatibile con l'ambiente circostante, alias la società. Dunque, lo si voglia lucidamente o meno, la comunità si erige come pilastro nella perpetuazione della società esistente. Non a caso i termini più usati sono quelli di "recupero", di "risocializzazione" e di "reinserimento" (alcuni, più raffinati o solo più cinici, parlano di "rifunzionalizzazione", neanche che il "drogato" non fosse già di per sé funzionale, sia alla società che alle loro tasche). La società esistente viene assunta come parametro e sostanzialmente immutabile, se non attraverso gradualissime modificazioni. Ma se questo, da un punto di vista teorico radicale, è già nauseabondo, nonché sconfessato dai fatti di ogni giorno, ben più gravi ne sono i risultati pratici sui singoli individui, o su gruppi di essi, ed è per questo che a buon diritto parliamo di malattia.
Malattia, in quanto la rimodellazione della "personalità" del soggetto considerato malato perché "drogato", richiede una sua più o meno volontaria alienazione: il drogato si aliena negli operatori, più in generale nell'ideologia proposta dalla comunità, più in generale ancora nelle ideologie dominanti della società di cui la comunità è espressione. Il "drogato" che ritorna "sano" in realtà diventa comunitàdipendente, tossico dell'ideologia che gli viene propinata. Nei fatti, spesso ritorna alle sue pratiche precedenti, ma con molti maggiori disturbi psichici e fisici, dato che, ai disagi dovuti all'assunzione di droghe in un mondo che le interdice, si somma il senso di colpa e, fisicamente, una sca­sa, ridotta capacità di "galleggiare" nell'ambiente abituale. I casi di overdose sono notevoli, come fra i dimessi dal carcere. Chi, invece, si normativizza di solito ha un bisogno costante di riferirsi all'entità di appoggio, la comunità con le sue ideologie. Una sorta di bambino adulto ed adulterato. Nessun segno di superamento, quindi, ma una particolare forma di regressione e di dipendenza. Una malattia ideologica, insomma. Neppure la psicoanalisi è giunta a tanto, a causare così gravi danni. Ma evidentemente il business delle comunità è di tutt'altre proporzioni. Né la solita giustificazione («intervenire sul disagio, togliere sofferenza») può essere credibile. Non per caso esistono pochissime strutture pubbliche, non per caso in quasi nessuna comunità viene accettato un soggetto in stato di crisi di astinenza acuta, che è il momento più alto del "bisogno", non per caso i programmi terapeutici hanno essenzialmente una valenza ideologica.
Possiamo dire che il presunto rimedio, la comunità, è spesso peggiore del male. Non per nulla viene proposta come opzione rispetto al carcere. E se intendiamo come stato morboso l'aggressione incontrollabile di agenti esterni che tendono a ledere l'organismo vivente, allora affermiamo tranquillamente che la comunità è un agente patogeno.
La terza "malattia" che vogliamo considerare è l'aids. Non ci dilungheremo troppo, rimandando al libro La Mal' aria. Aids e società capitalista neomoderna di recente pubblicazione a cura del gruppo T4/T8. Evidentemente il retrovirus Hiv non colpisce soltanto soggetti tossicodipendenti, ma è altresì vero che attualmente, almeno in Italia, fra i contagiati è molto alta la percentuale di tossicodipendenti. Anche in questo caso le cause o concause sono palesi. Se è vero che l'Hiv si propaga essenzialmente per via sanguigna e per via spermatica, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è una delle maggiori cause di contagio, se è vero che il "passaggio" delle siringhe è dovuto alla clandestinità della pratica, di modo che spesso non si possono osservare le necessarie precauzioni igieniche (per non parla­re del carcere, dove praticamente è impossibile ottenere siringhe sterili), è altresì vero che i soggetti maggiormente "a rischio" sono i soggetti più deboli, a causa del tipo di vita che conducono, dello stress eccetera. E' evidentissimo che l'alto prezzo della merce droga, la sua circolazione spettacolarmente clandestina (in realtà si trova ad ogni angolo di strada, ma sempre avvolta in un' aura di illegalità e di pericolo) determinano comportamenti che riducono sensibilmente le difese dell'individuo, aumentano lo stress, spesso impediscono condizioni alimentari, igieniche, abitazionali all' altezza della società capitalista neomoderna, costringendo i consumatori nell' angolo buio ed infetto della società, che è già buia ed infetta per suo conto.
Ma, a differenza di quel che si può credere, l'aids, al pari delle leggi proibizioniste e repressive, aggiunge valore alla merce droga invece di togliervene. Questa è una merce che si valorizza attraverso l'immagine diffusa del rischio, che non viene quasi mai assunta in quanto tale, cioè senza forti connotazioni ideologiche, e che dunque si alimenta con il "rischio". E' una trappola ben congegnata. E se non vengono compiuti efficaci interventi è proprio per la valorizzazione della merce. In una società ridotta all' autoriproduzione costante è necessario che queste "malattie" esistano: un esercito di professionisti mantiene la riproduzione ideologica e materiale della società stessa. Nei casi citati si pensi soltanto al numero di persone che vengono coinvolte nell' amministrazione di leggi e carceri, di comunità, di "aiuti" psicologici e medici eccetera, nonché di tutte quelle che vi fanno sopra diffusione ideologica, cioè informazione. E' senz'altro una delle più potenti industrie della riproduzione iterativa, allargata ed amministrante fra quelle che esistono, ed impiega molte più persone delle maggiori industrie produttive che conosciamo.
Nella società neomoderna queste malattie sono indispensabili e la droga è uno dei suoi principali vettori. Nella putrescenza dell'esistente societario, la droga, trasformata di senso e di uso, è la merce eccellente della putredine, il valore neomoderno quasi allo stato puro.
Sette 
Dopo quanto sin qui esposto, sarebbe inutile dilungarci sui motivi che determinano, attraverso le droghe, la criminalità (micro e macro) e la devianza. Potremmo ribadire l'importanza del prezzo di mercato, l'essenzialità delle leggi proibizioniste, la ripulsa sociale e morale a cui il "drogato" viene sottoposto. Non ci pare il caso. Ci pare il caso, invece, di sottolineare tre punti.
* La delinquenza è una forma fondamentale di riproduzione economica e per questo viene non solo tollerata ma spesso favorita nella società neomoderna. Sia a livello alto, sia a livello minimo. La gestione mafiosa dell' economia su vasta scala non è affatto differente da quella "legale": gli uni hanno imparato dagli altri e viceversa. Richiede una forte coesione del "gruppo", una gerarchia determinante, un controllo territoriale e sociale notevole, una gestione politica. Soprattutto richiede che il processo di valorizzazione delle merci venga dato essenzialmente dal potere autoritario e dalla circolazione ossessiva. Il potere autoritario serve come fissazione del mercato, come imposizione di questa o quella merce, come autonomizzazione del valore di scambio che, a quel punto, dipende soltanto dal potere autoritario stesso. In questo senso e riguardo alle droghe, le leggi proibizioniste e la gestione mafiosa del mercato funzionano in modo complementare. L'essenziale è che il valore di scambio sia sempre più sganciato dal valore d'uso e tenda ad una sua autonomia che, a livello parossistico, non può venir controllata che da forme delinquenziali, cioè che sappiano ricorrere opportunamente all'intimidazione ed alla violenza. Lo Stato, gestore monopolista della violenza, in una sua fase di ristrutturazione, e dunque di crisi, non può che delegare, almeno in parte, ad altri il suo aspetto delinquenziale. Ma c'è un secondo livello, che potremmo definire di microdelinquenza. La microdelinquenza altro non è se non una forma di perversa autogestione della circolazione di certe merci. Il tossicodipendente, che, per esempio, ruba automobili per comperarsi la roba, inconsapevolmente serve più padroni. E' nel momento della circolazione ossessiva delle merci che queste aggiungono valore. L'automobile rubata andrà ritrovata o sostituita, interverranno le assicurazioni, ci saranno i ricettatori e rivenditori, i quattrini del furto andranno agli spacciatori (in scala) e via così. Nel processo, l'automobile si è autovalorizzata, mentre la roba conserva intatto il suo valore, già autovalorizzatosi in precedenza. Il "lavoro" del tossico diventa così effettivamente lavoro, realmente riproduttivo e sociale. La droga, quindi, esalta al massimo la circolazione delle merci, in base al nuovo modello societario: la merce deve valorizzarsi soprattutto al di là del suo momento produttivo.
* La droga, si è detto, funziona benissimo come produttrice di delinquenza, ma la delinquenza a sua volta è perfettamente funzionale al sistema di gestione amministrativa ed ideologica della società. Per la coesione di una società che non ha più ragioni di esistere, la ricerca e l'individuazione del "nemico" è basilare. Il nemico è quella cosa che ricompatta individui o gruppi sociali che altrimenti potrebbero entrare in collisione. La delinquenza, specie se massmediatizzata e spettacolarizzata, è il "nemico" che consente il ricorso ad emergenze continue, che sono, tutte, delle boccate di ossigeno per un sistema asfittico. La droga, che è già un "nemico", genera l'attuale nemico per eccellenza, la Mafia (perché ovviamente è dalla droga che nella fase attuale le mafie ricavano i loro più alti profitti), e contemporaneamente la microdelinquenza che crea nella gente "dabbene" quello che viene definito un clima di "allarme sociale". La droga sta alla delinquenza come lo Stato sta alla mafia: si alimentano mutuamente e tutti servono molti padroni.
* Sulla creazione di devianza e sulla funzione delle comunità di recupero o delle istituzioni più dichiaratamente repressive, non ci ripeteremo. Che la droga serva anche a questo, ed assai, ci pare sin troppo evidente. Ci preme invece un aspetto spesso troppo sottovalutato: la produzione di comportamento, di ideologia. Ancorché deviante, il "drogato" esprime e manifesta un modello. Si tratta di un modello che sta a cavallo tra la normalità e la trasgressione. Indica l'adesione al consumo al suo stato più puro ed alto. Il suo consumo forzato rimanda a tutti i consumi, per lo più forzati. La sua normalità consiste nella ripetizione maniacale del consumo, la sua trasgressione nell'aver scelto come merce principale una merce illegale. Si creano così delle microcomunità autogratificantisi che in certo senso sono esemplari, indicano dei modelli. Il drogato è, sì, oggetto di pubblica riprovazione, ma spesso anche, in ambienti socialmente e territorialmente ben definibili, di privata ammirazione, specie nella fase "ascendente" del suo iter (quando ruba mo­to o si mette a spacciare, ha tanti quattrini, li sperpera volentieri eccetera). La devianza così, prima di finire in pasto alle pratiche repressive e recuperatorie, è motore ideologico, è punto di riferimento sociale - positivo e negativo al tempo spesso. La diffusione iterativa ed allargata di ideologie è uno dei presupposti, oltre che una delle conseguenze, della società dello spettacolo, della società neomoderna, quella in cui lo spettacolo da sé solo non basta più ma può avere forza soltanto attraverso il suo incessante "riammodernamento".
Il drogato, anche in questo caso, è la materia prima.
Sostenere che la liberalizzazione delle droghe (non la loro statalizzazione, ciò che va sotto il nome di legalizzazione, che affiderebbe maggiore autorità allo Stato senza toglierne al mercato) è l'unica soluzione possibile è una banalità di base, che naturalmente bisogna diffondere in ogni situazione possibile. Ma è altresì certo che questa ipotesi non può nascere dall'illusione di porre rimedio alla delinquenza ed alla devianza, ma dalla convinzione che è necessario cominciare a porre rimedio al capitale ed allo Stato.
La delinquenza, dopo essere stata opportunamente utilizzata e spettacolarizzata, deve trasformarsi in devianza istituzionalizzabile. La devianza in progressiva demenza, onde concludere il ciclo. Con buona pace della materia prima. Ed è in questo percorso, e solo in esso, che la materia prima, cioè il cosiddetto drogato, deve ricostituirsi come soggetto, rifiutandosi di essere materia prima, negandosi al senso della colpa, impedendosi di funzionare realmente come materia prima. Sabotando gli architetti ed i muratori che, usandola come mattone, edificano quell'orrore che la droga da sé sola non potrebbe mai costruire.
Otto 
Ma, affinché l'intero meccanismo funzioni, la droga deve venir trasformata nel Drago, in un' entità terribile e venefica che ci fa sperare tutti nell'intervento di San Giorgio. Il processo di spettacolarizzazione raggiunge qui il suo punto più elevato, la sua vetta. La droga viene scorporata non solo dalle sue caratteristiche intrinseche, di sostanza, ma anche dalla sua effettiva valenza sociale, dall'impulso sociale alla creazione di drogati. Così astratta, la droga, uno dei motori della società mercantile neomoderna, assume un aspetto quasi mitico e maligno. Serve a nascondere la glaciazione a cui tutti siamo sottoposti, a dimostrare che la ricerca dei piaceri si trasforma nella loro mostruosa negazione. L'immagine del Drago, che spesso abbiamo usato, non è stata scelta per caso né è soltanto frutto di un anagramma (droga-drago). Il drago è un "mostro" incerto, di cui si disconosce la natura e la provenienza, che in certe culture viene adottato come simbolo di forza, di potenza, ed in altre di malignità, espressione del male. Noi della droga conosciamo perfettamente la natura e la provenienza, ma nel processo di rimozione eteroguidato tendiamo a dimenticarle, a trasformarla in una mostruosità. L'inibizione morale e sociale non sarebbe possibile se la droga non venisse trasformata nel Drago. E, senza inibizione, la merce droga non sarebbe quel motore di cui si è detto sin qui. Né i falsi sciamani potrebbero presentarsi come dei San Giorgio. Riproduciamo qui, non per gusto della ripetitività ma per amore dell'essenzialità, il manifesto "Liberarsi", accluso a suo tempo nel volume Intorno al Drago.
«Il Drago è stato evocato, risvegliato dal sonno del mito, lo si è fatto aggirare tra i gas delle metropoli affinché fiammeggianti potessero stagliarsi le immagini dei nuovi San Giorgio rilucenti d'armi e di parole.
Il Drago di oggi si chiama Droga. Ma ovviamente, trattandosi di professionisti della menzogna, nessuno dice la verità: né i pretesi San Giorgio, né i molti untorelli, né gli specialisti d'ogni specialismo, né i terapeuti interessati, né i preti voraci d'anime, né i liberals illuminati dalla vanità, né, certo, i poliziotti, i giudici, gli avvocati, i giornalisti. Né i mafiosi e gli spacciatori. Nessuno dice: in verità siamo tutti amici del Drago, l'abbiamo costruito, imposto, prodotto e riprodotto, sceneggiato, è la merce per eccellenza, quella che tutte le contiene e le spiega, spiegandone i perversi meccanismi.
Nessuno dice: abbiamo gonfiato ed arricchito le mafie perché Stato e Mafia devono vivere in simbiosi mutualistica, devono presupporsi ed alimentarsi a vicenda, rappresentarsi come Società, la Seconda Natura, per la maggior gloria del Dio-Capitale, della sua Merce, del suo Spettacolo.
Liberarsi dalla subordinazione alla droga, compresa quella ideologica e produttivistica, significa liberarsi dalla società mercantil-spettacolare. Liberarsi dalle Mafie è liberarsi dallo Stato.
I Draghi ed i San Giorgio stanno dalla stessa parte. Già solo questa ragione, e mille di più ne esistono, basterebbe per scegliere di stare dalla parte opposta: quella della liberazione.»
Nove 
Il ramo dell'ago di Narco che più ci sta infettando è quello intriso dal sangue delle ideologie e delle false spiegazioni. Quello che, miserevole ago, si spaccia come rutilante spada. Quello che non può fare a meno di Narco, costruito a sua immagine e somiglianza.
L'altro ramo dell'ago di Narco fa assai meno paura perché si disvela da sé, non nasconde le sue miserie.
Chiunque parli di liberazione dalla dipendenza dalle droghe senza parlare della necessità della liberazione dalla società presente, parla con lingua biforcuta ed è nostro nemico, un sostenitore dell' esistente.
Chiunque parli, invece, della riscoperta della stupefazione, come moto irrinunciabile dell'animo lanciato nei difficili percorsi dell'avventura e della fondazione della comunità umana e lo colleghi con la critica radicale di tutti gli aspetti della società capitalista neomoderna e del suo Stato, parla con lingua diritta, ed è nostro amico, sostenitore della più ampia delle "cure" che si possano ipotizzare.
«La ferocità del quale spettacolo fece quelli populi in uno tempo rimanere satisfatti e stupidi.»
N. Machiavelli, Il Principe».
[Testo tratto da Nel vento, sito sul quale sono reperibili molti degli scritti di Riccardo D'Este]

6 ottobre 2008

La java des bons enfants

di Guy E. Debord 



[Il testo di questa canzone, attribuito a Raymond Caillemin, alias Raymond-La-Science, membro della celebre “Banda Bonnot”, ma scritto in realtà negli anni ’60 dal situazionista Guy E. Debord, si riferisce all’attentato contro il commissariato di polizia di Rue des Bons Enfants, a Parigi, dell’8 novembre 1892.]


Dans la rue des Bons-Enfants, 
On vend tout au plus offrant, 
Y avait un commissariat 
Et maintenant il n'est plus là. 
 
Une explosion fantastique 
N'en a pas laissé une brique, 
On crut qu'c'était Fantomas 
Mais c'était la lutte des classes. 
 
Un poulet zélé vint vite, 
Il portait une marmite, 
Qui était à renversement, 
Et la r'tourne imprudemment
 
Le brigadier, l'commissaire, 
Mélés aux poulets vulgaires, 
Partent en fragments épars 
Qu'on ramasse sur un buvard. 
 
Contrair'ment à c'qu'on croyait, 
Y en avait qui en avait, 
L'étonnement est profond, 
On peut les voir jusqu'au plafond.
 
Voilà bien ce qu'il fallait 
Pour faire la guerre au palais, 
Sache que ta meilleure amie, 
Prolétaire, c'est la chimie. 
 
Les socialos n'ont rien fait 
Pour abrèger les forfaits 
D'l'infamie capitaliste 
Mais heureusement vient l'anarchiste. 
 
Il n'a pas de préjugés, 
Les curés seront mangés, 
Plus de patrie, plus de colonies, 
Et tout pouvoir, il le nie. 
 
Encore quelques beaux efforts, 
Et disons qu'on se fait fort 
De régler radical'ment 
L'problème social en suspens. 
 
Dans la rue des Bons-Enfants, 
Viande à vendre au plus offrant, 
L'avenir radieux prend place 
Et le vieux monde est à la casse ! 


4 ottobre 2008

Ricordando Giorgio Cesarano

 Dalla diserzione della cultura alla corporeità insurrezionale
di Paolo Ranieri*
Quando l’ho conosciuto era il settembre del 1969: io avevo diciassette anni appena e mi riusciva difficile non usare il “lei” per rivolgermi a Giorgio e all’immancabile Flo Corona, fido e sorridente Kammamuri di un così umbratile, corrucciato e inaccessibile Tremal-Naik.
Ho sempre ignorato se, aldilà della sua maniera cortese, lui avesse il desiderio o anche solo il modo di distinguermi davvero, e con me vedere tanti altri ragazzi risoluti a cogliere l’occasione proposta dalla storia, d’essere giovani in un momento in cui il mondo era giovane. Solo con il volgere del tempo sono riuscito a comprendere quanto la cospicua differenza d’età che ci separava potesse costituire un problema altrettanto e forse più per lui che per me; e, ancor di più quanto anche per lui quei giorni concitati fossero una scoperta assoluta e sconvolgente, quanto egli pure vivesse un mutamento decisivo, tanto più destabilizzante perché sopravvenuto in qualche modo di sorpresa. Negli anni seguenti, poi, nonostante l’intreccio di comuni amicizie e di prese di posizione relativamente concordi, circostanze e scelte non ci diedero mai l’occasione di costruire una specifica confidenza.
Perciò, se non ho indubbiamente la preparazione e la competenza che altri possono vantare, per affrontare le sue tesi con la profondità appropriata, nemmeno posso apportare un decisivo contributo personale al ritratto di un compagno la cui vita è senza dubbio legittimo oggetto di indagine appassionata almeno quanto e forse più delle opere stesse.
Posso unicamente portare un ricordo mio, e provarmi a sviluppare questo spunto nell’ambito del nostro tempo e delle sue possibilità, poco meno inesplorate di quanto Giorgio ce le avesse lasciate, così tanti anni fa.
Indelebile per me rimane il ricordo d’aver veduto in mano a Giorgio, avvolto e quasi celato da un fascio di giornali che regolarmente l’accompagnava, il Traité di Vaneigem, nella prima storica edizione Gallimard, vera chiave alchemica della teoria situazionista. Teoria situazionista che in quei giorni cruciali che accompagnarono la nascita di Ludd, primo tentativo italiano di dare forma collettiva alla critica della vita quotidiana, si spandeva in Italia con la stessa sporadicità e lo stesso segreto, veniva attesa e ricevuta con un’emozione simile a quella con cui tante persone (in parecchi casi le stesse) di lì a pochi anni avrebbero atteso i primi arrivi di morfina da Peshawar o di brown sugar da Amsterdam.
Ciò che ho scoperto sulla libertà, come pure ciò che ho appreso della lingua francese l’ho imparato insieme ad altri in quelle letture matte e sregolatissime, ingegnandomi di giungere al fondo di quei testi, nelle pause delle riunioni, sui tram, nelle osterie, sulle panchine, nei corridoi del liceo.
Racconto questo per sottolineare come, nella mia memoria, la scoperta di Vaneigem (conoscevo già certi frammenti di Debord e di Khayati, seppure nelle traduzioni fantasiose e spudorate in circolazione a quel tempo) rimane per me parte del ricordo di Giorgio, del suo montone e di quell’inverno.
D’altra parte, anche a uno sguardo meno personale, l’analisi di Cesarano verte incontestabilmente su temi prossimi, per certi aspetti complementari, per certi altri integralmente sovrapponibili a quella di Vaneigem. Nell’indagine di entrambi questi rivoluzionari la capillare pervasività delle relazioni mercantili nel corpo degli esseri umani, e del pari l’ostinata irriducibilità dei corpi a tali imperativi, rimane dal principio alla fine nella linea del mirino. Entrambi passeranno l’intera loro vita di sovversivi su questo fronte, quello della "vera guerra".
Non è possibile però non riconoscere con uguale prontezza che ben diverse – e talvolta francamente opposte – sono le sensibilità con cui i due affrontano la medesima materia: e che diversi potrebbero risultare gli esiti della loro opera, se di esiti in un campo come la vita fosse possibile parlare.
Il definitivo e storicamente irreversibile dislocarsi della "lotta di classe" – definizione ormai ogni giorno più impropria, utilizzabile più per il potere evocativo verso un filo ininterrotto di avventure della libertà che per la sua attuale praticabilità in senso letterale – nella vita, nel corpo stesso degli individui, che entrambi non solo riconoscono, ma decisamente precorrono facendone il centro delle loro riflessioni già trent’anni orsono, appare in Vaneigem, come l’occasione finalmente offerta di giocare in casa, con tutti gli elementi della vita in proprio favore, liberi da quelle sovrastrutture che ostacolavano il dispiegarsi sovversivo del vivente; in Cesarano viceversa l’irrompere dell’alienazione mercantile all’interno stesso dei corpi viventi, appare come "l’ultima trincea " di un assedio sempre più drammatico e incalzante, come la vigilia di una battaglia che non è possibile perdere, e che proprio per questo si annuncia illuminata di lampi sinistri. Assumendo come valido il suggerimento di Francesco Kuki Santini, che Giorgio dovesse una specifica illuminazione della propria opera di quegli anni alle sue sperimentazioni con l’LSD, potremmo concludere, scherzosamente ma non troppo, che l’assenzio che accompagnò la stesura delle vaneigemiane Banalità di Base appare capace di produrre allucinazioni meno esposte alle fughe paranoiche di quelle lisergiche…
Certamente, aldilà di queste note a margine, è indubitabile che entrambe le possibili letture del progressivo configurarsi del confronto per la liberazione umana, come scontro fra il vivente e il non vivente, fra la vita e la morte, fra il corpo vivo e il lavoro morto, presentano un proprio legittimo fondamento.
E che, per conseguenza, appaiono superficiali, sterili, riduttive, foriere di risentimento, di contemplazione e di immobilismo, le polarizzazioni sempre più frequenti e cocciute, al punto di dar vita a vere e proprie correnti, fra questi due rivoluzionari. Atteggiamenti che contrappongono di volta in volta la fiduciosa "naiveté" del belga, definita come patriarcale, riconciliata, infantile, rimbambita perfino, al sulfureo tormento di Giorgio, dagli oppositori presentito a sua volta come romantico, autolesionista, illeggibile, al limite menagramo.
Risalendo alle fonti, per individuare quanta di questa opposizione possa trovare fondamento, è possibile affermare con certezza che Giorgio prestò per un periodo profonda attenzione all’opera di Vaneigem, in particolare complicità con Eddie Ginosa, un compagno l’importanza del cui contributo alla teoria rivoluzionaria, per discrezione forse, o magari semplicemente per la folgorante brevità della sua meteora, non è stata, io credo, riconosciuta a dovere. Viceversa risulta che Vaneigem lesse solo Apocalisse e rivoluzione in italiano – lingua che padroneggia imperfettamente – e che, in effetti, ne ricavò un ricordo, a sua detta, romantico e confuso.
Occorre altresì considerare, per confrontare lealmente l’azione e l’opera dei due, che il breve arco di tempo che Giorgio ha concesso alla propria ricerca, come pure il clima specifico di quegli anni precipitosi, segna i testi di Cesarano di una patina assai simile a quella che caratterizza gli scritti coevi di molti altri compagni, e dello stesso Vaneigem nelle opere precedenti al "Libro dei piaceri", volti gli uni e gli altri a quell’opera di semplificazione, di accelerazione, di riduzione all’essenza, di scarnificazione quasi, che è il marchio oscuro di quel periodo. E’ impossibile dire ora quanto – in condizioni diverse e più felici – lo sviluppo potenziale della ricerca di Giorgio non avrebbe saputo riaprire possibili canali di intercomunicazione, la cui esplorazione rimane un avventuroso invito ai teorici di oggi e di domani.
In particolare, nella critica radicale del periodo 1969-1975, è ravvisabile, e non soltanto nei due rivoluzionari, che ho l’ambizione di portare insieme alla luce della vostra attenzione, ma un po’ in tutte le voci diverse e discordi che la memoria ci riporta (si pensi per esempio a Comontismo o al gruppo genovese riunitosi intorno a Gianfranco Faina, dopo che l’esperienza di Ludd si era spenta), la convinzione, che lo scatenarsi della "vera guerra" debba comportare come corollario l’abbandono, il rifiuto e l’oblio di ogni complessità, di ogni sovrastruttura, di ogni mediazione, per mirare viceversa ad afferrare "nella sua essenza" il punto di rottura possibile, situato nel punto della massima alienazione, precisamente dove il capitale nel proprio processo si fa carne viva. Ricordo ancora nello storico crocevia sovversivo di Balbi, sede delle facoltà umanistiche dell’università di Genova, la scritta – temperata nella propria solennità dall’essere vergata in dialetto genovese – "il dominio reale è il capitale fatto uomo". Il non aver compreso che all’opera mortifera di riduzione all’essenza operata dal capitale, non poteva contrapporsi una riduzione uguale ma di segno contrario, di ricerca di un momento di irrecuperabilità assoluta e catartica; ma piuttosto una ricerca della molteplicità, della sovrabbondanza e anche della leggerezza, una moltiplicazione fourierista delle passioni e delle soggettività, è quanto, a mio modo di vedere, segna in maniera negativa, a volte tragicamente negativa, quegli anni che molti di noi hanno avuto in sorte di attraversare e che Giorgio invece ha scelto come ambito storicamente concluso del suo passaggio nella storia.
Se appare improprio, perciò, mettere a confronto e quasi in competizione due compagni che nell’arco della loro vita pensarono sempre di por mano al medesimo progetto di affrancamento dell’umanità dalla preistoria, non c’è dubbio, tuttavia, che la ricomposizione in un compatto universo teorico dell’opera dell’uno e dell’altro appare francamente impossibile, tali e tante sono le sensibilità discrepanti, le percezioni contraddittorie, i segni divergenti. Sono convinto, però, che tale impossibilità vada ripensata nell’ambito di una rinnovata capacità di fare interagire diversi progetti sovversivi, come pure differenti modi di vivere con inimicizia l’esistente: quella capacità rinnovata che è, a mio giudizio, il più significativo portato recente del movimento di liberazione umana, quale con rinnovato vigore si affaccia sul millennio in arrivo.
Per sottolineare il mio ragionamento, mi piace ricorrere qui a una parabola tratta precisamente dal Traité; una narrazione che mi coinvolge a fondo, tanto che non è la prima volta che me ne avvalgo a sostegno dei miei argomenti. Se é probabile che tutti coloro che mi prestano ascolto la conosceranno già, mi auguro tuttavia che vorranno essere indulgenti con la mia scelta di riproporvela:
«In un villaggio, due fratelli avevano la mania di riporre in un sacco delle pietre bianche o delle pietre nere per segnare, alla fine della giornata, l’uno i momenti di felicità, l’altro i momenti di dolore. Benché conducessero vite assai simili, il sacco di uno si riempiva solo di pietre bianche, quello dell’altro solo di pietre nere. Incuriositi, interrogarono al riguardo un uomo noto per la saggezza delle sue parole, la cui risposta fu "Voi non vi parlate abbastanza, ciascuno motivi all’altro le ragioni della propria scelta"
«Poiché, anche in tal modo, il mistero pur definendosi più precisamente si manteneva tale, i due fratelli posero all’intero villaggio la domanda posta loro dal saggio: "Perché il gioco delle pietre ci appassiona tanto?" e l’intero villaggio, meno i notabili e i capi, vi si era appassionato, tanto da trascurare ogni altra attività.
«Pochi giorni più avanti, al termine di una notte agitata, la gioia regnava nel villaggio e il sole illuminava le teste tagliate e fissate alle palizzate, le teste dei notabili e dei capi.»
Notiamo in questa storia che Vaneigem narra per rappresentare ciò che tutti, dopo di lui, chiamiamo "rovesciamento di prospettiva", due punti essenziali:
· pari dignità, pari sensibilità, pari fondatezza vengono riconosciute al fratello delle pietre bianche, posseduto dalla passione di desiderare e di rendere ad ogni istante più intensi e più duraturi i propri godimenti, (e come non riconoscere in questa figura Vaneigem stesso, bambino malizioso e appassionato, ricercatore e catalogatore di piaceri senza fine, vero Fourier del nostro tempo?) e il fratello delle pietre nere, che non riesce più a convivere con il proprio tormento (e non possiamo individuare qui colui che era allora il fratello in passioni di Vaneigem, quel Debord che – come riferiscono concordi i suoi biografi – "non rideva mai"?; e non possiamo, all’interno di questo nostro ragionamento, rilevare la somiglianza del medesimo con Giorgio, affascinato e quasi ipnotizzato dall’orrore antropomorfico del capitale, la cosa vivente che si muove nei corpi?); in nessun momento Vaneigem sottintende che l’una o l’altra modalità siano in qualche misura più coerenti con quel discorso di liberazione in cui sono entrambe iscritte;
· ciò che è essenziale e che scatena il processo che condurrà, in un precipitare alchemico, alla liberazione, al momento cioè - come ci informa il saggio - in cui la questione non si porrà più , consiste nel fatto che i due, e dopo di loro tutti, tutti coloro che non riconoscono propri interessi in questo mondo (quelli che lo vivono come insoddisfacente e quelli che lo percepiscono come troppo invasivo), si parlino e fra loro confrontino le proprie ragioni.
Se non mi riesce di trovare una piena identificazione con nessuno dei due fratelli e magari il contenuto del mio sacco finirebbe per risultare, a seconda dei periodi e delle circostanze, odiosamente punteggiato di bianco e di nero, incontro ugualmente una certa difficoltà – almeno per ora – a svolgere il ruolo del saggio vegliardo. Anche se forse occorre prendere coscienza che è urgente che delle voci si levino per dire "voi non vi parlate abbastanza" ai mille e mille appassionati, come pure ai mille e mille tormentati che attraversano le nostre giornate e magari hanno perso anche la fiducia necessaria per chiedere: "Come mai? Che cosa ci ha condotti qui?". Ma anche se sono restio ad accettare la condizione, sgradevolmente irreversibile, del saggio veggente, pur tuttavia, reputo indispensabile ed urgente riguardare questi due filoni della critica della vita quotidiana, quello che potremmo chiamare "apocalittico" e quello che potremmo definire "armonico", nello spirito non già di farne prevalere uno, indicando nei seguaci dell’altro dei reprobi, come pure si è talvolta fatto e qualcuno continua a fare; né di cavarne un’improbabile sintesi, che nella più fortunata delle ipotesi finirebbe per svigorire e neutralizzare quanto di irriducibilmente umano e creativo è presente nel contributo di questi compagni: ma piuttosto di far parlare e rendere capaci di ascoltarsi a vicenda abbandono alle passioni e insorgere della rivolta, corpi appagati e corpi offesi, desiderio sempre rinnovato e rifiuto rabbioso di ogni costrizione, così da rendere davvero critica quella massa muta di scontenti su cui merce e spettacolo volano, nella stessa maniera in cui Geova volava corrucciato e colmo di cattive intenzioni sopra l’oceano primordiale.
La soluzione del nodo apparentemente inestricabile delle vite alienate e dei corpi irrigiditi e insensibili, se di soluzione è possibile parlare, sta innanzitutto in una ritrovata volontà di mettere in comunicazione fra loro i mille diversi modi di voler godere e di non voler più soffrire. Sta nel creare situazioni capaci di questo, di far sì che la parola torni a gettare echi, che l’azione ricominci a creare il mondo.
Mi si potrebbe dire, anzi sicuramente qualcuno dirà che questa stessa proposta e lettura delle possibilità del presente è in fondo una proposta ottimista, da irriducibile "pietra bianca": e in effetti, sì, personalmente sono convinto che se una pietra sarà capace di spezzare quello schermo, quella vetrina, che ci tengono separati dalla nostra vita, quella pietra sarà bianca, sarà la pietra del desiderio smisurato che travolge ogni ostacolo.
Ma se qualcuno vorrà farsi innanzi e provarsi nella stessa impresa con la propria pietra nera, magari ricercata nell’ancora parzialmente inesplorata soggettività ribelle che Giorgio ci ha regalato, questo qualcuno si faccia innanzi senza indugio: sarà sempre e in ogni momento il benvenuto.
Milano, giugno 2000
* [Il primo di luglio del 2000 si tenne a Bologna (Villa Serena) un convegno su Giorgio Cesarano (1928-1975). Quella che pubblichiamo è la testimonianza di Paolo Ranieri letta nell'occasione].

[Testo tratto dal sito http://digilander.libero.it/biblioego/]